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Messaggi del 07/06/2015

Canzoniere inedito 2

VI.

Qualor Madonna, l'uno o l'altro sole
In me volgendo, mi riguarda, e tace;
Divampa nel mio sen tosto una face.
Che al cuor s'appiglia, e consumar lo vuole.

Poi quando a profferir caste parole
Apre quel dolce suo labbro verace;
Scender subito in me sento una pace,
che pon goder l'elette anime sole.

E questa pace, e questa guerra al cuore
Mille volte in un giorno si rinnova,
Con pari effetto, e con vicenda alterna.

Ma ben d'entrambe io ne ringrazio Amore.
E benedico questa e quella prova
Onde il mio spirto a sua voglia governa.

VII.

Donna, che Amor mi desti per compagno,
Che ognor vien meco, anzi in me sempre alberga
Deh! perchè adesso mi volgi le terga,
E ti adiri di più, s'io me ne lagno?

Ben dovresti pensar, che dove io piagno,
Tu sei cagione, che il mio pianto emerga:
Eppur non avvien mai, elle una mi terga
Delle lacrime tante, onde mi bagno.

Perchè talora, tutto pien di sdegno,
10 mi rivolgo al mio ospite cieco,
Di tanta ingiuria a dimandar vendetta,

Ma è vano ogni pregar: chè quello indegno
In qual di piano si consiglia teeo.
Sempre, ridendo, mi risponde: aspetta.

VIII.

Io amo una donzella sì vezzosa.
Ch'altra non è, che star le possa a paro;
Se quel ch'è in mille di gentile e caro,
Soavemente in Lei sola riposa.

Pietà, benigna; ed onestà, ritrosa
La fanno insiem con bello accordo e raro:
Chè tanto ha in sè di cortese e d'avaro,
Quanto convene ad angelica cosa.

E a chi bramasse qualche cenno avere
Di sua beltà, dirò, che gli occhi miei
Più dolce immago non porrian vedere.

Ma dirgli quanto l'amo ah! non saprei:
So ben, che per amarla a mio potere,
Il cuor m'ho tratto, e l'ho riposto in Lei.

IX.

Mentre non le badiam, rapida vola
La mortal vita a noi concessa in terra:
E questo lampo, di travagli e guerra
Offre un viluppo, e una tremenda scuola.

Ah! perchè dunque, se una volta sola
Qualch'aura in essa di piacer s'afferra,
Perchè nostra ragion, Donna, tanto erra,
Che schifar voglia un ben, che ci consola?

Però, sgombrando quella nebbia avara
Che offusca il lume delle tue pupille.
Deh! a viver meco più felice impala.

E va sicura, che mille anni e mille
Passati in doglia, non avriano, o cara.
Il pregio di due sole ore tranquille.

X.

La nera chioma inanellata e lieve.
Il mobile del ciglio e sottile arco,
Per cui disotto al riguardar sì parco
Grazia cotanta il bruno occhio riceve;

La rosea guancia, e il collo e il sen di neve,
E quello de' sospir tenero varco:
Il bel fianco di molle adipe carco:
La man lunghetta, e '1 pie ritondo e breve:

Non mi vinsero il cor quanto sol'una
Delle molte virtuti, onde si adorna
Entro il vago tuo vel l'anima onesta.

Perchè serva del tempo e di fortuna
Beltà vien meno e al suo nulla ritorna:
Ma virtù ferma ed impassibil resta.

Giuseppe Gioachino Belli
Da: "Canzoniere inedito del Belli" in La età dell'oro - Versi di Giuseppe Gioachino Belli - Roma, Dalla Tipografia Salviucci, 1851

 
 
 

Giovan Andrea Gesualdo

IV
Di M. Giovan Andrea Gesualdo

1

Per acquetar le mie faville nuove
A voi spesso ritorno, o lucid’acque,
Che poi ch’al cor l’alto desio mi nacque
Conforto a’ miei sospir non sento altrove;

Ma il crudo incendio, che ne l’alma piove
Dal dì che prima il vostro bel mi piacque,
Sì che mia libertà perduta giacque,
Par ch’al freddo liquor più si rinuove.

O bella fonte, dal cui vivo ghiaccio
Muove l’ardor che mi consuma tanto,
O lunge io viva o ti contempli e guardi,

Io corro a te per rinfrescarmi alquanto
E scemar di quel foco ond’io mi sfaccio;
Ma tu con nuove fiamme ognor più m’ardi.

2

Chiaro, soave, dolce, ardente lume,
Unico raggio di quel sommo Sole,
Ch’or le tenebre mie profonde e sole
Divinamente, tua mercede, allume,

Quanto d’alta pietà fu largo il fiume
Che ti fe’ per salvar l’umane scuole,
Onde il drago crudel si stempra e duole,
Qua giù volar con amorose piume!

Tu, cui l’abisso, il ciel profondo e l’acque,
La Tana e ’l Nil non cape, Atlante e Gange,
Chiuso ti stai nel bel virgineo chiostro;

Or, poi che ’l nostro ben tanto ti piacque,
Nasci al tuo popol, che sospira e piange,
E scaccia e vinci il gran tartareo mostro.

3

Qual empio mio destin, qual cruda voglia,
Qual fiera stella, o qual mio grave errore,
De’ miei conforti ha spento il più bel fiore
E mi condanna a sempiterna doglia?

L’alta cagion ch’a lagrimar m’invoglia
Sa ben l’aspra mia donna, e sallo Amore,
E come il tristo e miserabil core
Sì folta schiera di martir accoglia.

È questa al mio servir degna mercede?
È questo il pregio e l’aspettato bene,
E ’l guiderdon della mia salda fede?

Dunque al mio bel desir leggiadro tanto
Per giusto merto al fin dar si conviene
Ira, sdegno, dolor, sospiri e pianto?

4

O stelle, o cielo, o fiero mio pianeta,
O crudo incendio, o miei caldi desiri,
O principio crudel de’ miei sospiri,
Onde l’afflitto cuor mai non s’acqueta,

Già ti vidi io ver me pietosa e lieta
Rivolger gli occhi in graziosi giri:
Perché mi porgi or tenebre e martiri?
Qual cieca nebbia il tuo splendor mi vieta?

Di tal mio lagrimar tu cresci e sorgi,
O bella fonte, e con sì larghi rivi
Ti rende il pianto mio piena e superba
 
Ma la chiarezza tua, se ’l vero scorgi,
Ne vien torbida poi qualor l’acerba
Mia pioggia avien ch’al tuo sereno arrivi.

5

Né di selvaggio cuor feroce sdegno,
Né crude voglie nel mio danno accorte,
Né il veder già le mie speranze morte,
Né il lungo affanno lagrimoso e ’ndegno,

Né ’l guasto al viver mio fido sostegno,
Né il girne ratto inanzi tempo a morte,
Né pensier ch’a me sol tormento apporte,
Né ’l mal inteso mio desir sì degno,

Né la spenta mia dolce usata aita,
Né il mai qua giù sentito aspro dolore,
Onde io m’appresso a l’ultima partita,

Né altro fia che ’l mio primiero ardore
Spenga giamai, mentre dimoro in vita:
Che bel fin fa chi ben amando muore.

6

O viva fiamma, o miei sospiri ardenti,
O miserabil duol, o spirti lassi,
O pensier d’ogni speme ignudi e cassi,
O strali nel mio cuor fieri e pungenti,

O bei desir de l’onorate menti,
O vane imprese, o dolorosi passi,
O selve, o piaggie, o fonti, o fiumi, o sassi,
O spietata cagion de’ miei tormenti,

O gloriosi allori, o verdi mirti,
O luogo un tempo a me dolce e giocondo,
Ove io già sparsi dilettoso canto,

O voi leggiadri ed amorosi spirti,
S’alcun vive qua giù nel basso mondo
Pietà vi prenda del mio acerbo pianto.

7

Verrà mai il dì che mia pace riporte
O ch’esta vita il gran morir mi lievi?
Nostri felici giorni ah quanto brevi,
E l’ore grate a noi quanto son corte!

Ogni destra fortuna e lieta sorte
Mille ali ha nel fuggir veloci e lievi,
Ma nel ritorno poche, pigre e grievi,
Tal che giugne a lei spesso inanzi morte.

Ma a che dolermi più s’invan mi doglio?
L’ostinato destin non fia commosso
Per prieghi, per pietade o per orgoglio.

S’io potessi poter più ch’io non posso,
So ch’io vorrei voler più ch’io non voglio,
Ma ’l men poter dal più voler m’ha mosso.

8

Quel gran Motor del lucido emispero,
Che ’n picciol cenno il mondo tempra e regge,
Al primo padre de l’umana gregge
Commise il nodo sacrosanto intiero.

Questo, per gloria del terrestre impero,
L’alto voler de la divina legge,
Che gl’ingiusti desir frena e corregge,
Fermò qua giù con modo eterno e vero.

O felice legame, o dolce ardore,
O sacra fiamma, amor saldo e costante,
Che ’n duo corpi mantieni un’alma, un core,

Sostegno eterno de l’umane piante,
Che ’l mondo adorni d’immortale onore,
Chi fia ch’adegui le tue lodi sante?

9

È questo il loco ove madonna suole
Lieta e gioiosa a gli occhi miei mostrarsi
Con quelle belle luci in ch’io prima arsi
E l’altre sue bellezze al mondo sole?

Dir qui pur udi’ angeliche parole,
E vidi a l’aura quei bei crin spiegarsi,
E quel bel viso or neve or rose farsi
Da far ben mille volte invidia al sole.

O dolce loco, i’ pur ti tocco e veggio
Senza colei, che da la rosa al ghiaccio
Sempre vorrei, e non altra mai chieggio;

Ma se ’l mio alto destin con questo laccio
Rende questo mio spirto al par suo seggio,
Abbi tu queste membra e questo impaccio.

10

Quasi un puro, lucente e chiaro lume,
Ch’un loco pien di tenebre e d’orrore
Col suo maraviglioso almo splendore
Renda sereno e d’ogn’intorno allume,

La virtù vostra in sì gentil costume,
Signor, che rende in terra il vero onore,
Or con bei raggi mi rischiara il core
E da gir su mi presta altiere piume:

Mostrami chiaramente il camin vero
Onde al sacro gentil monte si poggia,
Ch’a’ suoi cultori eterna fama apporta.

In lei mi specchio ognora, e ’n lei s’appoggia
Mia speme, e questa è sol mia fida scorta,
Ch’ogni altro al cielo è men dritto sentiero.

11

Tra gli altri doni che dal cielo ardente
Ebbe Alessandro e da Fortuna altiera,
Ond’a la quinta rilucente spera
Salito è il grido suo sì caldamente,

Stimo il maggior che tra la greca gente,
Quando il maestro d’alma luce intiera
Spargeva i raggi, nacque, onde alta e vera
Dottrina accolse ne la vaga mente.

Se da quel grande trar mi lice essempio,
Ringrazio il ciel che ne i migliori giorni
M’ha riservato a degne grazie tante;

Ch’io spero ancor fra lieti alti soggiorni
Col vostro lume entrar nel sacro tempio
A’ bei secreti de le muse sante.

Giovan Andrea Gesualdo
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (Giolito 1545)

 
 
 

Vincenzo Martelli (Note bio)

Post n°1716 pubblicato il 07 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

Vincenzo Martelli (Note bio)

Nato a Firenze, entrò ben presto al servizio del principe Sanseverino, che servì a lungo, seguendone le alterne fortune. In particolare rimase celebre la disputa tra lui e Bernardo Tasso, testimoniata da diverse lettere dei due, avversari nel consigliare il principe sull’opportunità di accettare l’incarico di farsi portavoce della città di Napoli presso l’imperatore, quando nel 1547 la città insorse contro il tentativo di introdurre l’Inquisizione da parte del viceré don Pedro de Toledo: il parere di Martelli, che invitava il principe a tenersi lontano dalla rivolta, non fu ascoltato. In seguito, forse a causa dei sospetti nutriti da Sanseverino verso il suo segretario, fu imprigionato per qualche anno. Morì, pare dopo aver compiuto un pellegrinaggio a Gerusalemme, nel 1556. Nel 1563 uscì, postuma, un’edizione delle sue rime a cura di Baccio Valori (Firenze, Giunti), tra le quali si trovano, con numerose varianti di lezione, i quattro sonetti qui editi. A suo nome si trovano svariate poesie anche in altri volumi miscellanei. Nonostante la lunga serie di imprecisioni tipografiche, parzialmente corrette dalle notizie aggiunte negli errata corrige, vanno attribuiti a lui solo i primi quattro componimenti stampati a suo nome in G1, mentre gli ultimi due appartengono a Pietro Barignano.
[Franco Tomasi, nelle note a "Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori" (a cura di Lodovico Domenichi, Giolito 1545), © Edizioni Res, Prima edizione Ottobre 2001, ISBN 88-85323-37-5]

Tre sono le edizioni del Libro primo:
1) Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo. Con Gratia & Privilegio. In Vinetia appresso Gabriel Giolito di Ferrarii MDXLV;
2) Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo, con nuova additione ristampato. Con Gratia & Privilegio. In Vinetia appresso Gabriel Giolito di Ferrarii MDXLVI;
3) Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo con nuova additione ristampato. Con gratia & privilegio. In Vinetia appresso Gabriel Giolito di Ferrarii MDXLIX.
Le tre edizioni sono introdotte da una lettera dedicatoria di Lodovico Domenichi Allo Illustriss. S. Don Diego Hurtado di Mendozza, datata "Alli VIII di Novembre MDXLIV Di Vinegia". Nella terza edizione la data risulta modificata nell’anno (MDXLVI), ma non va escluso che si tratti di una semplice inversione delle ultime due cifre e non di una scelta del curatore o dell’editore. Rilevante invece è l’assenza nella terza edizione, che è riproduzione piuttosto fedele della seconda edizione, degli errata corrige, per cui passano sotto silenzio alcuni errori attributivi causati da incidenti tipografici. Anche nella prima edizione, del resto, agli errata sono affidate precisazioni circa la paternità di qualche lirica, oltre ad indicazioni su errori di lezione o su integrazioni testuali.
Il passaggio dalla prima edizione alla seconda è caratterizzato da un buon numero di innovazioni, la cui segnalazione è affidata nella seconda edizione alla laconica formula del frontespizio "con nuova additione ristampato". In realtà non solo di addizione si tratta, ma anche di consistente sottrazione, dato che non sono pochi gli autori e i testi espunti nella seconda edizione.

 
 
 

Pietro Barignano 2

Di M. Pietro Barignano

9

Vorrei scioglier dal collo il duro laccio,
E diveller dal petto i stral pungenti,
E spenger dal mio cor le fiamme ardenti,
Di che impiagato e preso ardendo i’ taccio;

E dopo questo armar di freddo ghiaccio,
Quel di dur smalto, e quei d’arme possenti
A romper, a spuntar, a render spenti
Foco, saette e nodo, in che m’allaccio;

E la man, che ritien catena salda,
E gli occhi, donde movon le faville,
E il volto, da chi ’l colpo si riceve,

Di che mi punge Amor, mi lega e scalda,
Quella in ghiaccio veder, quell’altro in neve,
E quei conversi in lagrimose stille.

10

Se mi concede Amor sì lunga vita
Ch’io torni a riveder prima ch’io mora
Quei begli occhi soavi, onde in me ognora
Sento nuovo piacer, che allor m’invita,

Tanto ti pascerò, bramoso core,
Di che sì desioso e vago sei,
Che non arai cagion più di languire;
Ma nudrito del bel dolce splendore

Che ti conduran dentro gli occhi miei,
Ogni lungo digiun potrai soffrire.
Lasso, se non che pur scema il martire

Il bel viso gentil, che in la mia mente
Ognor vedo più bello e più piacente,
Ben saria omai da me l’alma partita.

11

Crederete a la speme
Che vi ven dal bel viso di costei,
Occhi, per creder già prigion di lei?
Se non sete in oblio
Di quanti lieti sguardi
Nacque al nostro sperar già sì fallace,
Ben direte al desio
Come che sian bugiardi
Quei lumi, onde è sbandita ogni altra pace:
Perché non vi trasporti
A mirar chi n’ha morti, e più fidanza
Di disdegno armi il cor contra speranza.

12
[G2 attribuito a N. Tiepolo; G2 errata attribuito a P. Barignano; G3 attribuito a N. Tiepolo]

Quante lagrime il dì, quanti sospiri
Versin questi occhi, e fuora getti il core,
Per render molle ed impiagar d’amore
Non donna già, ma bel marmo che spiri,

Sassel Amor, con cui vuol che m’adiri
Larga ragion del mio grave dolore;
Ed io mel so, che del pur visto errore
Non ho chi trar ne possa i miei desiri.

Nel qual vago piacer gli ha sì forte usi,
Ch’essi sen stanno quasi a dir: "Che fia
Che mai ne levi di sì dolce stanza?"

Né perché intenda la sventura mia
Posso negar al fin che non gli escusi
E pasca il cor di pur vana speranza.

13
[G2 attribuito a N. Tiepolo; G2 errata attribuito a P. Barignano; G3 attribuito a N. Tiepolo]

Com’avrò dunque il frutto
Del seme sparso, Amor, se gelosia
Disperde i fior de la speranza mia
Deh vi fosse sì nota la mia fede,
Madonna, come a me vostra bellezza,
E pietà fosse in voi quant’è in me doglia:
Ch’io giurarei d’aver quella mercede
Che la vostra durezza,
E non mia colpa, vuol che mi si toglia.
Così si cangi in voi questa ria voglia,
Com’io sol porto in core
Foco del vostro amore.

14
[G2 attribuito a N. Tiepolo; G2 errata attribuito a P. Barignano; G3 attribuito a N. Tiepolo]

Nuovi pensier, che del mio vecchio foco
Riconducete al cor tante faville,
Che là donde altrui colpa dipartille
Minor parte di lor poria aver loco,

Ben può al primo apparir turbar un poco
Vostro valor le mie paci tranquille,
E dipinger nel volto a color mille
Virtù di chi ’l mio mal sempre ebbe a gioco.

Ma ch’io non prenda al gran bisogno l’armi
Da vincer voi, non che pur far difesa,
Non è vostro poter già che mi nieghi:

Che perché punto il cor non si disarmi
Gli conto ognor per avanzar l’offesa
La lunga istoria de’ miei sparsi preghi.

15
[G2 attribuito a N. Tiepolo; G2 errata attribuito a P. Barignano; G3 attribuito a N. Tiepolo]

Perch’io cerchi, non trovo
Quai sien maggiori, o le speranze nostre
O di ben far altrui le voglie vostre.
Vostro largo voler, che doppia il corso
Per giunger quai desiri
Amici d’onestà nanzi a sé scorge,
Quante nostre credenze ha già precorso!
E par seco s’adiri
Se tardi a gran bisogno le man porge.
Questi è dunque onde sorge
Un fonte in me sì vivo di speranza,
Che quasi quel di vostre grazie avanza.

16
[G2 attribuito a N. Tiepolo; G2 errata attribuito a P. Barignano; G3 attribuito a N. Tiepolo]

S’omai di vostra grazia acqua non bagna
Il mio terreno asciutto,
Perirà il seme onde s’attende il frutto.
Non sete voi quel fonte onde si cria
Largo rivo corrente,
Che mille e mille campi magri impingua
Spargete dunque sopra questa mia
Onesta sete ardente
Umor che ’n qualche parte almen l’estingua;
E sarà l’opra vostra
Conforme, Padre, a la speranza nostra.

Pietro Barignano
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (Giolito 1545)

 
 
 

Pietro Bembo (Note bio)

Post n°1714 pubblicato il 07 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

Pietro Bembo (Note bio)

Sul prestigio, non solo letterario, di Pietro Bembo (1470-1547) non è il caso di soffermarsi, come pure sul significato della sua presenza in apertura della Giolitina, di cui si è già detto nell’ Introduzione (pp. XIV-XIX). Vale forse la pena di ricordare invece che gli ultimi anni della vita di Bembo sono fortemente segnati dalla nomina a cardinale ottenuta nel 1539, che comportò il suo definitivo abbandono del Veneto (a Venezia tornò solo nell’estate del 1543 per le nozze della figlia Elena con Pietro Gradenigo). Per la maggior parte degli anni seguenti Bembo risiedette a Roma, pur mantenendo stretti legami con l’ambiente padovano e lagunare. Ne sono testimonianza le vicende connesse alla pubblicazione di questo manipolo di rime nella Giolitina, di cui venne informato proprio dal genero Pietro Gradenigo.
Si tratta di testi per lo più inediti a quell’altezza cronologica, fatta eccezione per tre sonetti già apparsi nel volume Opera nova nella quale si contiene uno Capitulo del signor Marchese del Vasto, Stanze del signor Alvise Gonzaga, Sonetti di monsignor Pietro Bembo e del divino Pietro Aretino, Verona, Cremaschino, 1542 (sono i sonetti 7, 8 e 14 della presente edizione). In ogni caso, le redazioni dei 17 componimenti offerte dal Libro primo si configurano in gran parte come stadi anteriori a quelli poi accolti nelle due edizioni postume delle rime di Bembo apparse entrambe nel 1548 (Roma, Dorico e Venezia, Giolito). G2 presenta inoltre per almeno tre sonetti (7: VARCHI, le vostre carte pure e belle; 8: Ben è quel caldo voler voi ch’io prenda; 16: O Sol, di cui questo bel sole è raggio) varianti consistenti rispetto a G1, che si elencano qui di seguito (insieme a un altro paio relative alla canzone 6 e al sonetto 15): 6, 18: visse certo, e vivea > visse certo, o vivea; 7, 1: le vostre carte pure > le vostre pure carte; 7, 8: spero di viver molto ancho con elle > viver eterno anchor spero con elle; 7, 9: dove indrizzano hora > dove indrizzan’hora; 7, 11: i duo miglior VITTORI > i duo miglior VETTORIO; 7, 13: o sfortunato choro > o fortunato choro (variante accolta a testo nella presente edizione); 7, 14: et tu Fiorenza, che nel centro l’hai > Fiorenza e tu, che nel bel cerchio l’hai; 8, 3: che ’l Taro, il Sile, o l’Arno > che ’l Tebro, il Serchio, et l’Arno; 8, 5: et poi convien, qual io mi sia, ch’intenda > et se vien che ’l mio stile ad altro intenda; 8, 6: ad altra cura, e ’n ciò mi stempro, et scarno > qual egli sia di ch’io mi stempro, e scarno; 8, 7: né quanto posso > né quanto basta; 8, 8: che non adombran > cui non adombran; 8, 9: chi vede il bel lavoro ultimo vostro > chi mira il sacro a lei poema vostro; 8, 12: la quale hoggi risplende tra le prime > c’homai risplenderà tra le due prime; 8, 13: per voi sì come nuovo > Lauretta e Bice, novo; 8, 14: di beltà, di valor chiaro, et sublime > del ciel, come sol chiara, e pur sublime; 15, 8: di foco in calce trita > come di foco in calce; 16, 1: o Sol, di cui questo bel sole è raggio > Sol, del qual è questo gran Sole un raggio; 16, 2: sol per lo qual visibilmente splendi > per cui visibilmente a noi risplendi; 16, 3: se sovra l’opre tue qua giù ti stendi > con quella face, onde le stelle vceendi (sic); 16, 5: da l’alma, ch’a te fa verace homaggio > sgombra de l’alma, ch’a te rende homaggio; 16, 7: sgombra l’antiche nebbie, e tal la rendi > l’antiche nebbie: e sì chiara la rendi.
[Paolo Zaja, nelle note a "Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori" (a cura di Lodovico Domenichi, Giolito 1545), © Edizioni Res, Prima edizione Ottobre 2001, ISBN 88-85323-37-5]

Tre sono le edizioni del Libro primo:
1) Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo. Con Gratia & Privilegio. In Vinetia appresso Gabriel Giolito di Ferrarii MDXLV;
2) Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo, con nuova additione ristampato. Con Gratia & Privilegio. In Vinetia appresso Gabriel Giolito di Ferrarii MDXLVI;
3) Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo con nuova additione ristampato. Con gratia & privilegio. In Vinetia appresso Gabriel Giolito di Ferrarii MDXLIX.
Le tre edizioni sono introdotte da una lettera dedicatoria di Lodovico Domenichi Allo Illustriss. S. Don Diego Hurtado di Mendozza, datata "Alli VIII di Novembre MDXLIV Di Vinegia". Nella terza edizione la data risulta modificata nell’anno (MDXLVI), ma non va escluso che si tratti di una semplice inversione delle ultime due cifre e non di una scelta del curatore o dell’editore. Rilevante invece è l’assenza nella terza edizione, che è riproduzione piuttosto fedele della seconda edizione, degli errata corrige, per cui passano sotto silenzio alcuni errori attributivi causati da incidenti tipografici. Anche nella prima edizione, del resto, agli errata sono affidate precisazioni circa la paternità di qualche lirica, oltre ad indicazioni su errori di lezione o su integrazioni testuali.
Il passaggio dalla prima edizione alla seconda è caratterizzato da un buon numero di innovazioni, la cui segnalazione è affidata nella seconda edizione alla laconica formula del frontespizio "con nuova additione ristampato". In realtà non solo di addizione si tratta, ma anche di consistente sottrazione, dato che non sono pochi gli autori e i testi espunti nella seconda edizione.

 
 
 

Canzoniere inedito 1

Alla March. Vincenza Roberti.
Poesie di G. G. Belli da Genn. 1822.

I.
A Cintia.

Cintia, in giurarmi, che nel cuor severo
Giammai pietà dell'altrui duol ne senti;
E che ognor vano incontro a lui s'avventi
Lo stral tremendo del Fanciullo Arciero:

Ah! sempre, o Cintia, o dici il falso, o il vero,
Sempre a miei danni e leal parli, e menti;
Ne so ben se il tuo labbro in quegli accenti
Io più brami verace, o menzognero.

Se favol'è, che nel tuo petto il loco
Non trovi Amor per annidarvi un laccio,
Troppo è quel tuo mentir barbaro gioco.

Ma s'è poi ver, c'hai l'anima di ghiaccio,
Dillo a chi parla, e non ha in seno il foco,
Nor dirlo a me, che mi consumo, e taccio.

II.

Cintia, se il caldo di mia viva face
Nel cuor t'infuse di Cupido il telo,
Perchè pregare il Dio sommo di Delo
A pro del novo tuo foco ti piace?

S'eri pria fredda e più nel dir verace,
Dovevi allora scongiurare il Cielo.
Che mai del cuor non ti sciogliesse il gelo,
Sì necessario alla tua bella pace.

Donna, purtroppo hai tu saputo e visto
Qual'è il tenore dei destini miei.
Che a me disciorre o temperar non lice.

Così senza il tuo amor ben sarei tristo,
Ma da te amato, oh Dio! son più infelice,
Se infelice con me, cara, tu sei.

III.

Qualor negli occhi, che fe Amor sì bei,
Cintia diletta, io ti contemplo fiso,
Per ricercarvi il placido sorriso
Solo sostegno delli giorni miei:

Tanto severo mi componi il viso
Ch'io veggo ben che più quella non sei,
Quella che mi rendea pari agli Dei
Creandomi nel Mondo un paradiso.

Ah! se un fallo fec'io degno di morte
Il reo fu il labbro, ma innocente il cuore;
Anzi la sola rea fu la mia sorte.

Non punirmi però con tal rigore;
Ch'io non mi sento per soffrir capace
Lo sdegno tuo del mio destin peggiore.

IV.

Comechè immenso sia. donna, il dolore
Di che andò sempre la mia vita cinta;
Pur la speranza mai non n'ebbi estinta,
Ch'io mi nudriva di un destin migliore.

Ma incomincio a veder di quale errore
Finor la mente mia s'era dipinta,
Or che la speme è presso a restar vinta
Da un avvenir de' vecchi dì peggiore.

Serpere, o Cintia mia, tacita sento
Ne' ripari del sen fiamma vorace,
E dal misero cor trarre alimento.

Onde ahi! per poco a sostener capace
Sarò la forza del nuovo tormento.
Ohe niega di lasciarmi ombra di pace.

V.

Come fiume real verso la foce,
O pari a soffio di Maestro vento.
Va il tempo innanzi: ed ogni mio momento
In varia guisa, o mia Cintia, mi nuoce.

Quand'io non odo il suon della tua voce,
Troppo pel mio desir ei mi par lento:
Ma allor che il suono di tua voce io sento,
Parmi pel desir mio troppo veloce.

Così, o pigro il suo volo ami o gagliardo,
Cotanto, o cara, è il mio destin funesto,
Che ognor vo' il male, e sempre peggio aspetto.

Tardi ti veggo, s'io lo bramo tardo;
Ma, se a vederti pria, lo invoco presto,
Ahi! che la fin d'ogni mio bene affretto.

Giuseppe Gioachino Belli
Da: "Canzoniere inedito del Belli" in La età dell'oro - Versi di Giuseppe Gioachino Belli - Roma, Dalla Tipografia Salviucci, 1851

 
 
 

Pietro Barignano 1

III

Di M. Pietro Barignano

1

Breve riposo aver di lunghi affanni
E in poca sicurtà molto sospetto;
Veder fosco piacer, chiaro dispetto,
In cor voto di fé, colmo d’inganni;

Ridendo l’ore e lagrimando gli anni,
Di vera noia trar falso diletto;
Trovar morto l’ardir, vivo il rispetto,
Col perder nel guadagno de’ miei danni;

Gir cercando il mio ben, né saper dove;
Sentir di chiusa frode oltraggio aperto
E d’antichi pensier favole nuove;

Coperti sdegni in lusingar scoperto,
Son le cagion ch’ognor meco si truove
La speranza dubbiosa e ’l dolor certo.

2

Ove fra bei pensier, forse d’amore,
La bella donna mia sola sedea,
Un intenso desir tratto m’avea
Pur com’uom ch’arda e nol dimostri fore:

Io, perché d’altro non appago il core,
Da’ suoi begli occhi i miei non rivolgea,
E con quella virtù ch’indi movea
Sentia me far di me stesso maggiore.

Intanto, non possendo in me aver loco,
Gran parte del piacer ch’al cor mi corse
Accolto in un sospir fuora sen venne;

Ed ella al suon, che di me ben s’accorse,
Col vago impalidir d’onesto foco
Disse: "Io teco ardo", e più non le convenne.

3

Se ’l cor ne l’amorose reti avolto,
Onde né spera, né desia d’uscire,
Potesse un dì, vostra mercé, sentire
De la pietà che voi mostrate in volto,

Tutto ’l ben d’ogni amante insieme accolto
E posto al paragon del mio gioire,
Vagliami il ver, dir si potria martire
Di mezzo ’l centro de l’inferno tolto:

Che se quando sdegnosa e altera il viso
Da me torcete, sorda a’ preghi miei,
Scorgo in quel vostro sdegno un paradiso,

Che fora poi, s’un dì come io vorrei
N’avessi un dolce sguardo, un lieto riso?
Ditel voi, ch’io per me dir nol saprei.

4

Fia mai quel dì che graziosa stella
Mi porti al mio tesor tanto vicino,
Che quasi sconosciuto pellegrino
Ne involi parte, e sia poi la men bella?

Che in somma qual n’avessi, o questa o quella,
Non potria poi non vincer il destino,
E ricco per drittissimo camino
Girmene al ciel, che non andrei senz’ella.

O voi, che travagliate a l’ombra, al sole,
Per farvi singular fra l’altra gente,
Vostri sian pur perle, rubini ed oro;

Celesti sguardi, angeliche parole,
Alti pensier, più che d’umana mente,
Son le ricchezze del mio bel tesoro.

5

Il sol che solo a gli occhi miei fa giorno,
E senza il qual avrei ben notte oscura,
Spesso mi mostra l’alta mia ventura
Ne i vaghi lumi del suo volto adorno.

Però se tante e tante volte torno
A contemplar l’angelica figura,
Amor m’insegna, Amor, c’ha di me cura,
Amor, che meco fa sempre soggiorno.

Io veggo rimirando il suo bel viso
Quel che possendo poi ridir a pieno
Di bella invidia colmeria ogni core;

E sento del piacer del paradiso
Tanto e sì caldo, che per molto meno,
Non ch’altro, un ghiaccio n’arderia d’amore.

6

Gli occhi, ch’ad Amor già tanti e tanti anni
Pagan di troppo ardir piangendo il fio,
Forbete omai con l’un, TERPANDRO mio,
Che per lungo uso error non vi condanni;

Con l’altro, perché mai più non v’inganni
La rimembranza d’alcun bello e rio,
Bevete l’acqua d’un perpetuo oblio,
Dolce ristoro al fel di molti danni;

Ma col terzo tagliate pria i legami
Ove è sì avinto il liber voler vostro,
Che tanto sete in signoria d’altrui.

Per me inchinate al caro signor nostro
Umilemente, e dite quanto io brami,
Cangiata qualità, riveder lui.

7
[G2 G3 attribuito a N. Tiepolo]

Spento era già l’ardore e rotto il laccio
Ch’ebbi tanti anni al cor dentro e d’intorno,
Ed a me sciolto omai facea ritorno
L’antico freddo adamantino ghiaccio;

Or non so come a l’amoroso impaccio
Stolto a gran passi i’ pur anco ritorno,
Ed a me stesso più di giorno in giorno
Raccendo il foco e le catene allaccio.

Sento i primi pensier a mille a mille
Rinascer dentro e riportarne seco
Caldo desir, speme tenace e salda.

Questi sono i legami e le faville
Ch’io m’avrò, lasso, ovunque i’ vada meco:
Sì mi rilega Amor, sì mi riscalda.

8
[G2 attribuito a N. Tiepolo; G2 errata attribuito a P. Barignano; G3 attribuito a N. Tiepolo]

L’oro, il cristallo, l’ebano e i zaffiri,
E le purpuree rose in su la neve,
Rubin, perle e coralli in spazio breve,
E più il marmo, ch’io veggio ovunque io miri,

M’han fatto sì possente ne i martiri,
Che tutto quel che ad altri saria greve,
Sospir, lagrime e doglie, è a me sì lieve,
Ch’un men non ne vorrei de’ miei desiri.

Chi vide mai sì terse chiome altrove,
Sì lieta fronte, o sì tranquille ciglia,
Sì lucent’occhi, o ver guancie sì vaghe

Chi vide mai sì bella bocca, e dove
Sì puro sen, cagion de le mie piaghe,
Che d’amor m’empie, e altrui di meraviglia?

Pietro Barignano
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi, Giolito 1545)

 
 
 

Vincenzo Martelli

II

Di M. Vincenzo Martelli

1

Se Lisippo ed Apelle e ’l grande Omero
Col martel, co i colori e con l’inchiostro
Rendesse il ciel benigno al secol nostro
Per aguagliar con le sembianze il vero,

Potrian con l’arte e col giudizio intero
Adombrar forse il bel ch’a’ sensi è mostro,
Ma l’altra parte no del valor vostro,
Che non si può scolpir pur col pensiero.

Dunque i marmi, i color, le pure carte
Non cerchin far del ver sì bassa fede,
Se la bellezza è in voi la minor parte;

E voi con l’onorato e destro piede
Seguite il bel sentier, ch’arriva in parte
Che vieta a morte le più ricche prede.

2

Deh sostenete almen del vostro bello
Ceder qualche sembianza oggi a quell’arte
Che Policleto e Fidia in ogni parte
Onora ne i colori e nel martello,

E vedrete con stil chiaro e novello
Via più ch’al tempio di Minerva e Marte
Porgere i voti e consecrar le carte,
E far servo d’Amor qual più rubello.

Indi fuor d’ogni lor duro costume
Disporsi ogni metallo, ogni diamante
A sofferir per voi sì caro oltraggio;

Perché, serbando in lor del bel sembiante,
Faccin fede del vostro immenso lume
Col mostrarne a’ futuri un picciol raggio.

3

Voi, che per miglior via schivate l’orme
Della turba volgar, che nulla vede,
Scorgendo a noi con l’onorato piede
Del più saggio sentier le vere forme,

Mentre che con perpetue e chiare norme
A Lete, ingorda d’ogni gloria erede,
N’insegnate ritor l’ingiuste prede,
Destando in noi quella virtù che dorme,

Acquistate fuggendo un nome chiaro,
Che con illustri e celebrati inganni
Pugna e vince il rigor del tempo avaro.

Beata voi, che ne’ più bei vostri anni,
Quasi sdegnando il viver nostro amaro,
Poggiate viva a’ bei celesti scanni.

4

Donna gentil, che da pensier men saggi
Sciolta levate ove ’l valor gli invita
Gli occhi de l’alma a più serena vita,
Per fuggir delle Parche i fieri oltraggi,

S’a ragionar de’ vostri santi raggi
Sento frale il poder, la voglia ardita,
Siemi scusa appo voi che a sì gradita
Meta si sal per tropp’erti viaggi;

E poi ch’a me di poter dire è tolto
Quel ch’in voi si comprende, a cui conviene
Più bel tributo che mortale inchiostro,

Mirate da voi stessa il vostro volto,
Che per propio valor in vita tiene
Quanto ha d’onesto e bello il secol nostro.

5

[errata attribuito a P. Barignano]

D’un bianco marmo in due parti diviso,
Ch’Amor senz’arte sospirando move,
Tragge dolcezze il cor tante e sì nove
Che forse poche più n’ha il paradiso.

Così potess’io sempre mirar fiso
La maraviglia mai non vista altrove,
E dir cantando del piacer che piove
Dal lampeggiar d’un angelico riso:

Ch’io pascerei de l’un questi occhi tanto,
Quanto conviensi a disbramar la voglia
Che mi può far parer sempre digiuno,

E temprerei con l’altro quella doglia,
Ond’io provo talor più dolce il pianto
Che di ben lieto amante riso alcuno.

[errata attribuito a P. Barignano]

Io gìa cantando la mia libertate,
I lacci rotti e le faville spente,
Di che m’arse e legò sì fieramente
Donna gentil, ma nuda di pietate,

E dicea meco: "Or qual nuova beltate
Stringerà me d’un nodo sì possente,
Che non mi sciolga, e di che face ardente
Strugger potrà le mie voglie gelate ?"

Allor ch’io senti’ il cor dentro e d’intorno
Di fiamma viva e di catene salde
Acceso e cinto perché pur sempr’ami.

Una man bianca ed un bel viso adorno
Vuol che m’allacci Amor, vuol che mi scalde:
Dolce mio foco e miei cari legami.

Vincenzo Martelli
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (Giolito 1545)

 
 
 

Pietro Bembo 12-17

12

Un anno intorno s’è girato a punto,
Che ’l mondo cadde del suo primo onore,
Morta lei, ch’era il fior d’ogni valore.
Col fior d’ogni bellezza insieme aggiunto.

Come a sì mesto e lacrimoso punto
Non ti divelli e schianti, afflitto core,
Se ti rimembra ch’a le tredici ore
Del sesto dì d’agosto il sole è giunto?

In questa uscìo de la sua bella spoglia
Nel mille cinquecento e trentacinque
L’anima saggia; ed io, cangiando il pelo,

Non so però cangiar pensieri e voglia,
Ch’omai s’affretti l’altra e s’appropinque,
Ch’io parta quinci e la rivegga in cielo.

13

La ben nata, per cui chiaramente arsi
Undici ed undici anni, al ciel salita,
Ha me lasciato in angosciosa vita:
O guadagni del mondo incerti e scarsi!

Che s’uom sotto le stelle ha da lagnarsi
Di suo gran danno e di mortal ferita,
Io son colui, che chieggio a morte aita,
Né fine altronde al mio dolor può darsi.

Ben la scorgo io sin di là su talora,
D’amor e di pietate accesa il ciglio,
Dirmi: "Tu pur qui sarai meco ancora".

Ond’io mi riconforto, ed in quell’ora
Di volger l’alma al ciel prendo consiglio;
Poi torna il pianto tristo, che m’accora.

14

Signor, poi che Fortuna in adornarvi
Quant’ella possa chiaramente ha mostro,
Vogliate al poggio del valor col vostro
Giovenetto pensiero e studio alzarvi.

Ratto ogni lingua, se ciò fia, lodarvi
Udrete, e sacreravvi il secol nostro
Tutto ’l suo puro e non caduco inchiostro,
Per onorato e sempiterno farvi.

Ambe le chiavi del celeste regno
Volge l’avolo vostro, e Roma affrena
Con la sua gran virtù, che ne ’l fe’ degno.

La vita più gradita e più serena
Ne dà virtute, caro del ciel pegno;
Di vile e di turbato ogni altra è piena.

15

S’al vostro amor ben fermo non s’appoggia
Mio cor, ch’ad ogni obietto par ch’adombre,
Pregate lei, che ne’ belli occhi alloggia,
Che di sì dura vita omai mi sgombre.

Non sempre alto dolor che l’alma ingombre
Scema per consolar, ma talor poggia,
Come lumi del ciel per notturne ombre,
Di foco in calce trita esca per pioggia.

Morte m’ha tolto a la mia dolce usanza:
Or ho tutto altro e più me stesso a noia,
Anzi a disdegno, e sol pianger m’avanza.

COSMO, chi visse un tempo in pace e ’n gioia,
Poi vive in guerra e ’n pena, e più speranza
Non ha da ritornar qual fu, si moia.

16

O Sol, di cui questo bel sole è raggio,
Sol per lo qual visibilmente splendi,
Se sovra l’opre tue qua giù ti stendi,
Riluci a me, che speme altra non aggio.

Da l’alma, ch’a te fa verace omaggio
Dopo tanti e sì gravi suoi dispendi,
Sgombra l’antiche nebbie e tal la rendi
Che più dal mondo non riceva oltraggio.

Omai la guidi e regga il tuo bel lume,
E se già mortal fiamma e poca l’arse,
A l’eterna ed immensa or si consume

Tanto che le sue colpe un caldo fiume
Di pianto lavi; e monda, da levarse
E rivolar a te vesta le piume.


17

Alto Re, se la mia più verde e calda
Vita t’offese mille e mille volte,
E le sue doti l’alma ardita e balda
Da te donate ha contra te rivolte,

Or, che m’ha il verno in fredda e bianca falda
Di neve il mento e queste chiome involte,
Mi dona ond’io con pura e piena e salda
Fede t’onori e le tue voci ascolte.

Non membrar le mie colpe, e poi ch’adietro
Tornar non ponno i mal già spesi tempi,
Reggi tu, Padre, il corso che m’avanza,

E sì il mio cor del tuo desio riempi,
Che quella che ’n te sempre ebbi speranza,
Quantunque peccator, non sia di vetro.

Pietro Bembo
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (Giolito 1545)

 
 
 

Pietro Bembo 7-11

Pietro Bembo

7

VARCHI, le vostre carte pure e belle,
Che vergate talor per onorarmi,
Più che metalli di Mirone e marmi
Di Fidia mi son care, e stil d’Apelle.

Che se già non potranno e queste e quelle
Mie prose, cura di molti anni, e carmi
Al secol che verrà lontano farmi,
Spero di viver molto anco con elle.

Ma dove indrizzano ora i chiari rai
De l’ardente dottrina e studio loro
I duo miglior VITTORI e RUSCELLAI ?

Questi, e ’l dolce UGOLIN, cui debbo assai,
Mi salutate; o fortunato coro,
E tu Fiorenza, che nel centro l’hai.

8

Ben è quel caldo voler voi ch’io prenda,
PIETRO, a lodar la donna vostra, indarno,
Qual fora a dir che ’l Taro, il Sile o l’Arno
Più ricco l’Oceano e maggior renda.

E poi convien, qual io mi sia, ch’intenda
Ad altra cura, e ’n ciò mi stempro e scarno,
Né quanto posso il vivo essempio incarno,
Che non adombran treccie o cuopre benda.

Chi vede il bel lavoro ultimo vostro,
"Alto levan", dirà, "le costui rime
La sua SIRENA, onor del secol nostro";

La quale oggi risplende tra le prime
Per voi sì come nuovo e dolce mostro
Di beltà, di valor chiaro e sublime.



9

Se ’n me, QUIRINA, da ritrar in carte
Vostro valor e vostra alma bellezza,
Fosser pari al desio l’ingegno e l’arte,
Sormonterei qual più nel dir s’apprezza;

E Smirna e Tebe, e i duo ch’ebber vaghezza
Di cantar Mecenate, a minor parte
Sarian del grido, e fora in quella altezza
Lo mio stil, ch’è in voi l’una e l’altra parte.

Né così viva al mondo oggi si mostra
La Galla espressa dal suo nobil Tosco,
Tal che l’invidian tutte l’altre prime,

Che non più chiara assai per entro il fosco
De la futura età con le mie rime
Gisse la dolce e vera imagin vostra.

10

Se qual è dentro in me chi lodar brama,
Signor mio caro, il vostro alto valore,
Tal sapesse mostrarsi a voi di fore
Quando a rime dettarvi amor il chiama,

Ovunque vero pregio e virtù s’ama
S’inchinerebbe il mondo a farvi onore,
Securo da l’oblio de le tarde ore,
Se posson dar gl’inchiostri eterna fama.

Né men di quel, che santamente adopra
Il maggior padre vostro, andrei cantando;
Ma poi mi nega il ciel sì leggiadr’opra.

S’appagherà tacendo ed adorando
Mio cor, in fin che terra il suo vel copra:
Non poca parte uom di sé dona amando.

11

S’Amor m’avesse detto: "Ohimè da morte
Fieno i begli occhi prima di te spenti",
Arei di lor con disusati accenti
Rime dettato e più spesse e più scorte,

Per mio sostegno in questa dura e forte
Vita, e perché le chiare ed apparenti
Note rendesser le lontane genti
De l’alma lor divina luce accorte:

Che già sarebbe oltra la Tana e ’l Gange,
L’Ibero e ’l Nilo intesa, e divulgato
Com’io solfo a quei raggi ed esca fui.

Or, poi ch’altro che pianger non m’è dato,
Piango pur sempre; e son, tanto il duol m’ange,
Né di me stesso ad uopo, né d’altrui.

Pietro Bembo
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (Giolito 1545)

 
 
 
 
 

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Data di creazione: 26/04/2008
 

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