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Messaggi del 21/06/2015

Muzzarelli o Benalio

X
Di M. Giovan Mozzarello

19
[G2 G3 attribuito a J. A. Benalio]

Scuopri del bel cristal l’umida testa
Alto padre, beato e sacro Sile,
Ed a la voce mia ti movi e desta.

A riconoscer vien l’antico stile,
Che ne la etade mia più verde e nuova
Forse già non ti parve inculto e vile;

Che come a ogni benigno padre giova
Il figlio riveder dopo molt’anni,
Onde amor e pietade in lui rinova,

Così dopo miei lunghi exigli e affanni
Gioverà, padre, a te dopo mie’ errori
Vedermi il crin cangiato, il volto e i panni.

E come già miei giovenili ardori
Lungo le rive tue sfogando andai,
Bagnando del mio pianto l’erbe e i fiori,

Così ora nel mio canto udir potrai,
Mista tra le tue degne immortal lode,
La vera istoria de’ miei lunghi guai.

O felice quel cor che mai non rode
Pensiero amaro e nel suo antico nido
La lunga etade di sua vita gode;

Né mai fortuna col suo moto infido
L’ha fatto peregrin o l’ha costretto
Vago cercar l’altrui paese o lido.

Esso non teme il mar, non ha sospetto
D’oscura valle o solitario bosco,
Sicuro e salvo sotto ’l proprio tetto.

E benché ad altrui paia rozzo e losco,
Gode la vista del suo puro cielo
E i dolci frutti senza fiele e tosco.

Io nella età, quando di molle pelo
Incomincian fiorir le guancie e ’l volto,
Ed è più gioventù colma di zelo,

Fui, come sai, de la mia patria tolto
E mosso a ricercar l’altrui paesi,
Tra fatiche e perigli e cure involto.

E quattro lustri errando interi ho spesi
Sognando di gustar le tue dolci acque
E di calcar le rive tue cortesi.

Né fonte, o lago, o fiume mai mi piacque,
Né mai puoté acquietarsi il mio disio,
Né mai tue lode la mia lingua tacque.

O più ch’ogn’altro reverendo iddio,
Occhio d’i fiumi e re de gli altri fonti,
Chi ti potrebbe mai porre in oblio ?

Mentre che l’ombre caderan da’ monti
E l’urna tua si verserà nel mare,
Padre, fia sempre chi tue laudi conti.

Tu non hai l’onde tue rapide e avare
Come il Rodano e ’l Po, l’Adige e ’l Reno,
Che a gli vicini suoi son spesso amare,

Ma versi il vaso tuo chiaro ed ameno,
Che passi del suo umor le piante e l’erbe
Che t’empion spesso di bei fiori il seno.

Tu, qual Tebro con torte onde e superbe,
Non tiri teco i sacri altari e tempi,
Oprando anco ne’ dei sue forze acerbe.

Tu non vedi gli strazii orrendi ed empi
Com’egli vedut’ha de l’alma Roma,
Vermiglio e pingue d’i suoi crudi scempi.

Ahi, lasso me, colei che ’l mondo noma
Imperatrice di tutte le genti,
Sì poco e sì vil stuolo spoglia e doma.

Tu, come Arno, non hai gli alti lamenti
De’ cittadini tuoi miseri udito
E lor raccolti in te di vita spenti.

Tu, qual Tesin, del Re di Francia ardito
Non rivolgesti i forti corpi e i scudi,
Né in Po sì altero con sue spoglie gito.

Tu i Svizzeri non hai com’Ambro ignudi
Tratti per pasto di affamati pesci
O di rapaci e fieri augelli e crudi.

Tu, come il Bachiglion, giamai non cresci
De l’uman sangue, né per gli sommersi
Cavalli e cavalier del tuo letto esci.

Tu, come l’Istro, tanti e sì diversi
Non affondi destrieri, uomini e navi
D’Ungheri, di Tedeschi, Turchi e Persi.

Ma con le lucide onde tue soavi
Incontri il sol quando n’adduce il giorno
E queto le tue verdi sponde lavi.

Son tanti fiori ed erbe e frutti intorno
Le rive tue, che non vide Acheloo
Giamai il ricco corno suo sì adorno;

E allo spuntar veloce di Piroo
Odi i concenti di più lieti augelli
Che Meandro, Caistro o l’Indo eoo.

Sono i conforti suoi talor men belli
Gonfiati per le pioggie o per le nevi,
Onde a’ propinqui suoi si fan rubelli.

Ma tu nel chiaro grembo sol ricevi
Gli dolci Melma, Botenica e Storga,
Fonti a’ vicini suoi soavi e lievi.

Deh perché Apollo non fa ch’in me sorga
In tue lode un tal stil, come a quel saggio
Che cantò Laura apo Druenza e Sorga ?

O spiri in me di tanta grazia un raggio
Ch’io sia qual lungo a l’Ebro un nuovo Orfeo,
O Titiro sul Minzio o sotto un faggio.

Che forse non udì Pindo o Peneo
Ne le famose rive di Permesso
Più di me dolce cantar ninfa o deo.

Ma poiché tanto don non mi è concesso,
Pur non cesserò ancor con l’umil canto
Aver l’effetto del mio cor espresso.

Che se Pattolo e ’l Tago e l’Ermo il vanto
Hanno di preziose arene d’oro,
Che son spesso cagion di morte e pianto,

Tu di ricchezze non invidi loro,
Che fiorite di gemme ambe hai le sponde,
Sicuro di ciascun dolce tesoro.

E se pur loda alcun le torbide onde
E l’origine incerta del gran Nilo
Che ’l verde Egitto veste d’erbe e fronde,

Potrà ancor dir, ma con più duro stilo,
Ch’in sé nudrisca orrendi e crudi mostri,
L’ippopotamo fero e ’l cocodrilo.

Tu scopri il capo tuo ne’ campi nostri,
E gli umil pesci tuoi di puro argento
Pasci nel fondo di tuo’ erbosi chiostri.

Te, partendo da noi lieto e contento,
L’adriatica Dori e le sorelle
Colgon nel seno suo soave e lento.

Non guarda in mar il ciel con tante stelle
Quante nel letto tuo ninfe leggiadre
Scherzano ognor vaghe, amorose e belle.

Felice fiume, aventuroso padre,
Poiché de gli altri tuoi sacri consorti
Le lode apo le tue son scure ed adre.

Tu le palme idumee a Trevigi porti,
M’al tuo gran merto restan le parole
E la voce e ’l pensier e i versi morti,

E si nasconde per invidia el sole.

[cfr. scheda biografica J. A. Benalio]

Giovanni Muzzarelli
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 

Canzone, Canzonetta, Ode

Canzone; canzonetta: la canzone è una forma lirica italiana, di origine provenzale (prov. chansos - lat. cantio).
Variamente conformata dapprima, essa trovò il suo legislatore in Dante, il quale, nel capitolo della Volgare eloquenza, destinato a chiarirne il carattere, a fissarne le leggi, dopo aver detto che la canzone è la compiuta azione di colui che detta parole armonizzate ed atte al canto, la definisce più precisamente una congiunzione di stanze e chiama la stanza una compagine di versi e di sillabe; il poeta discorre poi delle divisioni della stanza, del numero, della qualità, dei versi, delle relazioni tra le rime; e le regole esposte illustra di copiosi esempi. - Il Petrarca, senza allontanarsi dalle leggi stabilite nella Volgare eloquenza, modificò in qualche parte l’organismo della canzone, per renderla più armoniosa, più agile e più adatta a riprodurre i vari affetti dell’animo suo.
Dopo Dante e il Petrarca, considerata nella sua forma più comune e più perfetta, la Canzone si può definire costituita di un numero non determinato di stanze, formate di un numero non determinato di versi endecasillabi e settenari, variamente disposti e variamente rimati. Ciascuna stanza può essere divisa in due parti: la fronte e la sirima (da una voce greca che significa strascico, coda); e nell'una e nell’altra si possono trovare suddivisioni di periodi minori, detti piedi e volte, collegati o indipendenti tra loro nell’ ordine delle rime. La Canzone italiana è spesso, come la provenzale, conchiusa dal commiato o congedo, che designa più chiaramente la persona a cui la lirica è rivolta, o ne compendia gli intendimenti e lo scopo: è una stanza più breve delle altre che, per la qualità dei versi e per l’ordine delle rime, corrisponde di solito all’ultima parte della strofa precedente.
Usata dai più antichi rimatori italiani, definita da Dante ecccellentissimum modum cantionum, la più propria, cioè, a rappresentare i pensieri più nobili e più gagliardi: prescelta dai poeti dello stil nuovo per dichiarare e diffondere le più sottili e più squisite dottrine d’amore: nobilitata dal Petrarca con argomenti non pure amorosi, ma morali e politici, la Canzone fiorì largamente nel sec. XIV, e prevalse a tutti gli altri metri lirici.
Decaduta nel periodo di rinascimento della cultura classica, risorse coi petrarchisti, e trovò nel Guidiccioni e nel Tasso chi le restituì l’antico splendore, pur conservandone l’organismo e le leggi metriche tradizionali; partecipò, nel seicento, al decadimento d’ ogni forma di arte, perdendo quella temperata e misurata armonia delle parti, che ne aveva formato la grazia e la bellezza. Ma il Chiabrera, il Testi, il Guidi, il Filicaia ne nobilitarono l’uso, la tolsero ai vincoli di norme troppo regolari e determinate, e le diedero così maggiore agilità e maggiore larghezza di ritmo. Infine Giacomo Leopardi alla canzone, interamente libera da leggi, impresse un carattere schiettamente personale.
La Canzonetta può essere considerata una varietà della canzone. Diversa da questa, soltanto pel nome in alcuni tra i rimatori italiani più antichi, designò, in altri, un componimento lirico d’argomento più umile, di intonazione più popolare, costituito di stanze e di versi di più breve misura. Raramente trattata sino al cinquecento e ristretta sempre all’uso popolare, il Chiabrera ne nobilitò nel seicento le origini, ne costituì nuovi esemplari, felicemente variati nella misura e nella cadenza del verso, nella disposizione delle rime, e rese così la Canzonetta più adatta alle esigenze della musica e del canto. Usata e abusata dall’Arcadia, elegantemente coltivata dal Rolli e dal Metastasio, nel rinnovamento della poesia italiana mutò col Parini di contenuto e di nome, e diventò, nelle Odi di lui, espressione efficace d’una robusta e sana lirica civile. V. Ode.
Cfr: il De Vulgari Eloq. di DANTE, Il; i
Manuali cit. dcl CASINI o del GUARNERIO e
inoltre D'Ovimo. lllr’trir‘a della canzone dan
tesca in Saggi Critici. Napoli, Morano, 1878, e saggi sulla c. del Biadene.

Ode: è la canzonetta melica, rinnovata di contenuto e di metro nella seconda metà, del secolo XVIII, specialmente per opera di Giuseppe Parini, che la foggiò variamente, costituendo la strofa di versi settenarî od ottonari, piani o sdruccioli, sciolti o rimati, inserendo tra essi, talvolta, anche l’endlecasillabo e sostituendo talora all’unica strofa la strofa doppia, costituita da due periodi eguali, conchiusi ciascuno da un verso tronco di rima conforme, come nell’ode pariniana Il Pericolo:

In vano in van la chioma
Deforme di canizie
E l’anima già doma
Da i casi, e fatto rigido
Il senno dall’età,

Si crederà che scudo
Sien contro ad occhi fulgidi,
A mobil seno, a nudo
Braccio e a l’altre terribili
Arme de la beltà.

Tra i poeti che più usarono l’ode, variandone lo schema metrico e nelle rime e nella misura del verso, ricordiamo il Foscolo, che scrisse le due bellissime odi All’amica risanata e a Luisa Pallavicino: il Monti nell'ode Al signor di Montgolfier: il Manzoni negli Inni sacri: il Mameli, l’autore dell’inno popolare Fratelli d’Italia, L’Italia s’è desta....., e più recentemente il Prati e il Carducci, ecc.
Cfr. Guarnerio: Manuale di versificaz. ital., Milano, Vallardi, 1893; BERTOLDI, Le Odi di G. Parini, illustrate e commentate, Firenze. Sansoni. 1890 (v. le notizie metriche preposte a ciascuna ode).

Tratto da: Prof. Vittorio Turri del R. Liceo T. Tasso di Roma. Dizionario Storico Manuale della Letteratura Italiana (1000-1900) Compilato ad uso delle Persone colte e delle Scuole. 4^ Edizione - 4° Migliaio con un’Appendice bibliografica. Ditta G. B. Paravia e Comp. (Figli di I. Vigliardi-Paravia) Torino-Roma-Milano-Firenze-Napoli, pagina 53 e 242.

Canzoni.
a) Canzoni filosofiche, morali, storiche.
"Tutto quello che dalla cima delle teste degli illustri poeti è disceso alle loro labbra, solamente nelle canzoni si ritruova. E però al proposito è manifesto che quelle cose che sono degne di altissimo volgare, si denno trattare nelle canzoni." (Dante, De Vulg. El. Lib. II, cap. ITI).
"La veste dell'alta poesia filosofica e mistica" - come la dice il Carducci - "la più antica e più notevole delle forme liriche italiane, fu adoperata in ogni tempo per 1' espressione dei pensieri più nobili e dei sentimenti più elevati. Nel sec. XV ebbe un momento di decadenza." (Casini. - V. anche D'Ovidio, Saggi critici, p. 416 e segg. ).
Sec. XIII: pag. 1, 4, io, 16, 17, 96, 104, 124, 133, 180, 185. 193, 250, 264, 310, 330.
Sec. XIV: pag. 35, 40, 59, 66, 76, 91, 98, 116, 126, 129, 148, 163, 170, 191, 256, 298, 315, 326, 334.
Sec. XV: pag. 5, 31. 52, 210, 252.
b) Canzoni a ballo o ballate, barzellette, frottole.
"Le canzoni fanno per se stesse tutto quello che denno, il che le ballate non fanno, perciò che hanno bisogno di sonatori ai quali sono fatte : adunque seguita che le canzoni siano da essere stimate più nobili delle ballate." (Dante, De Vulg. El. Lib. II, cap. III).
"Questi componimenti che in Toscana si dicevano canzoni a ballo, si chiamarono barzellette nell' Italia superiore e il nome si diffuse poi dovunque e si compresero anche sotto la più generica appellazione ài frottole. Salite dalle piazze e dai trivi nelle aule dei signori e cantate sulla lira nelle feste e nei ritrovi furono assai accolte alla società elegante dell' estremo quattrocento. (Rossi. - 'V. anche Flamini, Studi di storia leti. Hai. e straniera).
"In Italia - dice il Carducci - la ballata riceve l'ultima e tipica forma tra le feste del popolo toscano a cielo scoperto. Allo svelto e gaio epodo, al facile svolgersi delle strofe per due mutazioni medie nella volta finale dove torna sempre la stessa armonia e rima, mostra bene eh' ella dovesse essere cantata dai danzatori stessi in ballando, o cantata da un altro dovesse temperare i giri del ballo... e divenne la forma della poesia più sensibile e colorita, comune al popolo ed ai borghesi non che ai poeti propriamente detti quando al popolo si voleano accostare... Ebbe nel dugento due maniere diverse, la fantastica e malinconicamente severa del Cavalcanti, la imaginosa e mollemente florida di Lapo Gianni... nel secolo XIV le ballate appena composte eran rivestite di note musicali e correano dall' un capo all'altro d' Italia e in Inghilterra e in Francia...
Con lo scader dei costumi la ballata perde di quell' ideale cbe al tempo di Dante si riflettea sin nella forma sensibile, sempre più facendosi volgare, senza però scapitare di grazia, di gaiezza, d'amenità, finché Franco Sacchetti l'avvezzò burlesca o raotteggevole. Nel quattrocento fini di liberarsi da certe soggezioni della letteratura dotta e a questo punto la presero il Medici e il Poliziano...
Dopo il quattrocento non ebbe più propria e vera vita. ,,
Sec. XIII: pag. 25, 26, 71, 64, 117, 140, 147, 174, 195, 233, 238, 241, 243, 266, 295, 323.
Sec. XIV: pag. 13, 15. 20 32, 43, 75, 119, 120.148,153, 157, 169, 184. 199, 200, 202, 204, 225, 232, 23S, 235, 277, 282, 286, 295, 308, 309.
Sec. XV: pag, 27, 107, 154, lói, 172, 189. 242.

Tratto da: "Lirica italiana antica, novissima scelta di rime dei secoli decimoterzo, decimoquarto, e decimoquinto; illustrate con melodie del tempo e con note dichiarative", di Eugenia Levi (1876-?), Firenze, Bemporad 1908, pagina XVIII.

 
 
 

Ecco pena dogliosa

Ecco pena dogliosa,


Ecco pena dogliosa,
che ne lo cor m'abonda
e sparge per li membri
sì ch 'a ciascun ne ven soverchia parte:
non ho giorno di posa,
come nel mare l'onda.
Core, che non ti smembri?
esci di pena, e dal corpo ti parte.
Molto val meglio un'ora
morir, che pur penare:
che non po' mai campare
omo che vive in pene,
né gaudio noi sovene,
né pensamento ha che di ben s'apprenda.

Tutti quei pensamenti
che miei spirti divisa
sono pene e dolore
senz'allegrar, che no li si accompagna;
ed in tanti tormenti
abondo in mala guisa,
che 'l naturai colore
tutto perdo, sì il core isbatte e lagna.
Or si pò dir da amanti
«che è ciò? perchè non more,
poi che 'nsagnato ha 'l core?»
Rispondo «chi lo 'nsagna,
in quel momento stagna,
non per mio ben, ma proba sua vertute».

Re Enzo (1225-1272)
Da: Antologia della Lirica Italiana a cura di Angelo Ottolini. Milano Casa Editrice R. Caddeo & C., 1923, pagina 21

Bibliografia su Re Enzo (1225-1272):
L. Frati, La prigionia di Re Enzo a Bologna, Bologna 1902.
H. Blasius, K Enzio, Breslau 1885
M. D. SZOMBATHELY, R. E. nella storia e nella leggenda, Bologna, 1912.

 
 
 

Canzoniere inedito 10

XLVII.
Albeggiando il giorno onomastico della sua dolce Amica Marchesina Vincenza Roberti: Anna Chichi. Al bacio.

Con tacit'ali, o d'amicizia figlio
Entra là dove in molli coltri ascosa
Nobil Donzella a me cara riposa,
Chiudendo in grembo a quieto sonno il ciglio.

Ivi del collo ah non lambire il giglio,
Ah non toccar del bel volto la rosa:
Erra un istante, e poi lieve ti posa
Di quella vergin sul labbro vermiglio.

Intanto poco andrà ch'ella sia desta:
Premi tu allor la sua bocca pudica.
E fa ch'ella oda de' tuoi vanni il suono.

Poi correre in tuo pro me vedrai presta
Perchè sia piano alla diletta Amica
Esser te casto, e d'amicizia un dono.

5 aprile 1822, Acrostico.


XLVIII.
Pel giorno 17 settembre 1822
natalizio della soave Amica March. Vincenza Roberti

Poiché col sesto passo il Sole ornai
È a noi trascorso a ricondurre il giorno
Piglio le canne che là pur sull'omo
Pendule e mute, o Cintia, ti mostrai.

E qui mi aggiro ove tranquilla stai
Entro il paterno tuo dolce soggiorno.
Di nuova luce vagheggiando adorno
Il dì che al di già un dì schiudesti i rai.

Cara, vigil son'io sin dall'Aurora
E tu di sì bel dì sull'ora sesta
Nel sonno giaci e non ti scuoti ancora?

Cara, non dormir più, sorgi, ti desta.
Il tempo fugge, e preziosa è l'ora.
Ah! pensa qual sia giorno oggi di festa.

Allude ad altro sonetto N. 12, Acrostico.


XLIX.
A dì 16 novembre 1823 pel 5 aprile del medesimo anno, giorno natalizio della soave Amica Marchesana Vincenza Roberti.

Fra tutti i beni, della cui jattura
Uomo si lagna e 'l sofferir gli è grave
Il tempo noverar primo si deve
Quando si perde senza trarne usura.

Ma non ebbe mai tanti està sciagura
Sospir quanti da me sol ne riceve:
Chè l'occasione è così rara e breve.
E poco di fruirne io tolgo cura.

Donna, il dì venne, che a te diede il nome;
Ed io lasciailo andar senza raccorre
Un solo fior per le tue belle chiome.

Ed ora oimè che troppo indietro e' corre,
Richiamar lo vorrei, ma non so come:
E 'l disio tardi al buon disio soccorre.

L.
Pel giorno 17 settembre 1823
natalizio della soave Amica March.» Vincenza Roberti.

Donna, che tanta dentro il cuor mi tieni
Somma di affetto e di pensier nell'Alma,
Torna oggi il dì che nella bella salma
Venisti a parte dei dolor terreni.

E finor poco gli anni tuoi sereni
Si audaro in pace avventurosa ed alma:
Che un astro avverso t'invidiò la calma,
Onde avean merto di trascorrer pieni.

Ma se Colui che tutto move e regge,
Con favor pari a mia viva speranza
Nel cuore Amico e nel pensier mi legge:

La triste gente, che nel Mondo ha stanza,
Dicer dovrà, che ad ogni umana legge
La tua felicitate oltre s'avanza.

LI.

Pel giorno 17 settembre 1823.
natalizio della soave Amica march», vincenza roberti.
Del secol, che fuggìo già l'nltim'anno
Volgea sul fin del sesto segno il Sole;
E già di libertà la vana mole
Se avea distrutto e lo stranier tiranno:

Quand'io, giacente in un letale affanno.
Privo attendea di sensi e di parole,
Che del fallo primier l'orrida prole
Il fil troncasse de' miei giorni e 'l danno.

Ma ben diversa, o Donna, era mia sorte;
Che l'Arbitro volea di nostra vita
Farmi a te servo, e non dannarmi a Morte.

Però in que' dì, che a sua mente infinita
Piacque del Mondo a te schiuder le porte,
A me d'eternità chiuse l'uscita.

LII.
Pel giorno 17 settembre 182 4natalizio della dolcissima Amica Marchesina Vincenzia Roberti.

Poiché sul Tebro a me giorno sereno
Non mai splendeva; e tristo erami e scarno.
Andai mia pace a ricercar sull'Arno
Là dove tutto è d'allegrezza pieno.

Ma fatto accorto ch'io speraila indarno
Poscia alle rive trapassai del Reno;
Sempre in disio di richiamarmi in seno
Quelle dolcezze ch'indi lungi andarno.

Come l'ore però poco ridenti
Scorrer mi vidi su quel lido ancora,
I dolci colli rimembrai del Chienti.

Ratto mi mossi, e qui volgimi allora,
Perchè del dì che tu fosti alle genti
Data venissi ad onorar l'aurora.

Giuseppe Gioachino Belli
Da "Il Canzoniere inedito di G. G. Belli", Estratto dal fascicolo di gennaio 1916 della Rivista d'Italia - Roma Piazza Cavour, Roma - Tipografia dell' Unione Editrice, via Federico Cesi 45
In "La Età dell' Oro", Roma dalla Tipografia Salviucci, 1851

 
 
 

Il Malmantile racquistato 05-1

Post n°1771 pubblicato il 21 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

QUINTO CANTARE

Argomento

Vuol con gl'incanti dar la Maga aita
In Malmantile al popolo assediato;
Ma dagli spirti è così mal servita,
Che tra' nimici è il suo saper beffato.
Vien Calagrillo, e a duellar la 'nvita:
E lo 'nvito è da lei tosto accettato.
Il Fendesi, e altri due, com'è usanza,
Sparir di Piaccianteo fan la pietanza.


1
E' si trova talun che è sì capone,
Che ad una cosa che si tocca e vede,
E che di più l'afferman le persone,
Vuol essere ostinato e non la crede;
Un altro è poi sì tondo e sì minchione,
Che se le beve tutte e a ognun dà fede;
E ci son uomin tanto babbuassi,
Che crederebbon ch'un asin volassi.

2
Gli estremi non fur mai degni di lode:
Ci vuol la via di mezzo; e chi ha cervello,
Se vere o false novitadi egli ode,
A crederle al compagno va bel bello:
Le crede, s'elle son fondate e sode;
Ma s'elle star non possono a martello,
Non le gabella (512) mica di leggieri,
Come fa il Duca (513) a certi messaggieri.

3
Ma perchè chi m'ascolta intenda bene,
Tornare a Martinazza mi bisogna:
La qual dianzi lasciai, se vi sovviene,
Che in sul Caprinfernal, pigra carogna,
Quel popolaccio ha aggiunto e lo ritiene
Dal fuggir via con tanta sua vergogna;
Perchè, quando per lei la raffigura,
Rallenta il corso e piscia la paura.

4
E quivi, coll'affanno in sulla pena (514),
Tutto lamenti, condoglienze e strida,
Tremando forte come una vermena,
La prega, perchè in lei molto confida
E perchè addosso giunta gli è la piena
E lì tra lor non è capo nè guida,
A far in mo', se si può far di manco,
Ch'ei non s'abbia (515) a cacciar la spada al fianco.

5
Ella risponde allor, ch'è di parere
Che il pigliar l'arme faccia di mestiero;
Che per la patria par che sia dovere
Il farsi bravo, e diventar guerriero;
Sebben fra tanto vuole un po' vedere,
S'ella con Gambastorta e Baconero (516)
Trovar potesse il modo che costoro
Vadano a far il bravo a casa loro.

6
Ciò detto, balza in casa, e colà drento
Per ugnersi dispogliasi (517) in capelli;
E cacciatasi addosso quant'unguento
Aveva ne' suoi fetidi alberelli,
Un gran circolo fa nel pavimento,
E con un vaso in man, scritti e cartelli,
Borbottando parole tuttavia,
Che nè men si direbbono in Turchia,

7
Fa un salto a piè pari in mezzo al segno;
E quivi avendo all'ordine ogni cosa
Per mandare ad effetto il suo disegno,
Grida così con voce strepitosa:
O colaggiù dal sotterraneo regno
Cornuti mostri e gente spaventosa,
Filigginosi abitator di Dite,
Badate a me, le mie parole udite.

8
Vi prego, vi scongiuro e vi comando
Per la forza e virtù di questi incanti;
Per quest'acqua che a gocce in terra spando
Dagli occhi distillata degli amanti;
Per questa carta, ov'è stampato il bando (518)
Di quella porcheria de' guardinfanti
Che di portar le donne han per costume,
Ricettacol di pulci e sudiciume;

9
Per gl'imbrogli vi chiamo e l'invenzioni,
Che ritrova il legista ed il notaio,
Quando per pelar meglio i buon pippioni,
Gli aggira, che nè anche un arcolaio:
Orsù, pezzi di sacchi di carboni,
Per quei ladri del sarto e del mugnaio
Che ti voglion rubare a tuo dispetto,
Uscite fuor, venite al mio cospetto.

10
Tutto l'Inferno a così gran parole
Vien sibilando e intorno le saltella,
Come dall'alba al tramontar del sole
Fa quel ch'è morso dalla tarantella (519).
Domandale Pluton quel ch'ella vuole,
Chè stridendo ogni dì lo dicervella;
E lui, ch'or mai ha dato nelle vecchie,
Fa ire in giù e in su come le secchie;

11
Ed a far ch'ei si pigli quella stracca
Senza cagion, gli par ch'ell'abbia il torto;
Perchè dalla profonda sua baracca
A Malmantil non è la via dell'orto.
Corpo!... (dic'ella, ed al celon(520) l'attacca)
A venire insin qui tu sarai morto!
Ma senti, il mio Pluton, non t'adirare,
Chè venir non t'ho fatto sine quare;

12
Ma perchè tu mi voglia far piacere
Di darmi Baconero e Gambastorta,
Perch'io mi vo' dell'opra lor valere
In cosa che mi preme e che m'importa.
Plutone allor quei due fa rimanere,
E la strada si piglia della porta
Seguìto da' suoi sudditi, che tutti
Posson fondar la Compagnia de' Brutti (521).

13
Lascian Plutone e corron dalla druda
I due spirti, aspettando il suo decreto:
Ed ella allor, che fa da Cecco Suda (522)
Per far sì che Baldon dia volta a dreto,
Ed anche, se si può, ch'ei vada a Buda (523),
Gli prega che le dian qualche segreto,
Di far, senz'altre guerre ovver contese,
Che quelle genti sfrattino il paese.

14
Io ho, dice un di lor, bell'e trovato
Un'invenzion, che ci verrà ben fatto;
Perchè il duca Baldone è innamorato
Della Geva di corte, e ne va matto:
Ma la furba lo tiene ammartellato,
E due tavole (524) dar vorrebbe a un tratto,
Tenendo il piè in due staffe, amando lui,
E parimente il duca di Montui (525).

15
Però, se noi finghiam ch'ella gli scriva
Che 'l suo rivale (adesso ch'egli ha inteso
Ch'ei s'è partito) colla gente arriva
Per volergliela su levar di peso;
E che se proprio è ver che per lei viva,
Com'ei spesso giurò, d'amore acceso;
E se gli è cara; lo dimostri, e prenda
Ed armi e bravi, e corra e la difenda.

16
Vedrai che 'l duca torna allotta allotta,
Correndo a casa come un saettone
Con quanta ciurma ch'egli ha qua condotta,
Per voler ammazzar bestie e persone.
Or dunque tu, che sei saputa e dotta
Che non la cedi manco a Cicerone,
Scrivi la carta; chè tu sai che noi
Siam tutti un monte d'asini e di buoi.

17
Non ti do contro, rispond'ella, a questo,
Ed ho gusto che voi vi conoschiate (526).
Orsù, dice il demonio, scrivi presto
Due parole in tal genere aggiustate.
Sì, dic'ella; ma vedi, io mi protesto,
Ch'io non portai mai lettere (527) o imbasciate.
Scrivi soggiunge quei; chè, quanto al porta,
Eccomi lesto qui con Gambastorta.

18
E per dare al negozio più colore,
In forma voglio ir io d'una comare
Della sua Geva, detta Mona Fiore,
Confidente del duca in ogni affare.
Gambastorta verrà da servitore,
Che mostri di venirmi a accompagnare;
E già per questo ho fatte far di cera
Due palle, una ch'è bianca, e l'altra nera.

19
Quand'un tien questa nera in una branca,
Di subito d'un uom prende figura;
E s'ei vi chiude quell'altra ch'è bianca,
In femmina si muta e trasfigura.
Sicchè riguarda ben s'altro ci manca,
E distendi mai più (528) questa scrittura;
Chè 'l mio compagno ed io qua per viaggio
Ci muterem l'effigie e il personaggio.

20
La nera a lui darò, ch'altrui lo faccia
Parere un uom di venerando aspetto;
La bianca terrò io, che membra e braccia
Della donna mi dia che già t'ho detto.
La strega qui gli dice ch'ei si taccia,
Perch'ella scrive, e guasto le ha un concetto;
Ma lo scancella, e mettelo in postilla:
Così piega la carta e la sigilla.

21
Le fa la soprascritta e poi finisce,
A piè d'un ghirigoro, in propria mano;
E con essa quel diavolo spedisce
Alla volta del principe d'Ugnano:
Là dove l'un e l'altro comparisce
Con una delle dette palle in mano,
Credendo l'un rappresentar la Fiore,
E l'altro il servo; ma sono in errore.

22
Chè Baconero, il quale è un avventato,
Nel dar la palla all'altro di nascosto,
Senza guardarla prima, avea scambiato
E preso un granchio e fatto un grand'arrosto.
Perciò quand'a Baldone egli è arrivato,
Dice cose dal ver troppo discosto;
Mentr'egli afferma d'esser donna, e sembra
Uomo alla barba, all'abito e alle membra.

Note:
(512) GABELLARE. Ammettere una cosa; dalla gabella delle porte.
(513) IL DUCA. Baldone.
(514) IN SU LA PENA. L'affanno del correre aggiunto alla paura.
(515) CH'EI NON S'ABBIA a trar dal fodero la spada che è al fianco.
(516) GAMBASTORTA ecc. _Nomi immaginari di due diavoli.
(517) DISPOGLIASI ecc. Dice il Minucci che spogliarsi in capelli oltre a significare Spogliarsi ignuda e sciogliersi le trecce, vale anche, Adoperare ogni suo sapere per fare una tal cosa.
(518) IL BANDO ecc. In tutti i tempi si è fatta guerra al cerchio, ma il cerchio trionfa, a dispetto anche dei bandi imperiali e delle congiure mazziniane.
(519) TARANTELLA o tarantola è un ragno il cui morso produce una pericolosa enfiagione. Ma l'effetto che qui si descrive non so so sia vero. Forse da questo fatto, o da questa opinione, è venuto il nome ad un certo ballo napoletano.
(520) IL CELONE. (cielo), È una specie di panno e coperta da letto.
(521) DE' BRUTTI. Fu in Firenze una compagnia o accademia così chiamata.
(522) CECCO SUDA. (sudare) Che s' affanna, s'affatica.
(523) A BUDA. Vada per non più tornare, muoia; dal fatto dei molti Cristiani che morirono nella guerra fra i Turchi e Lodovico re d'Ungheria, circa il 1626.
(524) A DUE TAVOLE ecc. Fare un viaggio e due servizi, tener due a bada; tratto da uno dei giuochi che si fanno sul tavoliere.
(525) MONTUI, Montughi, villaggio vicino a Firenze.
(526) VI CONOSCHIATE per quegli asini e buoi che siete.
(527) NON PORTO LETTERE ecc. Dire a una donna che porta lettere e ambasciate, è quanto dirle ruffiana.
(528) MAI PIÙ. Una volta, finalmente.

Lorezo Lippi
Da "Il Malmantile racquistato" di Lorenzo Lippi (alias Perlone Zipoli), con gli argomenti di Antonio Malatesti; Firenze, G. Barbèra, editore, 1861)

(segue)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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