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Messaggi del 03/06/2015

Er rompicollo de mi’ sorella

Er rompicollo (1) de mi’ sorella

Pijjà mmojje! e cche ccià? (2) ccià un par de monghi. (3)
Co cquer tanto c’abbusca (4) in stamperia
in cammio de sazzialla (5) all’osteria
la pò abbottà de virgole e dditonghi.

Io je l’ho ddetto a llei, che sse disponghi
a ccampà de sbavijji (6) e ccarestia,
e cche sse pò attaccà a ssanta Maria, (7)
ma ffaranno le nozze co li fonghi.(8)

E llei? ggnente: cocciuta (9) com’un corno.
Lo vò, (10) ccredessi (11) de morí affamata.
Dunque, schiavo: se pijjino, (12) e bbon giorno.

E ssai cosa je canta Mamma e Ttata,
e ttutti li viscini de cqua intorno?
«Servo, sora cucuzza-maritata». (13)

Giuseppe Gioachino Belli
20 aprile 1834
Sonetto 1215

Note:
1. Il matrimonio malauguroso.
2. Che ci ha? cos’ha? cosa possiede?
3. Niente affatto. Dicono ancora un par de ciufoli (zufoli).
4. Busca: guadagna.
5. In cambio, invece di saziarla.
6. Di sbadigli.
7. Attaccarsi a Santa Maria: fare ogni sua possa.
8. Proverbio indicante la povertà delle nozze.
9. Ostinata, dura.
10. Lo vuole.
11. Quando anche credesse, ecc.
12. Si piglino, si sposino.
13. Minestra di zucche ed uovi. Qui ciascuna delle due parole deve avere il suo significato distinto: «stolta» che «va a marito».

 
 
 

Sabato 17 novembre

Post n°1694 pubblicato il 03 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

Sabato 17 novembre

Stamattina ho fatto una passeggiata. .Passando, ho notato alcuni particolari in via Nazionale. I cipressi di villa Colonna visti sopra le arcate, alla svolta. Di mattina il Corso è illuminato sulla sinistra; il lato destro è in ombra (il contrario nel pomeriggio) e in fondo si ha un bei colpo d'occhio su piazza del Popolo. L'abside tonda del Gesù è sotto il sole. Via del Plebiscito si restringe e il tratto più stretto è fra il Gesù e palazzo Altieri; ombra fredda. Poi, davanti al Gesù, un raggio di sole. Si entra in via d'Aracoeli e in fondo, al sole, il Campidoglio con le sue salite verdi. Lungo tutto corso Vittorio Emanuele il sole colpisce le facciate in alto, sulla destra.
Dall'alzaia davanti a palazzo Sacchetti: in alto i cipressi sopra l'Orto botanico. Si vedono le mura forate dalle finestre, le tegole e il piccolo campanile di Sant'Onofrio. Più a valle tutta Trastevere è avvolta da un vapore azzurrognolo: case e edifici si stagliano neri.
In fondo a via Giulia comincia via dei Pettinari, tanto stretta e buia: da un lato il muro nudo, senza negozi, dell'ospedale e della chiesa Santa Trinità, dall'altro case dalle mura nude e dai negozi oscuri; una stretta striscia di cielo al di sopra. In fondo, dopo piazza de' Pellegrini, il Monte di Pietà si trova a destra, un'arcata coperta di piante attraversa la via. Il sole si staglia in fondo alla via nera. Poi si gira sulla piazza del Monte di Pietà e ci si trova in un quartiere nero e un po' deserto, dalle vie strette e nude. fino a piazza Cairoli.
San Crisogono. Tutta rivestita di stoffe. Le colonne di granito chiuse in un fodero di damasco rosso, bordato d'oro. I portici fra le colonne, da un'estremità all'altra della navata, coperti da motivi alternati: uno giallo e blu; un altro oro e rosso; un altro rosso e bianco. Il rosso e il blu sono di seta leggera; il bianco di mussola; Poro è di stoffa grossa, intrecciata con metallo. Tende per ogni motivi e in alto un drappeggio obliquo. Anche tutta la larghezza del coro è drappeggiata con un ampio motivo. E una decorazione di gala, festiva. Infantile e molto decorativa, fatta con stoffe comuni. Con questo gioco la piccola cappella si allarga, diventa enorme. Il soffitto è sempre da tempio, a cassettoni dorati. Oro su blu, lo stemma dei Borghese è ripetuto due volte, accanto a quello del cardinale. Il pavimento è in mosaico di marmo.

Trastevere. Vie strette, miserabili, puzzolenti. Carni sanguinolente e nerastre, senza dubbio provenienti da animali mal uccisi: beccheria. Sartoria. Drogheria. Banco del lotto, con i numeri appesi fuori. Piccola trattoria. Osteria. Pizzicheria. Forno, con i pani rotondi uno sull'altro. Le friggitorie con i quadrati di polenta e i pesci fritti. I mercanti di legumi cotti, pacchetti di spinaci, sedano, cavolfiori, carciofi (non si fa cucina). L'odore spaventoso quando si passa davanti alle mescite di vino, alle friggitorie, ai venditori di legumi cotti e agri.
Ecco cosa sarà il mio Trastevere: la passeggiata di Pierre, che ben conosce la miseria parigina e che vuole studiare questa. I suoi pensieri. E più allegra, per via del clima. Ma forse più irrimediabile, a causa dell'ignoranza. Da troppo tempo non esiste democrazia intelligente. Pierre è per il risanamento, perché si faceva entrare aria in questo carcere infetto. Dunque, da questo punto di vista, quello che resta di Trastevere a parte il preteso lato pittoresco: luce, salute, scienza (più tardi la scienza cancellerà tutto). E da qui Trastevere già sventrato, ciò che ne resta, nero e maleodorante fra i raggi del sole, demolizioni freschissime, buchi d'aria fatti a colpi di piccone e ancora non si è potuto ricostruire. Un bei lavoro, insomma, per interesse della vita. Il ghetto già completamente demolito.

Al vero Frascati. Salumeria, carni salate, forte odore. Asinelli tirano carretti di verdure. Bancarelle di poveri fruttivendoli, pigne in vecchi panieri, pomodori su un banco, su un'asse; e il buco nero e umido delle botteghe. Quattro tacchini condotti da un uomo a colpi di frusta. Un formicolio di bambini, sporchi e mezzi nudi (la fecondità, la rapida moltiplicazione della miseria). Donne senza cappello, con uno scialletto e una sottana sporca. Tutte nere e sporche. Uomini in maniche di camicia colorata, pantaloni sporchi. Vino dei Castelli. Barbiere. Gatti neri sui gradini. Vendita di cesti di frutta. Sarto, con un uccellino in gabbia che canta sulla porta. Vecchi secchi di zinco appesi fuori della porta, pieni di terra, con una pianta grassa dentro. Scale, buchi neri, case disuguali, sordidi alloggi, la vita fuori, tutte le occupazioni svolte per strada. Una donna, con un ragazzine sulle ginocchia, gli fruga in testa per togliergli i pidocchi. Il ciabattino lavora sul marciapiedi. Altre piccole attività dello stesso tipo. Pomodori secchi, infilzati. Calzoleria, ciabattino all'aria aperta. Particolari sulle pizzicherie. Donne con un bambino in braccio, che ne trascinano altri. I bei bambini sono pochi (sporchi, riccioli neri). Qualche bella ragazza, ma rare anche loro. In generale il popolo è piccolo e laido. Vecchi seduti sulle soglie. La biancheria pende da tutte le finestre, al sole. Ombre alle svolte delle vie. Un odore insopportabile. Vini scelti dei Castelli. Un lavatoio in basso, grande vasca piena d'acqua insaponata. Le donne ti si precipitano addosso chiedendo l'elemosina. Un buco con delle rovine, un mosaico (bianco e nero) nello sfondo nero e umido. Stazione VII dei vigili (vedere la guida). Piccole vergini all'aria aperta, col loro lumino. Case che crollano e che sono state puntellate. Non resta dunque che l'impressione di una fetida miseria. La grande via che ha tagliato il quartiere e che passa davanti a San Crisogono. Tornando, andando verso palazzo Farnese, sono passato davanti alla chiesa di piazza Cairoli, San Carlo ai Catinari, la cui cupola domina il quartiere. Da qui in via de' Giubbonari per andare a Campo dei Fiori, una via estremamente popolosa e animata: mercanti di stoffe dai colori vivaci, bigiotterie con grossi articoli polari, ecc. Su un caminetto di palazzo Farnese: assiduo luceat igne.

La visita a palazzo Farnese. La grande galleria dei Carracci, da cui si vede il Gianicolo. L'Acqua Paola (ben visibile) e San Pietro in Montorio (vasto edificio) sulla sinistra, poi villa Corsini di fronte, sopra un terreno coltivato. La Farnesina è più bassa, all'estrema destra, sul Tevere di cui non si scorgono le acque. Il giardino del palazzo è in basso, nero, umido, abbandonato. Piante del pepe, grandi lauri, una magnolia che muore. Un grande pino, siepi. Il verde scende su via Giulia, a destra dell'arcata: un gran rosaio che in primavera si copre di fiori. Dopo la galleria dei Carracci e il gabinetto dell'ambasciatore, il salone e la sala da pranzo che conosco, c'è un salone scuro, in cui sta il signor consigliere. È poco allegro. Tutte le stanze, alte sette o otto metri, hanno soffitti affrescati o di legno, scolpiti in modo ammirevole. Sullo stemma dei Farnese tre gigli, due, uno. Le stanze hanno tutte grandi consolle di marmo e mosaico, dai piedini-dorati, e tavolini di marmo, con la superficie a mosaico, e il piede in un pezzo solo, tondo, una gamba centrale o due supporti scolpiti a testa di drago. La gamba centrale è attribuita a Michelangelo. Nella stanza d'angolo sulla piazza, allegra e illuminata dal sole, i muri sono affrescati con un disegno a broccato d'oro, rosso e oro, drappeggiato all'antica. Le logge sulla corte sono state chiuse e sul lato in fondo sono state installate delle camere. Un appartamentino per amici, poco ufficiale. La corte è malinconica sotto le finestre, con la sua circonferenza coperta in cui possono circolare le grandi carrozze a due cavalli. Ma gli appartamenti della facciata sulla piazza sono pietosi. Nel grande salone, quello con il balcone, l'ambasciata francese ha depositato vecchi documenti, uno sgombero di carte polverose posate per terra, su assi, su tavoli di legno bianco, di una sporcizia straordinaria. Polvere e disordine. Stesso orrore nel salone che segue, a sinistra. Mura dipinte, arcate, scale, prospettive sfuggenti. Infine, il gran salone situato nell'angolo destro della facciata, diciotto metri d'altezza, su due piani, che si è riservato il re di Napoli, proprietario del palazzo: mura nude, una vera soffitta, bozzetti, statue di marmo, un bellissimo sarcofago, resti di tutti i tipi. È una vergogna. Pare che il secondo piano riproduca il primo, ma con soffitti meno alti. Hanno però tagliato i saloni troppo vasti con dei tramezzi, per trasformarli in appartamenti più abitabili. Dalle finestre di questi appartamenti si vede benissimo il bei fregio del palazzo. Vi è installata la scuola di Roma. Non so più se lo scalone d'onore vada fino al secondo piano.

È dopo aver visto la miseria di Trastevere e l'irremissibile decadenza di palazzo Farnese che sono stato colpito dalla fine di questo mondo. Palazzo Farnese rappresenta la fine dell'aristocrazia romana, creata soprattutto dai papi, salvo i Colonna, gli Orsini e i Caetani (?). I loro palazzi non sono più abitabili e cadono in polvere. Anche chi non ha perso la propria fortuna (ma cos'è in confronto alla fortuna americana, e riuscirà a rinnovarsi, a ingrandirsi?), anche costoro affittano una parte del palazzo e vi vivono ritirati, senza feste, senza seguito, senza clienti, persi in un tempo che non è più fatto per loro. E gli altri, i rovinati, affittano tutto il palazzo. Un rigattiere occupa il pianterreno di palazzo Borghese. Una loggia massonica ha affittato il primo piano. Il secondo è diviso in appartamenti in affitto. I Borghese si sono (?) riservati un appartamentino. Palazzo Chigi è affittato in parte all'ambasciata austriaca. Il pianterreno di un altro palazzo del Corso è occupato da una libreria. È proprio la fine di questa nobiltà: chi non è rovinato vive senza fasto. E alterata da tante alleanze straniere che la sua purezza sta sparendo. Dunque tutti i cardinali sono borghesi, l'aristocrazia d'origine papale è finita. C'è dunque un'aristocrazia morente, una borghesia che non esiste ancora (e che da la caccia ai posti), da studiare (?), e un popolo tornato bambino, povero, sporco, ignorante e ozioso. Non è la fine di un mondo. Per chi dunque si deve lavorare? Per la terza Roma?Per chi queste immense opere che, grazie all'orgoglio, hanno condotto alla rovina? La volontà di essere una grande nazione moderna, con una grande capitale. E il tutto improvvisato, per cui l'aristocrazia è in rovina, non esiste una borghesia intelligente e potente e il popolo è tornato bambino. Inoltre la necessità di Roma capitale, la palla al piede, la polvere mortale dei secoli e il deserto di morte che si stende intorno alla città. Tutto questo porta alla rovina. Dov'è dunque il domani, con il papa e il re? Tutto crolla. Ma bisogna che dica queste cose, la verità, con grande simpatia umana, fraterna. Ciò che era Roma nel 1870 e ciò che si è tentato di farne.

La questione della borghesia mi inquieta, non faccio che pormi domande. Sotto i papi non c'era borghesia, ma semplici clienti, impiegati. In seguito non si è dunque formata una borghesia romana. La borghesia è rappresentata solo dal popolo di impiegati venuto con il governo. La caccia ai posti. Ma non è potente, non ha un ruolo possibile. Naturalmente i deputati vengono dalle province. La corte pare esistere ancora. E tutti i titoli, avvocato, professore, cavaliere, commendatore, tutta la vanità della piccola borghesia ossessionata dall'idea atavica della nobiltà.
Nei nuovi palazzi, in queste immense costruzioni a modello degli antichi palazzi dei principi e che sono stati seminati con profusione inesplicabile, non si è installata la ricchezza, ma la miseria di un popolo ignorante e pigro. Non è questo un simbolo terribile? L'idea della bellezza nel mio libro, la bellezza di un tempo che domina questa decadenza. Le arti. Siamo dunque tutti popoli condannati davanti alle democrazie moderne? Non l'ho mai sentito più di qui.

Nel pomeriggio siamo andati a monte Celio, con monsieur de Behaine. Abbiamo visitato villa Mattei, sul pendio del colle. Bei bossi tagliati, dall'odore tanto forte e tanto amaro, eucalipti, un viale di aloe, una fontana a semicerchio, un'altra sotto un portico. Una siepe di rose del Bengala. Magnifici lauri. Enormi fusaggini. Qualche laurotimo grande come un albero. Si dice che la villa sia decisamente malsana d'estate. Da lì a Santo Stefano Rotondo. Gli affreschi su tutte le pareti rappresentano martiri, un susseguirsi di supplizi innominabili. La chiesa, immensa sala rotonda, ha la volta centrale e il cammino intorno coperto da un'armatura. Poi ai SS. Giovanni e Paolo: la chiesa sorge dove sorgeva la villa dei due romani, che furono martirizzati in casa loro. Siamo scesi sotto la chiesa, facendoci luce a lume di candela: l'antica villa esiste ancora, sepolta; sono state ritrovate tutte le stanze, la sala da pranzo, ecc. Tutto monte Celio è piuttosto deserto, con strade che salgono e girano in mezzo ai giardini. Scendendo dai SS. Giovanni e Paolo, si percorre un forte pendio sotto le arcate. Resti romani ovunque. Poi siamo andati sull'Aventino, attraverso via San Gregorio con i suoi begli alberi, via dei Cerchi e via di Santa Sabina. La chiesa di Santa Sabina, culla dei domenicani. Si trova in alto. È una grande chiesa fredda. Sorge a lato del convento, nel cui giardino si trova l'arancio di san Domenico. Altri alberi d'arancio. Il tutto chiuso, senza vista. Credo sia dal priorato di Malta che si vede San Pietro attraverso il buco della serratura. Un viale di bossi tagliati conduce a una terrazza da cui si gode una vista superba sul Tevere. Abbiamo visitato l'interno del priorato. Dal salone in alto si vedono il Tevere, il porto di Ripa Grande, l'ospedale San Michele; altra vista superba. L'Aventino, su cui abitava il popolino romano, oggi è deserto, occupato solo da tre chiese e vasti giardini. Leone XIII vi ha fatto costruire un immenso edificio per i benedettini, ma non è ancora terminato. Ci ho meditato sopra, sorpreso. Perché questo convento? Se anche i benedettini sono stati per un attimo padroni della scienza, se hanno giocato un ruolo civilizzatore, cosa si spera da loro oggi? Non sono stati colpiti dall'impotenza, nella stretta prigione del dogma? Perché terminare questo inutile convento?

Tutti i giardini di Roma sono uguali. Bossi tagliati, begli eucalipti dal tronco bianco e dalle lunghe foglie pallide, lecci contorti e quasi neri, cupi cipressi, rose del Bengala, qualche statua antica o vasi mangiati dal sole, fontane che sgorgano fra le siepi scure. E tutti in pendio, a gradini. A Roma si sale e si scende sempre.
La sera siamo andati a trovare il principe Odescalchi. Ha un'aria trascurata, da artista e da bravo ragazzo; si dice sia avaro. La moglie è una fiorentina di famiglia nobilissima ma molto povera, ignorante come una capra, cosa che aumenta la sua aria boriosa e la rende timida. Sa solo stare in un angolo a chiacchierare con un'amica. La marchesa Theodoli è un'americana che ha sposato un romano un po' frusto; le viene attribuita una storia con il principe Borghese (!'avrebbe rovinato con l'affare Ludo visi), ma anche una certa nobiltà di modi. Pettegolezzo meno diffuso. C'era una zia del principe che avrebbe allevato il cardinale Czacki, oggi morta: una donna amabile. Il prefetto di Roma e la giovane moglie, una russa che si allunga e fuma. Insomma, un mondo piuttosto eteroclito per noi e che manca dell'amabilità francese. Si chiacchiera negli angolini, non c'è una conversazione generale. La marchesa Theodoli ha scritto un libro su Roma in inglese: è un po' saccente. Tutta questa gente sa ben poco della Francia. Senza la bonomia del principe, sarebbe stata una serata veramente pesante. Ha dei begli oggetti che gli vengono dalla sua famiglia. Al centro dell'anticamera, il salone che precede quello in cui ci trovavamo, c'è una fontana con un getto d'acqua, ma bagna il pavimento. Tavoli, cofanetti, bronzi, marmi, una tanagra. Il tutto male illuminato.

Insomma, ecco quanto credo di aver capito sulle donne e sull'amore a Roma. Da giovani, molto contenute, pescano un marito con gli occhi. I bigliettini che ci si scambia a Aix. La storia della giovane borghese che si fa rapire da un principe romano. Vanno in un albergo. La famiglia del principe fa fuoco e fiamme. E il padre borghese si riprende la figlia dicendo di avere anche lui il suo orgoglio, di non acconsentire al matrimonio prima di un anno per lasciare il tempo di riflettere al principe e per non venir accusato di aver voluto conquistare un titolo. In ogni caso, è raro che le giovani si concedano prima del matrimonio: si limitano a giocare, a volte lasciandosi andare un po'. Invece le donne sposate hanno spesso avventure. Ma ce n'è anche di perfettamente oneste. Ecco il ritratto della romana: una bellezza generalmente seria, cupa e triste; niente scoppi di risa o d'allegria; grandissimi occhi, capelli neri, tratti tirati allungati, in linee severe e tristi. Espressione seria, profonda, triste. Il principe Odescalchi mi diceva che non è per nulla il suo genere: occorre spesso una lunga corte per arrivare e quando la donna crolla non si riesce più a sbarazzarsene. I legami diventano eterni e finiscono generalmente male, con la gelosia e colpi di testa. Non è l'amore alato, leggero e capriccioso, un piacere che si prende e che si lascia, ma una passione continua. E il tutto su uno sfondo pratico, la donna non si perde nelle nuvole, non sogna, vede il lato materiale delle cose, il possesso: e da qui la sua passione viva e carnale, ma anche la sua gelosia. È capace di una lunga fedeltà e di una lunga attesa, pur di possedere. Il legame si fa eterno e una donna che inganna l'amante viene giudicata molto male. E invece accettato che inganni il marito. Alla base un fondo di ignoranza e la superstizione verso la Vergine del quartiere. Sarà questa la mia eroina e, per il ritratto fisico, mi ispirerò a un quadro antico. Se mi occorrerà una donna colta dovrò prendere una principessa d'importazione o un'eccezione come la contessa Lovatelli. Le donne di cui si parla sono tutte più o meno compromesse. Qualcuna, essendosi data a molti, è proprio sulla bocca di tutti.

La bellezza è generalmente grossolana e comune, materiale. Rosalia Lovatelli è un Botticelli, con il naso più pronunciato: ha un'aria sacrificata e dolce e paga di tasca propria le lezioni di piano. La giovane borghese che ho visto da Hébert e che gli fa da modella per la figura di un angelo ha il profilo delicato, il naso diritto e il mento rotondo. La giovane signora D'Annunzio (ma è di origine francese) è affascinante ed enigmatica, ma non bella. La Santaflora ha un resto di fascino. La vedrò meglio martedì. Quanto agli uomini sono dei bambinoni, si divertono con nulla. E sono anche vanitosi, con i bei cappelli che sfoggiano in via del Corso. Materiali, positivi, egoisti e viziosi. Il tipo del mio giovane principe romano, che studierò in base a quelli che avrò conosciuto.

Emile Zola
Tratto da Diario romano
(appunti sul viaggio a Roma dal 31 ottobre al 4 dicembre del 1894 per conoscere l'ambiente dove dovrà muoversi il protagonista di "Rome" un romanzo che fà parte di un ciclo iniziato con "Lourdes" e finito con "Paris")

 
 
 

La strada cuperta

La strada cuperta

Chi vvò vvienì da le Cuattro-Funtane
sempre ar cuperto ggiú a Ffuntan-de-Trevi,
entri er porton der Papa, c’arimane
incontr’a Ssan Carlino: poi se bbevi

tutto er coritorone de sti grevi
de papalini fijji de puttane:
ggiri er cortile: poi sscegni a li Bbrevi (1)
sin dove prima se fasceva er pane.

Com’è arrivato a la Panettaria, (2)
trapassi l’arco, eppoi ricali abbasso
e scappi dar porton de Dataria. (3)

E accusí er viaggio finirà a l’arbergo
de li somari che stanno a l’ingrasso
magnanno carta zifferata (4) in gergo.

Giuseppe Gioachino Belli
Roma, 28 novembre 1832

Note:
1. Palazzo della Segreteria de’ Brevi pontifici.
2. Panetteria, nome di un luogo del palazzo pontificio del Quirinale.
3. Palazzo della Dateria, che poteva altre volte chiamarsi la miniera papale. Tutte le fabbriche sin qui nominate formano un sol corpo, vastissimo, e unite da interne comunicazioni.
4. Cifrata. Sono gli spedizionieri delle sante Bolle della Chiesa.

 
 
 

Vita Nova 11-15

Post n°1692 pubblicato il 03 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

XI. Dico che quando ella apparia da parte alcuna, per la speranza de la mirabile salute nullo nemico mi rimanea, anzi mi giugnea una fiamma di caritade, la quale mi facea perdonare a chiunque m'avesse offeso; e chi allora m'avesse domandato di cosa alcuna, la mia risponsione sarebbe stata solamente 'Amore', con viso vestito d'umilitade. E quando ella fosse alquanto propinqua al salutare, uno spirito d'amore, distruggendo tutti li altri spiriti sensitivi, pingea fuori li deboletti spiriti del viso, e dicea loro: «Andate a onorare la donna vostra»; ed elli si rimanea nel luogo loro. E chi avesse voluto conoscere Amore, fare lo potea mirando lo tremare de li occhi miei. E quando questa gentilissima salute salutava, non che Amore fosse tal mezzo che potesse obumbrare a me la intollerabile beatitudine, ma elli quasi per soverchio di dolcezza divenia tale, che lo mio corpo, lo quale era tutto allora sotto lo suo reggimento, molte volte si movea come cosa grave inanimata. Sì che appare manifestamente che ne le sue salute abitava la mia beatitudine, la quale molte volte passava e redundava la mia capacitade.

XII. Ora, tornando al proposito, dico che poi che la mia beatitudine mi fue negata, mi giunse tanto dolore, che, partito me da le genti, in solinga parte andai a bagnare la terra d'amarissime lagrime. E poi che alquanto mi fue sollenato questo lagrimare, misimi ne la mia camera, là ov'io potea lamentarmi sanza essere udito; e quivi, chiamando misericordia a la donna de la cortesia, e dicendo «Amore, aiuta lo tuo fedele», m'addormentai come un pargoletto battuto lagrimando. Avvenne quasi nel mezzo de lo mio dormire che me parve vedere ne la mia camera lungo me sedere uno giovane vestito di bianchissime vestimenta, e pensando molto quanto a la vista sua, mi riguardava là ov'io giacea; e quando m'avea guardato alquanto, pareami che sospirando mi chiamasse, e diceami queste parole: «Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra». Allora mi parea che io lo conoscesse, però che mi chiamava così come assai fiate ne li miei sonni m'avea già chiamato: e riguardandolo, parvemi che piangesse pietosamente, e parea che attendesse da me alcuna parola; ond'io, assicurandomi, cominciai a parlare così con esso: «Segnore de la nobiltade, e perché piangi tu?». E quelli mi dicea queste parole: «Ego tanquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentie partes; tu autem non sic». Allora, pensando a le sue parole, mi parea che m'avesse parlato molto oscuramente; sì ch'io mi sforzava di parlare, e diceali queste parole: «Che è ciò, segnore, che mi parli con tanta oscuritade?». E quelli mi dicea in parole volgari: «Non dimandare più che utile ti sia». E però cominciai allora con lui a ragionare de la salute la quale mi fue negata, e domandailo de la cagione; onde in questa guisa da lui mi fue risposto: «Quella nostra Beatrice udio da certe persone di te ragionando, che la donna la quale io ti nominai nel cammino de li sospiri, ricevea da te alcuna noia; e però questa gentilissima, la quale è contraria di tutte le noie, non degnò salutare la tua persona, temendo non fosse noiosa. Onde con ciò sia cosa che veracemente sia conosciuto per lei alquanto lo tuo secreto per lunga consuetudine, voglio che tu dichi certe parole per rima, ne le quali tu comprendi la forza che io tegno sopra te per lei, e come tu fosti suo tostamente da la tua puerizia. E di ciò chiama testimonio colui che lo sa, e come tu prieghi lui che li le dica; ed io, che son quelli, volentieri le ne ragionerò; e per questo sentirà ella la tua volontade, la quale sentendo, conoscerà le parole de li ingannati. Queste parole fa che siano quasi un mezzo, sì che tu non parli a lei immediatamente, che non è degno; e no le mandare in parte, sanza me, ove potessero essere intese da lei, ma falle adornare di soave armonia, ne la quale io sarò tutte le volte che farà mestiere». E dette queste parole, sì disparve, e lo mio sonno fue rotto. Onde io ricordandomi, trovai che questa visione m'era apparita ne la nona ora del die; e anzi ch'io uscisse di questa camera, propuosi di fare una ballata, ne la quale io seguitasse ciò che lo mio segnore m'avea imposto; e feci poi questa ballata, che comincia: Ballata, i' voi.

Ballata, i' voi che tu ritrovi Amore,
e con lui vade a madonna davante,
sì che la scusa mia, la qual tu cante,
ragioni poi con lei lo mio segnore.
Tu vai, ballata, sì cortesemente,
che sanza compagnia
dovresti avere in tutte parti ardire;
ma se tu vuoli andar sicuramente,
retrova l'Amor pria,
ché forse non è bon sanza lui gire;
però che quella che ti dee audire,
sì com'io credo, è ver di me adirata:
se tu di lui non fossi accompagnata,
leggeramente ti faria disnore.
Con dolze sono, quando se' con lui,
comincia este parole,
appresso che averai chesta pietate:
«Madonna, quelli che mi manda a vui,
quando vi piaccia, vole,
sed elli ha scusa, che la m'intendiate.
Amore è qui, che per vostra bieltate
lo face,come vol,vista cangiare:
dunque perché li fece altra guardare
pensatel voi, da che non mutò 'l core».
Dille: «Madonna, lo suo core è stato
con sì fermata fede,
che 'n voi servir l'ha 'mpronto onne pensero:
tosto fu vostro, e mai non s'è smagato».
Sed ella non ti crede,
dì che domandi Amor, che sa lo vero:
ed a la fine falle umil preghero,
lo perdonare se le fosse a noia,
che mi comandi per messo ch'eo moia,
e vedrassi ubidir ben servidore.
E dì a colui ch'è d'ogni pietà chiave,
avante che sdonnei,
che le saprà contar mia ragion bona:
«Per grazia de la mia nota soave
reman tu qui con lei,
e del tuo servo ciò che vuoi ragiona;
e s'ella per tuo prego li perdona,
fa che li annunzi un bel sembiante pace».
Gentil ballata mia, quando ti piace,
movi in quel punto che tu n'aggie onore.

Questa ballata in tre parti si divide: ne la prima dico a lei ov'ella vada, e confortola però che vada più sicura, e dico ne la cui compagnia si metta, se vuole sicuramente andare e sanza pericolo alcuno; ne la seconda dico quello che lei si pertiene di fare intendere; ne la terza la licenzio del gire quando vuole, raccomandando lo suo movimento ne le braccia de la fortuna. La seconda parte comincia quivi: Con dolze sono; la terza quivi: Gentil ballata. Potrebbe già l'uomo opporre contra me e dicere che non sapesse a cui fosse lo mio parlare in seconda persona, però che la ballata non è altro che queste parole ched io parlo: e però dico che questo dubbio io lo intendo solvere e dichiarare in questo libello ancora in parte più dubbiosa; e allora intenda qui chi qui dubita, o chi qui volesse opporre in questo modo.

XIII. Appresso di questa soprascritta visione, avendo già dette le parole che Amore m'avea imposte a dire, mi cominciaro molti e diversi pensamenti a combattere e a tentare, ciascuno quasi indefensibilemente; tra li quali pensamenti quattro mi parea che ingombrassero più lo riposo de la vita. L'uno de li quali era questo: buona è la signoria d'Amore, però che trae lo intendimento del suo fedele da tutte le vili cose. L'altro era questo: non buona è la signoria d'Amore, però che quanto lo suo fedele più fede li porta, tanto più gravi e dolorosi punti li conviene passare. L'altro era questo: lo nome d'Amore è sì dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operazione sia ne le più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scritto: «Nomina sunt consequentia rerum». Lo quarto era questo: la donna per cui Amore ti stringe così, non è come l'altre donne, che leggeramente si muova del suo cuore. E ciascuno mi combattea tanto, che mi facea stare quasi come colui che non sa per qual via pigli lo suo cammino, e che vuole andare e non sa onde se ne vada; e se io pensava di volere cercare una comune via di costoro, cioè là ove tutti s'accordassero, questa era via molto inimica verso me, cioè di chiamare e di mettermi ne le braccia de la Pietà. E in questo stato dimorando, mi giunse volontade di scriverne parole rimate; e dissine allora questo sonetto, lo quale comincia: Tutti li miei penser.

Tutti li miei penser parlan d'Amore;
e hanno in lor sì gran varietate,
ch'altro mi fa voler sua potestate,
altro folle ragiona il suo valore,
altro sperando m'apporta dolzore,
altro pianger mi fa spesse fiate;
e sol s'accordano in cherer pietate,
tremando di paura che è nel core.
Ond'io non so da qual matera prenda;
e vorrei dire, e non so ch'io mi dica:
così mi trovo in amorosa erranza!
E se con tutti voi fare accordanza,
convenemi chiamar la mia nemica,
madonna la Pietà, che mi difenda.

Questo sonetto in quattro parti si può dividere: ne la prima dico e soppongo che tutti li miei pensieri sono d'Amore; ne la seconda dico che sono diversi, e narro la loro diversitade; ne la terza dico in che tutti pare che s'accordino; ne la quarta dico che volendo dire d'Amore, non so da qual parte pigli matera, e se la voglio pigliare da tutti, convene che io chiami la mia inimica, madonna la Pietade; e dico 'madonna' quasi per disdegnoso modo di parlare. La seconda parte comincia quivi: e hanno in lor; la terza quivi: e sol s'accordano; la quarta quivi: Ond'io non so.

XIV. Appresso la battaglia de li diversi pensieri avvenne che questa gentilissima venne in parte ove molte donne gentili erano adunate; a la qual parte io fui condotto per amica persona, credendosi fare a me grande piacere, in quanto mi menava là ove tante donne mostravano le loro bellezze. Onde io, quasi non sappiendo a che io fossi menato, e fidandomi ne la persona la quale uno suo amico a l'estremitade de la vita condotto avea, dissi a lui: «Perché semo noi venuti a queste donne?». Allora quelli mi disse: «Per fare sì ch'elle siano degnamente servite». E lo vero è che adunate quivi erano a la compagnia d'una gentile donna che disposata era lo giorno; e però, secondo l'usanza de la sopradetta cittade, convenia che le facessero compagnia nel primo sedere a la mensa che facea ne la magione del suo novello sposo. Sì che io, credendomi fare piacere di questo amico, propuosi di stare al servigio de le donne ne la sua compagnia. E nel fine del mio proponimento mi parve sentire uno mirabile tremore incominciare nel mio petto da la sinistra parte e distendersi di subito per tutte le parti del mio corpo. Allora dico che io poggiai la mia persona simulatamente ad una pintura la quale circundava questa magione; e temendo non altri si fosse accorto del mio tremare, levai li occhi, e mirando le donne, vidi tra loro la gentilissima Beatrice. Allora fuoro sì distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese veggendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna, che non ne rimasero in vita più che li spiriti del viso; e ancora questi rimasero fuori de li loro istrumenti, però che Amore volea stare nel loro nobilissimo luogo per vedere la mirabile donna. E avvegna che io fossi altro che prima, molto mi dolea di questi spiritelli, che si lamentavano forte e diceano: «Se questi non ci infolgorasse così fuori del nostro luogo, noi potremmo stare a vedere la maraviglia di questa donna così come stanno li altri nostri pari». Io dico che molte di queste donne, accorgendosi de la mia trasfigurazione, si cominciaro a maravigliare, e ragionando si gabbavano di me con questa gentilissima; onde lo ingannato amico di buona fede mi prese per la mano, e traendomi fuori de la veduta di queste donne, sì mi domandò che io avesse. Allora io, riposato alquanto, e resurressiti li morti spiriti miei, e li discacciati rivenuti a le loro possessioni, dissi a questo mio amico queste parole: «Io tenni li piedi in quella parte de la vita di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare». E partitomi da lui, mi ritornai ne la camera de le lagrime; ne la quale, piangendo e vergognandomi, fra me stesso dicea: «Se questa donna sapesse la mia condizione, io non credo che così gabbasse la mia persona, anzi credo che molta pietade le ne verrebbe». E in questo pianto stando, propuosi di dire parole, ne le quali, parlando a lei, significasse la cagione del mio trasfiguramento, e dicesse che io so bene ch'ella non è saputa, e che se fosse saputa, io credo che pietà ne giugnerebbe altrui; e propuosile di dire desiderando che venissero per avventura ne la sua audienza. E allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Con l'altre donne.

Con l'altre donne mia vista gabbate,
e non pensate, donna, onde si mova
ch'io vi rassembri sì figura nova
quando riguardo la vostra beltate.
Se lo saveste, non poria Pietate
tener più contra me l'usata prova,
ché Amor, quando sì presso a voi mi trova,
prende baldanza e tanta securtate,
che fere tra' miei spiriti paurosi,
e quale ancide, e qual pinge di fore,
sì che solo remane a veder vui:
ond'io mi cangio in figura d'altrui,
ma non sì ch'io non senta bene allore
li guai de li scacciati tormentosi.

Questo sonetto non divido in parti, però che la divisione non si fa se non per aprire la sentenzia de la cosa divisa; onde con ciò sia cosa che per la sua ragionata cagione assai sia manifesto, non ha mestiere di divisione. Vero è che tra le parole dove si manifesta la cagione di questo sonetto, si scrivono dubbiose parole, cioè quando dico che Amore uccide tutti li miei spiriti, e li visivi rimangono in vita, salvo che fuori de li strumenti loro. E questo dubbio è impossibile a solvere a chi non fosse in simile grado fedele d'Amore; e a coloro che vi sono è manifesto ciò che solverebbe le dubitose parole: e però non è bene a me di dichiarare cotale dubitazione, acciò che lo mio parlare dichiarando sarebbe indarno, o vero di soperchio.

XV. Appresso la nuova trasfigurazione mi giunse uno pensamento forte, lo quale poco si partia da me, anzi continuamente mi riprendea, ed era di cotale ragionamento meco: «Poscia che tu pervieni a così dischernevole vista quando tu se' presso di questa donna, perché pur cerchi di vedere lei? Ecco che tu fossi domandato da lei: che avrestù da rispondere, ponendo che tu avessi libera ciascuna tua vertude in quanto tu le rispondessi? » E a costui rispondea un altro, umile, pensero, e dicea: «S'io non perdessi le mie vertudi, e fossi libero tanto che io le potessi rispondere, io le direi che sì tosto com'io imagino la sua mirabile bellezza, sì tosto mi giugne uno desiderio di vederla, lo quale è di tanta vertude, che uccide e distrugge ne la mia memoria ciò che contra lui si potesse levare; e però non mi ritraggono le passate passioni da cercare la veduta di costei». Onde io, mosso da cotali pensamenti, propuosi di dire certe parole, ne le quali, escusandomi a lei da cotale riprensione, ponesse anche di quello che mi diviene presso di lei; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Ciò che m'incontra.

Ciò che m'incontra, ne la mente more,
quand'i' vegno a veder voi, bella gioia;
e quand'io vi son presso, i' sento Amore
che dice: «Fuggi, se 'l perir t'è noia».
Lo viso mostra lo color del core,
che, tramortendo, ovunque pò s'appoia;
e per la ebrietà del gran tremore
le pietre par che gridin: Moia, moia.
Peccato face chi allora mi vide,
se l'alma sbigottita non conforta,
sol dimostrando che di me li doglia,
per la pietà, che 'l vostro gabbo ancide,
la qual si cria ne la vista morta
de li occhi, c'hanno di lor morte voglia.

Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima dico la cagione per che non mi tengo di gire presso di questa donna; ne la seconda dico quello che mi diviene per andare presso di lei; e comincia questa parte quivi: e quand'io vi son presso. E anche si divide questa seconda parte in cinque, secondo cinque diverse narrazioni: che ne la prima dico quello che Amore, consigliato da la ragione, mi dice quando le sono presso; ne la seconda manifesto lo stato del cuore per essemplo del viso; ne la terza dico sì come onne sicurtade mi viene meno; ne la quarta dico che pecca quelli che non mostra pietà di me, acciò che mi sarebbe alcuno conforto; ne l'ultima dico perché altri doverebbe avere pietà, e ciò è per la pietosa vista che ne li occhi mi giugne; la quale vista pietosa è distrutta, cioè non pare altrui, per lo gabbare di questa donna, lo quale trae a sua simile operazione coloro che forse vederebbono questa pietà. La seconda parte comincia quivi: Lo viso mostra; la terza quivi: e per la ebrietà; la quarta: Peccato face; la quinta: per la pietà.

Dante Alighieri
(segue)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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