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Messaggi del 22/06/2015

Il Malmantile racquistato 05-2

Post n°1778 pubblicato il 22 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

QUINTO CANTARE

23
E Gambastorta, anch'ei balordo e stolto,
Mentr'apparir si crede un uom dabbene,
Alla favella, alla presenza e al volto
Per una fasservizi ognun la tiene.
Il foglio intanto il Duca avea lor tolto;
E veduto lo scritto e quel contiene (529),
Resta certo di quanto era indovino,
Che i furbi vorrian farlo Calandrino (530).

24
E poichè gli hanno detto che la Geva
A lui gli manda con quel foglio apposta,
Ma prima che da loro ei lo riceva,
Hann'ordine d'averne la risposta (531);
E soggiunto, che mentr'ella scriveva,
Gettava gocciolon di questa posta (532)
Per il trambusto grande ch'ella ha avuto,
Come potrà sentir dal contenuto;

25
Egli è, dic'egli, un gran parabolano,
Chi dice ch'ella ha scritto la presente;
Quand'ella non pigliò mai penna in mano,
E so di certo ch'ella n'è innocente.
Che poi tu sia la Fiore (533), che in Ugnano
A me fu molto nota e confidente,
E tu sia uom, a dirla in coscïenza,
A me non pare, e nego conseguenza.

26
I buon compagni a una risposta tale
Guardansi in viso; e in quel sendosi accorti
Ch'egli hanno equivocato e fatto male,
Restan quivi allibbiti e mezzi morti;
Ed alle gambe avendo messo l'ale,
Fuggon, ch'e' par che 'l diavol se gli porti,
Con una solennissima fischiata
Di Baldone e di tutta la brigata.

27
Adesso a Calagrillo me ne torno
Che va marciando al suon del suo strumento,
Colla dolente Psiche ognor d'attorno,
Ch'ad ogni quattro passi fa un lamento.
Ha camminato tutto quanto il giorno,
E domandato cento volte e cento
La via di Malmantile, e similmente
Di Martinazza, e se v'è di presente.

28
Dà in un, ch'al fin la mette per la via,
Con dirle che quest'orrida befana,
Che già d'un tozzo aveva carestia
E stava come l'erba porcellana (534),
In oggi ha di gran soldi in sua balía
Ed ha una casa come una dogana;
E nella corte è in grado, e giunta a segno,
Ch'ell'è il totum continens del regno.

29
Che la padrona il tutto le comparte,
Come se in Malmantil sien due regine;
Anzi il bando (535) si manda da sua parte,
Perch'ella soffia (536) il naso alle galline.
Così, poich'ebbe dato libro e carte (537),
Entra nell'un vie un(538), che non ha fine
Costui, che quivi s'è posto a bottega (539)
A legger(540) sopra il libro della strega.

30
Quest'altro, che non cerca da costui
Di questi cinque soldi (541), avendo fretta,
Poich'egli ha inteso quel che fa per lui,
Sprona il cavallo tutto a un tempo e sbietta.
La donna, che trovare il suo colui (542)
Di giorno in giorno per tal mezzo aspetta,
Per non lo perder d'occhio (543) e ch'ei le manchi,
Segue la starna e le va sempre ai fianchi.

31
Quando al castello al fin sono arrivati,
Là dove altrui assordano l'orecchie
Gli strepiti dell'armi e de' soldati,
Che d'ogn' intorno son più delle pecchie,
Domandan soldo; ed a Baldon guidati,
Che avendo del guerrier notizie vecchie,
Gli va incontro, l'accoglie e riverisce,
Ed egli a lui coll'armi s'offerisce.

32
Ma piacciati, soggiunse, ch'io ti preghi
Per questa donna rimaner servito (544),
Che questo ferro pria per lei s'impieghi,
Per conto qua d'un certo suo marito.
A tanto cavalier nulla si nieghi,
Risponde a ciò Baldon tutto compìto.
Tu se' padrone, fa' ciò che tu vuoi,
Non ci van cirimonie fra di noi.

33
Ti servirò di scriverti (545) alla banca;
E in tanto per adesso ti consegno
Il gonfalon di questa ciarpa bianca,
Chè tra le schiere è il nostro contrassegno;
Talchè libero il passo e scala franca (546)
Avrai, per dar effetto al tuo disegno,
Che non so qual si sia nè lo domando;
Però va' pur, ch'io resto al tuo comando.

34
Ei lo ringrazia; e gito più da presso,
Ove sta chiuso di Psiche il bel Sole (547),
Ad essa dice: in quanto al tuo interesso,
Fin qui non ti ho servito, e me ne duole;
Chè tu non pensi, avendoti promesso,
Ch'io faccia fango (548) delle mie parole;
E che il mio indugio e il non risolver nulla
Sia stato un voler darti erba trastulla.

35
Ovver ch'io me la metta in sul liuto (549),
O ti voglia tener l'oche in pastura,
Come quel che ci vada ritenuto
Per mancanza di cuore o per paura;
Perchè, siccome avrai da te veduto,
Non ho sin qui trovata congiuntura
Di chi m'indirizzasse qua al castello,
Per poterne cavar cappa (550) o mantello.

36
Risponde Psiche a questa diceria:
Io non entro, signore, in questi meriti.
Non ho parlato mai, nè che tu sia
Tardo, o spedito, ovver che tu ti periti.
Quel che tu fai, tutt'è tua cortesia;
Per tal l'accetto, e 'l Ciel te lo rimeriti,
Con darti in vita onor, fama e ricchezza,
Sanità dopo morte ed allegrezza.

37
Sta' quieta, le dic'egli, e ti conforta,
Ch'io voglio adesso dar fuoco al vespaio.
Così, col corno, il quale al collo porta,
Chiama la guardia, ovvero il portinaio.
Non è sì presto il gatto in sulla porta
Quand'ei sente la voce del beccaio,
Quanto veloce a questo suon la ronda (551)
Sopr'alle mura accostasi alla sponda (552).

38
Un par d'occhiacci, orlati di savore (553),
Così addosso ad un tratto gli squaderna,
Che par quando il Faina (554) alle sei ore
In faccia mi spalanca la lanterna;
E medïante (555) un certo pizzicore
Ch'ei sente al collo, i pizzicotti alterna,
Ond'alle dita egli ha fatti i ditali (556)
D'intorno a innumerabili mortali.

39
Non tanto s'abburatta (557) per la rogna
E pe' bruscol che vanno alla goletta (558),
Quanto che dir non può quel che bisogna,
Ch'ei tartaglia e scilingua anche a bacchetta (559).
Qual il quartuccio (560) le bruciate fogna,
Nè senza quattro scosse altrui le getta,
Tal si dibatte, e a vite fa (561) la gola
Ogni volta ch'ei manda fuor parola.

40
Bu bu bu bu, comincia, chè 'l buon giorno
Vorrebbe dar al cavalier, ch'ei tiene
Il corrier, medïante il suon del corno,
Del popol d'Israel ch'or va or viene.
Van le parole a balzi e per istorno (562),
Prima ch'al segno voglian colpir bene:
Pur pinse tanto, che gli venne detto:
Buon dì, corrier: che nuova c'è di Ghetto?

41
Rispose l'altro, tal parola udita:
D'esser corriere già negar non posso,
Perch'io l'ho corsa a far questa salita;
Ma quanto al Ghetto io non la voglio addosso.
Non ho che far con gente Israelita:
Ben ti farà il mio brando il cappel rosso (563),
E col darti sul viso un soprammano
D'Ebreo farà mutarti in Siciliano (564).

42
Ma che vo il tempo qui buttando via,
In disputar con matti e con buffoni?
Il trattar teco, credomi che sia
Come a' birri contar le sue ragioni;
Nè dissi mal, perch'hai fisionomia
D'un di color che ciuffan pe' calzoni:
E l'esser tu costì, par ch'ella quadri,
Chè i birri sempre van dove son ladri (565).

43
Ben che voi siate come cani e gatti,
Ch'essi non han con voi gran simpatia,
Perchè peggio de' diavol sete fatti,
Usando nel pigliar più tirannia.
Dell'alma sola quei (566) son soddisfatti;
Ma voi col corpo la portate via.
Or basta, se tra voi tant'odio corre,
Meglio a' lor danni ti potrò disporre.

44
Or dunque tu, che sei così pietoso,
Che pigli i ladri, acciò Mastro Bastiano
Sul letto a tre colonne (567) almo riposo
Dia lor del tanto lavorar di mano;
Perch'a qualunque ladro il più famoso
Martinazza in rubar non cede un grano,
Che non uccella (568) a pispole, ma toglie
Cupído a questa donna, ch'è sua moglie;

45
Lo stesso devi oprar che a lei sia fatto
Mentr'a (569) costei non renda il suo consorte,
A cui (perch'ei consente in tal baratto)
Questa (570) potrebbe far le fusa torte;
Ed ei si cerca (571) esser mandato un tratto
Sull'asin con due rócche dalla Corte.
Sicchè, se tu nol sai, ti rappresento
Che un disordine qui ne può far cento.

Note:
(529) E QUEL che contiene.
(530) CALANDRINO ci è dipinto dal Boccaccio pel più credulo uomo di questo mondo.
(531) HANNO ordine di ricever la risposta prima di consegnar la proposta. È detto per mostrare la castronaggine di costoro.
(532) DI QUESTA POSTA. Di questa fatta. Accompagna la parola col gesto.
(533) E TU SIA ecc. Che tu sia la Fiore e che in pari tempo tu sia uomo.
(534) PORCELLANA. Quest'erba sta terra terra.
(535) IL BANDO. Qualsiasi comando.
(536) SOFFIA ecc. Ella fa tutte le faccende. è il Fac totum.
(537) LIBRO E CARTE. Piena contezza.
(538) NELL' UN VIE UN. In un discorso intricato e inetto da non uscirne mai.
(539) A BOTTEGA. Proprio di proposito, come fosse suo mestiero.
(540) A LEGGER ecc. A narrar vita, morte e miracoli.
(541) DI QUESTI CINQUE SOLDI. Pagate cinque soldi, si dice a chi fa una lunga ed inopportuna digressione. Non cercar di guadagnar la multa di cinque soldi vale dunque Non curare la digressione.
(542) IL SUO COLUI. Il suo amante.
(543) NON LO PERDERE. Non perder d'occhio Calagrillo.
(544) RIMANER SERVITO ecc. Ti preghi che di buon grado io compia un'impresa per questa dama.
(545) SCRIVERTI ecc. Arrolarti.
(546) SCALA FRANCA. Passo libero.
(547) IL SUO BEL SOLE. L'amato Cupído.
(548) FACCIA FANGO ecc. Disprezzi e non mantenga le mie promesse.
(549) METTA SUL LIUTO ecc. Questo modo e il precedente e il seguente valgono tutti Trattenere con chiacchiere.
(550) CAVAR CAPPA ecc. Mettermi all'opera, come chi per esser più agile in qualsiasi operazione si cava cappa e mantello.
(551) RONDA è la guardia che gira per le mura e visita le sentinelle.
(552) SPONDA della muraglia.
(553) SAVORE è un intingolo fatto di pane e noci peste sciolte nell'agresto. Qui intende cispa.
(554) FAINA fu un certo caporal di birri.
(555) MEDIANTE. Qui, stante, a cagione di.
(556) I DITALI. Qui, le punte delle dita.
(557) S'ABBURATTA. Si dimena,si dibatte.
(558) GOLETTA, Estremità dell'abito da uomo intorno alla gola, ove s'affollano questi bruscoli, che sono gli stessi innumerabili mortali nominati di sopra.
(559) SCILINGUARE A BACCHETTA è avere il comando e 'l dominìo dello scilinguare: e per conseguenza essere il capitano e l'antesignano degli scilinguatori. (Biscioni.)
(560) IL QUARTUCCIO, piccola misura di legno, dicesi che fogna le castagne, quando il venditore ad arte vi lascia degli spazi vuoti: ma poi, sia per far credere che le vi fossero invece pigiate, sia perchè la bocca del detto vaso non è molto grande, il venditore, nel votar la misura, dà quattro scosse.
(561) FA A VITE. Storce la gola.
(562) PER ISTORNO. Per rimbalzo, di rimando.
(563) IL CAPPEL ROSSO portavano gli Ebrei in Firenze.
(564) SICILIANO. Ben s'intende che qui vuol dire: Ti coprirò di ferite o ti ucciderò; ma l'allusione è ignota o almeno assai incerta.
(565) DOVE I LADRI, cioè in Malmantile, dove ladra è la regina e ladra Martinazza.
(566) QUEI. I diavoli.
(567) LETTO A TRE COLONNE. Le forche.
(568) NON UCCELLA, ecc. Non si contenta di poco.
(569) MENTRE. Se.
(570) ESSA. Psiche.
(571) ED EI SI CERCA ecc. Questo usavasi fare in Firenze a chi prendeva una seconda o terza moglie.

Lorezo Lippi
Da "Il Malmantile racquistato" di Lorenzo Lippi (alias Perlone Zipoli), con gli argomenti di Antonio Malatesti; Firenze, G. Barbèra, editore, 1861)

(segue)

 
 
 

Dolce amor di povertade

Dolce amor di povertade,

Dolce amor di povertade
quanto ti deggiamo amare!

Povertade poverella,
umiltade è tua sorella:
ben ti sta una scudella
et al bere et al mangiare.

Povertade questo vole,
pane et acqua et erbe sole;
se le viene alcun di fore,
sì vi aggiunge un po' di sale.

Povertade va sicura,
che non ha nulla rancura,
de' ladron non ha paura
che la possino rubare.

Povertà batte alla porta,
e non ha sacca né borsa:
nulla cosa seco porta,
se non quanto ha da mangiare.

Povertade non ha letto,
non ha casa ch'aggia tetto,
non mantile, non deschetto:
siede in terra a manducare.

Povertade muore in pace,
nullo testamento face:
né parenti né cognate
non si senton litigare.

Povertade amor giocondo,
che disprezza tutto il mondo:
nullo amico le va a tondo
per aver da ereditare.

Povertade poverina,
ma del cielo cittadina,
nulla cosa che è terrena
tu non puoi desiderare...

Povertà, fai l'uom perfetto,
vivi sempre con diletto:
tutto quel ti fai soggetto
che ti piace disprezzare...

Povertade va leggera;
vive allegra e non altera;
è per tutto forastera,
nulla cosa vuol portare...

Povertà gran monarchia,
tutto 'l mondo hai 'n tua balìa;
quant'hai alta signoria
d'ogni cosa ch'hai sprezzata

Povertade alto sapere,
disprezzando possedere ;
quanto avvilia il suo volere,
tanto sale in libertade...

Povertade, chi ben t'ama
più t'assaggia più n'affama;
che tu se' quella fontana,
che giammai non può scemare.

Povertade va gridando,
a gran voce predicando:
le ricchezze mette in bando
che si deggiano lassare.

Disprezzando le ricchezze
e gli onori e l'alterezze,
dice: O' sono le ricchezze
di color che son passati?

Povertade chi la vuole
lassa il mondo e le sue fole;
e sì dentro come fuore
se medesmo ha da sprezzare.

Povertade è nullo avere,
nulla cosa possedere,
se medesmo vil tenere
e con Cristo poi regnare.

Jacopone da Todi
Da: Antologia della Lirica Italiana a cura di Angelo Ottolini. Milano Casa Editrice R. Caddeo & C., 1923, pagina 22

Bibliografia su Jacopone da Todi (1230-1306):
Ediz.: G. Ferri, Roma, 1910.
G. B. BARBERIS, J. d. T., 1901.
P. Alvi, J. d. T., Todi, 1907.
B. Brugnoli, F. J. d. T., Assisi, 1907.
D. Giuliotti, Jacopone, Treves, Milano, 1922.
A. Aurelio, J. d. T., tratto dai suoi cantici, Città di Castello, «Il solco», 1922.

 
 
 

Vita Nova 36-42

Post n°1776 pubblicato il 22 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

XXXVI

[XXXVII] Avvenne poi che là ovunque questa donna mi vedea, sì si facea d'una vista pietosa e d'un colore palido quasi come d'amore; onde molte fiate mi ricordava de la mia nobilissima donna, che di simile colore si mostrava tuttavia. E certo molte volte non potendo lagrimare né disfogare la mia trestizia, io andava per vedere questa pietosa donna, la quale parea che tirasse le lagrime fuori de li miei occhi per la sua vista. E però mi venne volontade di dire anche parole, parlando a lei; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Color d'amore; ed è piano sanza dividerlo, per la sua precedente ragione.

Color d'amore e di pietà sembianti
non preser mai così mirabilmente
viso di donna, per veder sovente
occhi gentili o dolorosi pianti,

come lo vostro, qualora davanti
vedètevi la mia labbia dolente;
sì che per voi mi ven cosa a la mente,
ch'io temo forte no lo cor si schianti.

Eo non posso tener li occhi distrutti
che non reguardin voi spesse fiate,
per desiderio di pianger ch'elli hanno:

e voi crescete sì lor volontate,
che de la voglia si consuman tutti;
ma lagrimar dinanzi a voi non sanno.

XXXVII

[XXXVIII] Io venni a tanto per la vista di questa donna, che li miei occhi si cominciaro a dilettare troppo di vederla; onde molte volte me ne crucciava nel mio cuore, ed avèamene per vile assai. Onde più volte bestemmiava la vanitade de li occhi miei, e dicea loro nel mio pensero: «Or voi solavate fare piangere chi vedea la vostra dolorosa condizione, ed ora pare che vogliate dimenticarlo per questa donna che vi mira; che non mira voi, se non in quanto le pesa de la gloriosa donna di cui piangere solete; ma quanto potete fate, ché io la vi pur rimembrerò molto spesso, maladetti occhi, ché mai, se non dopo la morte, non dovrebbero le vostre lagrime avere restate». E quando così avea detto fra me medesimo a li miei occhi, e li sospiri m'assalivano grandissimi e angosciosi. E acciò che questa battaglia che io avea meco non rimanesse saputa pur dal misero che la sentia, propuosi di fare un sonetto, e di comprendere in ello questa orribile condizione. E dissi questo sonetto, lo quale comincia: L'amaro lagrimar. Ed hae due parti: ne la prima, parlo a li occhi miei sì come parlava lo mio cuore in me medesimo; ne la seconda, rimuovo alcuna dubitazione, manifestando chi è che così parla; e comincia questa parte quivi: Così dice. Potrebbe bene ancora ricevere più divisioni, ma sariano indarno, però che è manifesto per la precedente ragione.

«L'amaro lagrimar che voi faceste,
oi occhi miei, così lunga stagione,
facea lagrimar l'altre persone
de la pietate, come voi vedeste.

Ora mi par che voi l'obliereste,
s'io fosse dal mio lato sì fellone
ch'i' non ven disturbasse ogne cagione,
membrandovi colei cui voi piangeste.

La vostra vanità mi fa pensare,
e spavèntami sì, ch'io temo forte
del viso d'una donna che vi mira.

Voi non dovreste mai, se non per morte,
la vostra donna, ch'è morta, obliare».
Così dice 'l meo core, e poi sospira.

XXXVIII

[XXXIX] Ricovròmi la vista di quella donna in sì nuova condizione, che molte volte ne pensava sì come di persona che troppo mi piacesse; e pensava di lei così: «Questa è una donna gentile, bella, giovane e savia, e apparita forse per volontade d'Amore, acciò che la mia vita si riposi». E molte volte pensava più amorosamente, tanto che lo cuore consentiva in lui, cioè nel suo ragionare. E quando io avea consentito ciò, e io mi ripensava sì come da la ragione mosso, e dicea fra me medesimo: «Deo, che pensero è questo, che in così vile modo vuole consolare me e non mi lascia quasi altro pensare?». Poi si rilevava un altro pensero, e dicea a me: «Or tu se' stato in tanta tribulazione, perché non vuoli tu ritrarre te da tanta amaritudine? Tu vedi che questo è uno spiramento d'Amore, che ne reca li disiri d'amore dinanzi, ed è mosso da così gentil parte, com'è quella de li occhi de la donna che tanto pietosa ci s'hae mostrata». Onde io avendo così più volte combattuto in me medesimo, ancora ne volli dire alquante parole; e però che la battaglia de' pensieri vinceano coloro che per lei parlavano, mi parve che si convenisse di parlare a lei; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Gentil pensero; e dico 'gentile' in quanto ragionava di gentile donna, ché per altro era vilissimo.

In questo sonetto fo due parti di me, secondo che li miei pensieri erano divisi. L'una parte chiamo 'cuore', cioè l'appetito; l'altra chiamo anima, cioè la ragione; e dico come l'uno dice con l'altro. E che degno sia di chiamare l'appetito cuore, e la ragione anima, assai è manifesto a coloro a cui mi piace che ciò sia aperto. Vero è che nel precedente sonetto io fo la parte del cuore contra quella de li occhi, e ciò pare contrario di quello che io dico nel presente; e però dico che ivi lo cuore anche intendo per lo appetito, però che maggiore desiderio era lo mio ancora di ricordarmi de la gentilissima donna mia, che di vedere costei, avvegna che alcuno appetito n'avessi già, ma leggero parea: onde appare che l'uno detto non è contrario a l'altro.

Questo sonetto ha tre parti: ne la prima, comincio a dire a questa donna come lo mio desiderio si volge tutto verso lei; ne la seconda, dico come l'anima, cioè la ragione, dice al cuore, cioè a lo appetito; ne la terza dico come le risponde. La seconda parte comincia quivi: L'anima dice; la terza quivi: Ei le risponde.

Gentil pensero che parla di vui,
sen vene a dimorar meco sovente,
e ragiona d'amor sì dolcemente,
che face consentir lo core in lui.

L'anima dice al cor: «Chi è costui,
che vene a consolar la nostra mente
ed è la sua vertù tanto possente,
ch'altro penser non lascia star con nui?»

Ei le risponde: «Oi anima pensosa,
questi è uno spiritel novo d'amore,
che reca innanzi me li suoi desiri;

e la sua vita, e tutto 'l suo valore,
mosse de li occhi di quella pietosa
che si turbava de' nostri martìri».

XXXIX

[XL] Contra questo avversario de la ragione si levoe un die, quasi ne l'ora de la nona, una forte imaginazione in me; che mi parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne co le quali apparve prima a li occhi miei; e pareami giovane in simile etade in quale io prima la vidi. Allora cominciai a pensare di lei. E ricordandomi di lei secondo l'ordine del tempo passato, lo mio cuore cominciò dolorosamente a pentère de lo desiderio a cui sì vilmente s'avea lasciato possedere alquanti die contra la costanzia de la ragione; e discacciato questo cotale malvagio desiderio, sì si rivolsero tutti li miei pensamenti a la loro gentilissima Beatrice. E dico che d'allora innanzi cominciai a pensare di lei sì con tutto lo vergognoso cuore, che li sospiri manifestavano ciò molte volte; però che tutti quasi diceano nel loro uscire quello che nel cuore si ragionava, cioè lo nome di quella gentilissima, e come si partìo da noi. E molte volte avvenia che tanto dolore avea in sé alcuno pensero, ch'io dimenticava lui e là dov'io era. Per questo raccendimento de' sospiri si raccese lo sollenato lagrimare, in guisa che li miei occhi pareano due cose che desiderassero pur di piangere; e spesso avvenia che per lo lungo continuare del pianto, dintorno loro si facea uno colore purpureo, lo quale suole apparire per alcuno martirio che altri riceva. Onde appare che de la loro vanitade fuoro degnamente guiderdonati; sì che d'allora innanzi non potero mirare persona che li guardasse sì che loro potesse trarre a simile intendimento. Onde io, volendo che cotale desiderio malvagio e vana tentazione paresse distrutto, sì che alcuno dubbio non potessero indùcere le rimate parole ch'io avea dette innanzi, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io comprendesse la sentenza di questa ragione. E dissi allora: Lasso! per forza di molti sospiri; e dissi 'lasso' in quanto mi vergognava di ciò, che li miei occhi aveano così vaneggiato.

Questo sonetto non divido, però che assai lo manifesta la sua ragione.

Lasso! per forza di molti sospiri
che nascon de' penser che son nel core,
li occhi son vinti, e non hanno valore
di riguardar persona che li miri.

E fatti son che paion due disiri
di lagrimare e di mostrar dolore,
e spesse volte piangon sì ch'Amore
li 'ncerchia di corona di martìri.

Questi penseri, e li sospir ch'eo gitto,
diventan ne lo cor sì angosciosi,
ch'Amor vi tramortisce, sì glien dole;

però ch'elli hanno in lor, li dolorosi,
quel dolce nome di madonna scritto,
e de la morte sua molte parole.

XL

[XLI] Dopo questa tribulazione avvenne, in quello tempo che molta gente va per vedere quella imagine benedetta la quale Jesu Cristo lasciò a noi per esemplo de la sua bellissima figura, la quale vede la mia donna gloriosamente, che alquanti peregrini passavano per una via la quale è quasi mezzo de la cittade ove nacque e vivette e morìo la gentilissima donna. Li quali peregrini andavano, secondo che mi parve, molto pensosi; ond'io pensando a loro, dissi fra me medesimo: «Questi peregrini mi paiono di lontana parte, e non credo che anche udissero parlare di questa donna, e non ne sanno neente; anzi li loro penseri sono d'altre cose che di queste qui, ché forse pensano de li loro amici lontani, li quali noi non conoscemo». Poi dicea fra me medesimo: «Io so che s'elli fossero di propinquo paese, in alcuna vista parrebbero turbati passando per lo mezzo de la dolorosa cittade». Poi dicea fra me medesimo: «Se io li potesse tenere alquanto, io li pur farei piangere anzi ch'elli uscissero di questa cittade, però che io direi parole le quali farebbero piangere chiunque le intendesse». Onde, passati costoro da la mia veduta, propuosi di fare uno sonetto ne lo quale io manifestasse ciò che io avea detto fra me medesimo; e acciò che più paresse pietoso, propuosi di dire come se io avesse parlato a loro; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Deh! peregrini che pensosi andate. E dissi 'peregrini' secondo la larga significazione del vocabulo; ché peregrini si possono intendere in due modi, in uno largo e in uno stretto: in largo, in quanto è peregrino chiunque è fuori de la sua patria; in modo stretto, non s'intende peregrino se non chi va verso la casa di sa' Iacopo o riede. E però è da sapere che in tre modi si chiamano propriamente le genti che vanno al servigio de l'Altissimo: chiamansi palmieri, in quanto vanno oltremare, là onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini, in quanto vanno a la casa di Galizia, però che la sepultura di sa' Iacopo fue più lontana de la sua patria che d'alcuno altro apostolo; chiamansi romei, in quanto vanno a Roma, là ove questi cu' io chiamo peregrini andavano.

Questo sonetto non divido, però che assai lo manifesta la sua ragione.

Deh! peregrini che pensosi andate,
forse di cosa che non v'è presente,
venite voi da sì lontana gente,
com'a la vista voi ne dimostrate,

che non piangete quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente,
come quelle persone che neente
par che 'ntendesser la sua gravitate.

Se voi restaste per volerlo audire,
certo lo cor de' sospiri mi dice
che lagrimando n'uscireste pui.

Ell'ha perduta la sua beatrice;
e le parole ch'om di lei pò dire
hanno vertù di far piangere altrui.

XLI

[XLII] Poi mandaro due donne gentili a me, pregando che io mandasse loro di queste mie parole rimate; onde io, pensando la loro nobilitade, propuosi di mandare loro e di fare una cosa nuova, la quale io mandasse a loro con esse, acciò che più onorevolemente adempiesse li loro prieghi. E dissi allora uno sonetto lo quale narra del mio stato, e mandàlo a loro co lo precedente sonetto accompagnato, e con un altro che comincia: Venite a intender.

Lo sonetto lo quale io feci allora, comincia: Oltre la spera; lo quale ha in sé cinque parti. Ne la prima dico là ove va lo mio pensero, nominandolo per lo nome d'alcuno suo effetto. Ne la seconda dico perché va là suso, cioè chi lo fa così andare. Ne la terza dico quello che vide, cioè una donna onorata là suso; e chiamolo allora 'spirito peregrino', acciò che spiritualmente va là suso, e sì come peregrino lo quale è fuori de la sua patria, vi stae. Ne la quarta dico come elli la vede tale, cioè in tale qualitade, che io non lo posso intendere, cioè a dire che lo mio pensero sale ne la qualitade di costei in grado che lo mio intelletto no lo puote comprendere; con ciò sia cosa che lo nostro intelletto s'abbia a quelle benedette anime, sì come l'occhio debole a lo sole: e ciò dice lo Filosofo nel secondo de la Metafisica. Ne la quinta dico che, avvegna che io non possa intendere là ove lo pensero mi trae, cioè a la sua mirabile qualitade, almeno intendo questo, cioè che tutto è lo cotale pensare de la mia donna, però ch'io sento lo suo nome spesso nel mio pensero: e nel fine di questa quinta parte dico 'donne mie care', a dare ad intendere che sono donne coloro a cui io parlo. La seconda parte comincia quivi: intelligenza nova; la terza quivi: Quand'elli è giunto; la quarta quivi: Vedela tal; la quinta quivi: So io che parla. Potrèbbesi più sottilmente ancora dividere, e più sottilmente fare intendere; ma puòtesi passare con questa divisa, e però non m'intrametto di più dividerlo.

Oltre la sfera che più larga gira,
passa 'l sospiro ch'esce del mio core:
intelligenza nova, che l'Amore
piangendo mette in lui, pur sù lo tira.

Quand'elli è giunto là dove disira,
vede una donna che riceve onore,
e luce sì che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.

Vedela tal, che quando 'l mi ridice,
io no lo intendo, sì parla sottile
al cor dolente che lo fa parlare.

So io che parla di quella gentile,
però che spesso ricorda Beatrice,
sì ch'io lo 'ntendo ben, donne mie care.

XLII

[XLIII] Appresso questo sonetto, apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com'ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d'alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna: cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus.

Dante Alighieri

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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