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Messaggi del 17/06/2015

Canzoniere inedito 9

XLI.

Amor, che in questa dilettosa via
Peregrinando, tua mercè, m'hai posto,
Deh non venirmi tanto ora discosto
Ch'io non ti trovi alla difesa mia.

Vedi che l'inquieta Gelosia
E 'l fier sospetto mi si fanno accosto.
Perchè il veleno ch'han seco nascosto
Passandomi nel cuor noia mi dia.

Tu, se ti piace, ben puoi darmi aita
Che a fugar questi congiurati mostri
Mentre ch'io giunga al mio fine mi vaglia.

Di me pertanto, o Signor mio. ti caglia.
Che tu 'l sai pure che i confini nostri
Stanno al di là di mia misera vita.

XLII.

Le laudi, i pianti, le proteste, i giuri.
Ch'io ti deposi in queste umili carte
Dunque mi rendi, nò più averli a parte
Delli diletti tuoi, Donna, ti curi?

Ma chiaro veggo che brev'ora duri
N'el fier proposto, e dei presto mutartc,
Chiedendo forse di mia debil'arte
I travagli passati ed i futuri.

Onor sottile e delicato assai
Certo ti pose quel pensiero in core
Di togliermi un rival sin ne' miei versi.

Amor nudre però pensier diversi
Onde or bene usi s'odi meglio Amore,
Che mal consiglio non daratti mai.

XLIII.

Chi al vostro merto, o Donna, a me fatale,
Laude condegna tribuir procura
Spende lo ingegno in opera sì dura
Che al saper sempre il buon voler prevale.

Però che tanto in su la terra e tale
È il privilegio che a voi die Natura
Che nell'arte di umana creatura
Dicer mai puote quanto e' sia e quale.

E solo in questo vi fu il Ciel nemico,
Che poi che dievvi la terrena veste
Xon ve la pose nel secolo antico.

Che allora avuto onor debito avreste
Di Torquato compagna e Lodovico,
Che ambi fur come voi cosa celeste.

XLIV.

Quel geloso furor, che in sen ti bolle
Dov'io di donna o con donna favello,
Pensar non devi che a me dia rovello.
Come falsa ragion diccr ti volle.

Anzi soave mi par quasi e bello
Quanto il sorriso tuo die al ciel mi tolle,
Da che nell'occhio rubicondo e molle
Amor ti veggo, chc Amor eerto è quello.

Nè in te sarà giammai ch'io lo condanni
Se non in quanto di dolor ti sia
Per que' che seco mena acerbi affanni.

Dunque se dolce m'è tua gelosia
Stimo giustizia che il girar degli anni
Mostrinti, o donna, a tollerar la mia.

XLV.

Le lunghe notti e i dì torbidi e brevi
(lià il celeste scorpion ci riconduce,
Ed il Centauro minaccioso e truce
Presto verrà colle ostinate nevi,

Sì che omai veggo che il mal giorno luce
Peggior fra quanti a me ne scorser grevi.
Quando fia che dal tuo fianco mi levi
Cui mi fu scorta lo mio cieco duce:

Dunque, amica, rimanti; e andar mi lascia
Dove in amarti e reverirti sempre
Avverrà che mia vita si consume.

E questo in mezzo all'amorosa ambascia
Pensier ti resti, che mutar mai tempre
Un affetto non può vòlto in costume.

XLVI.

Dal caro albergo, dove in gioco e in riso
E dolci sdegni e disiate paci
Pochi teeo menai giorni fugaci
Fra breve il mio destin m'avrà diviso.

Perchè, piangendo, d'infuocati baci
Stampo que' luoghi, ove sovente assiso
A contemplare il tuo placido viso
Io stetti, e gli amorosi occhi loquaci.

Più non so dirti: chè il dolor mi preme
Troppo sul cuore, e stringerai la gola,
Signor del corpo e dello spirto mio.

Queste accogli però lagrime estreme:
Ascolta insiem quest'ultima parola:
Addio, mio Nume; addio, mia Cintia, Addio.

Giuseppe Gioachino Belli
1824
Da "Il Canzoniere inedito di G. G. Belli", Estratto dal fascicolo di gennaio 1916 della Rivista d'Italia - Roma Piazza Cavour, Roma - Tipografia dell' Unione Editrice, via Federico Cesi 45
In "La Età dell' Oro", Roma dalla Tipografia Salviucci, 1851

 
 
 

Giovanni Muzzarelli

X
Di M. Giovan Mozzarello

1

Mentre i superbi tetti a parte a parte
Ardean di Roma e l’altre cose belle,
Mandava il pianto infin sovra le stelle
Il popol tutto del figliuol di Marte:

Sol cantava Neron, asceso in parte
Onde schernia le genti meschinelle,
Fra sé lodando or queste fiamme or quelle,
Per far scrivendo vergognar le carte.

Così di mezzo il cor ch’ella governa
Mira lieta il mio incendio, e tutta in pianti
De’ miei tristi pensier la turba afflitta,

Donna che sol di ciò par che si vanti,
Essendo in mille essempi già descritta
Sua crudeltate e la mia fiamma interna.

2

Deh perché a dir di voi qua giù non venne
Quel che cantò il furor di Troia e d’Argo,
Donna, ch’avete il ciel cortese e largo,
Che più vi diede assai che non ritenne?

Io, quel che più ad Omero si convenne,
Le vostre lode in molte carte spargo:
Ch’avess’io per mirarvi gli occhi d’Argo,
Poiché non ho d’alzarvi al ciel le penne.

Per fornir il suo don devea natura
Darmi così mill’occhi e mille lingue
Come tanta beltà concesse a vui;

Ch’espor non posso in voce eletta e pura
Con una lo splendor, ch’ogni altro estingue,
Né rimirarlo a pien con questi dui.

3

Dopo lungo servir senza mercede
E tener sempre in dubbio i miei desiri,
Con poca speme e lunghi aspri martiri
Acerba prova far de la mia fede,

E già che ’l mio desio tutto si vede
Nel volto espresso pur ch’altri vi miri,
Non aran pace omai tanti sospiri
E ’l cor che già gran tempo altro non chiede?

Deh se v’è il mio servir noto per prova,
Deliberate almen, dolce mia speme,
O di finirmi o di tenermi in vita.

Né pietà tardi il suo soccorso mova,
Che l’alma già vicina a l’ore estreme
Non può gir molto in aspettando aita.


4

Quei leggiadri d’amor pensieri ardenti,
Che ’n mezzo del mio cor s’han fatto albergo,
Mi spronan sì che tutti impenno ed ergo
Ad alta impresa i miei desiri intenti.

Però de gli occhi più che ’l sol lucenti
E del bel viso, in ch’io mi specchio e tergo,
De la mia donna mille carte aspergo
Per dimostrarla a le future genti.

So ben che troppo incarco ho preso addosso,
Ma fo sì come quel che poco prezza,
Per mirar fiso il sol, rimaner orbo.

Tanto avanza il mio stil la lor bellezza
Che vergogna con man da gli occhi forbo,
Ma contrastare al gran desio non posso.

5

Al fonte de gli ardenti miei desiri
Guidommi Amor, il mio nemico eterno,
Per darmi a diveder che nel suo inferno
Il peggio è ch’uom talor goda e respiri:
Tregua ebb’io ne la guerra de’ martiri,
Ma che pro, se dapoi ’l mio duol interno
Crebbe maggior e fu (se ben discerno)
Un rinovar de’ già stanchi sospiri ?
Meglio era aver la man pronta ed ardita
Contra me stesso, e questa frale scorza
Spogliar dinanzi a lei, che viver senza;
E m’averrà, s’a l’alma sua presenza
Ritorno mai: ed o pur ch’abbia forza
D’impetrar dal dolor sì lunga vita!

Mentre che voi ne’ vaghi ampi soggiorni
Della città, che spera ancor per vui
D’agguagliar lieta il ben d’i primi tempi,
Fondate nella mente opra per cui
Se stessa tutta e i sette colli adorni
D’antica gloria e renda voti a i tempi,
Stancando voi sotto il celeste incarco
Col Vicario di Dio, che con voi parte
L’alte cure che ’l ciel commise a lui,
E fate dubbio altrui
Qual sia il senno o la fede in voi maggiore,
L’oprar bene o la speme, onde sì carco
Si fa il mondo e gioioso d’ogni parte,
Quando il vostro destin cominciò in parte
Verso tanta virtù farsi men parco,
Io qui, signor, per procacciarvi onore
E la lingua e la man stanco e lo ingegno,
E perché al secol che verrà sien conti,
Il nome di LEONE e ’l vostro ingegno
Di risonar a i monti,
E della nostra età gli alti ornamenti
Portar cantando in fin al cielo, a i venti.

Così, vie più che saggio ardito forse,
Su le sinistre coste d’Appennino
Fin d’Elicona trar le Muse ho spene;
E sì quelle chiamando adoro e inchino,
Arso d’amor, che da che pria s’accorse
Non pur vaga una al mio pregar sen viene,
Né sdegna a i versi miei temprar la voce,
Sempre inalzando più le mie speranze
Con gli ardenti desii in ch’io le affino.
Ma, lasso, empio destino,
Quand’ha più pace, il cor spaventa in guisa
Ch’ei trema in mezzo ’l foco ove si coce;
E perché dietro a l’altre desianze
Di pensier in pensier sé non avanze,
Quel che sol più d’ogn’altro in ciò mi noce,
Povertà, da ciascun tanto derisa,
Mi è già vicina; ed io non posso aitarmi
Se voi, signor, in cui la mente spera,
Non ripigliate l’armi,
Porgendo a quel ch’è di virtude un sole
Miste con preghi un dì queste parole:

"O sacro Re, con cui l’eterno impero
Largamente ha diviso il sommo Giove,
Che contento or da voi gran cose attende,
Vicino a i lidi ov’Adria freme ed ove
Fra ’l Rubicone e ’l bel Metauro altero
Più lungi un corno il re de’ monti stende,
Per sparger sol di voi la fama e ’l grido
Dal Borea a l’Austro, e fin da Gange a Tile,
Fa desioso un uom tutte le prove.
Sol vero amor il move
E desio di piacervi e maravaglia
Delle tante virtù che ’n voi fan nido:
Di ciò si pasce, ogni altra cosa ha vile.
Ma mentre innalza e la voce e lo stile,
Volando dietro al suo pensier più fido
Che già gl’impenna i vanni e lo consiglia
Lasciar la terra e sollevarsi al cielo,
Con più furor minaccia, ov’ei men teme,
Stella nemica, e face il cor un gelo,
E la maggior sua speme
Fondata sol ne le impromesse vostre
Par che più frale ad or ad or li mostre.

Per che da l’alte e gloriose cure
Ne ’l ritrae stanco sì malvagia sorte
A pensar se da lui fosse il diffetto;
In tanto il duol, che suol doler più forte
Ne l’alme in sé ben d’ogni error sicure,
Di gelati pensier gli ingombra il petto.
Ma poi che, ahi lasso, a sé mirando in seno
Vede il cor senza colpa aperto e ignudo,
Vive una lunga e dispietata morte.
E ben ch’il riconforte
Sua conscienzia e a ben sperar l’invite,
E bontade onde avete il cor sì pieno
Sia quasi incontro a ria fortuna scudo,
Non per questo il destin fallace e crudo,
Che colma il viver suo d’atro veleno,
Creder lascia che mai contra il costume
Possa seco tener pace né tregua.
Ben priega il vostro a lui cortese nume
Che, perché altri il persegua,
Non gli manchi ei del primo almo soccorso
Mentre ancor son le sue speranze in corso.

Sapete ben per mille essempi e mille
Che a far per vera gloria un uom eterno
Senza i suoi studi ogn’altra cosa è vana.
Tanti eccellenti asconde il cieco inferno,
Cui fugge a pena Enea solo od Achille
Di quei che vide la città troiana,
De’ quali un stuol non men grandi ed egregi
Si tace ancor, che lodator non ebbe,
Quale Mantoa e Smirna al secol derno.
E se ben ver discerno,
Non ha d’altro il gran lauro oggi più fama
Che perché voi, maggior di tutti i pregi,
Al mondo diè, che senza voi sarebbe
Misero ed orbo, ed a sue lode acrebbe
Febo e Minerva e gli onorati fregi
Di Poesia, ch’ancor per padre il chiama.
Dunque al vostro splendor questo s’aggiunga,
Che, oltra che a voi convien l’usar pietade,
Chi sa che ad alto un dì questi non giunga
In più matura etade,
Se non gli manca il vostro aiuto usato,
Lo stil rompendo del maligno fato ?

Che già stella crudel tener in guerra
Non dee poter un uom che sì v’onora,
Contra cui fora ogni sua forza stanca,
Se vi specchiate in quel che in ciel s’adora,
Il cui loco sedendo ornate in terra,
Ch’ad alcun suo fedel giamai non manca;
Né per nuovo accidente effetto torre
A le vostre impromesse o mutar voglia
Dovria quel saggio cor ch’in voi dimora,
E mostra ad ora ad ora
Vie maggior opre assai che e’ desir nostri.
Sì vedrem poi il camin, che questi corre
Seguendo ove se stesso ir alto invoglia,
Forse privo del mal che pur l’addoglia,
Aguagliar alcun dì, ch’ora il precorre,
E scriver poi con più lodati inchiostri
Tutto quel per che al fin di tanti danni
Il mondo è sì di voi ricco ed adorno,
Sì che a tal che verrà dopo mill’anni
Sen muova invidia e scorno,
E faccia a l’altra età di tempo in tempo
Ir sospirando il ben del nostro tempo".

Canzon, se ’l più d’ogn’altro
Pregiato BEMBO vedi, ove t’invio,
BEMBO, ver cui l’amor cresce in me quanto
Fu sempre in lui valore e cortesia,
Non perché alcun giamai fosse, né fia,
Che di tanta vertù riporti il vanto,
Ma di vincer se stesso ha ancor disio,
A lui ti mostra; e se tua ragion trovi
Al buon giudicio intiero esser piacciuta,
Tientene vaga e poi sicura movi;
E ’l mio signor saluta
Umilemente, e pregal ch’altri preghi
Che sì giusto disio non mi si nieghi.

Giovanni Muzzarelli
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 

Come si svegli Amore

Post n°1756 pubblicato il 17 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

Ne li occhi porta la mia donna Amore,

Ne li occhi porta la mia donna Amore,
per che si fa gentil ciò ch'ella mira;
ov'ella passa, ogn'om vèr lei si gira,
e cui saluta fa tremar lo core,

sì che, bassando il viso, tutto smore,
e d'ogni suo difetto allor sospira;
fugge dinanzi a lei superbia ed ira.
Aiutatemi, donne, farle onore.

Ogne dolcezza, ogne pensiero umile
nasce nel core a chi parlar la sente,
ond'è laudato chi prima la vide.

Quel ch'ella par quando un poco sorride,
non si pò dicer né tenere a mente,
si è novo miracolo e gentile.

Dante Alighieri

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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