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Messaggi del 11/06/2015

Canzoniere inedito 7

XXXI.

Le lunghe angoscie e li sospiri tanti,
Che sì m'hanno da ogni nova fatto diverso,
Tengonmi a quel fin misero converso.
Che tutti aspetta gl'infelici amanti.

E mi vi affretto, che in amari pianti
Pel mio duro pensiero io vivo immerso:
E m'avveggo già ben che l'universo
A me vien manco, e si dilegua avanti.

Dunque sia tosto quello estremo giorno
D'una si amara e sconsolata vita
Ch'io voli sciolto al mio principio attorno.

Venga lo istante della mia partita,
Però che in questo spiacevol soggiorno-
Cosa non è che più siami gradita.

XXXII.

Dopo un dì breve, anzi uno istante, in cui
Nulla dir ti potei di quel ch'io provo
Con mio troppo stupor, donna, mi trovo
Che il sol tramonta, e me ne lagno a lui.

E dal tuo fianco, ove sì lieto fui.
Poco indi appresso con dolor mi movo,
Parendomi li raggi del dì novo
Esser da me rimoti un anno o dui.

Grazie a Morfeo pem: parte dell'ore
M'empie benigno senza mio pensiero
E parte a te mi riconduce in sogno.

Il qual, fingendo immagine del vero.
Quello mi mostra a cui vegliando agogno.
D'esserti accanto a ragionar d'Amore.

XXXIII.

Colui che dopo il ciel, la terra e il mare
Ed ogn'altra men degna creatura,
A sua perfetta immagine e figura
L'uomo, e la donna a lui, volle creare:

Lor diede un'alma che tenesse care
Le sacrosante leggi di natura
Di cui primo bisogno e prima cura
Fece che fosse e tuttor sia lo amare.

Per questo il cuore che lor pose in seno
Causa è del moto, il moto è della vita
Principio, e questa di ciascuno affetto.

Ma come da voler non è impedita
La causa mai, così non mai lo effetto
Ricever può sin ch'ella duri un freno.

XXXIV.

Dopo un dì lungo, anzi un lungo anno, ch'io
Qui diviso da te non avea pace,
Più non essendo d'indugiar capace,
Mi mossi al ritrovarti, idolo mio.

Ma, a mezzo il calle, impetuoso e rio
Mi si parò davanti un oan mordace,
Negandomi il passar donde fugace
L'anima mia da me si dipartio.

Del tracio cantor tanto si dice,
Cui spinse Amore al varco acheronteo
In cerca della sua bella Euridice.

Nè quiv'io, che in te sol vivo e mi beo,
Già m'arrestai, ma vinsi, e fui felice
Porse non men dell'amoroso Orfeo.

XXXV.

0 tu, cui d'ogni qualità più cara
Vive ogni donna di quaggiù soggetta
Deh per qual mezzo puoi temer di gara
Che poi ti mandi dal mio cuor negletta?

In te meglio confida, e accorta impara
Ch'ella è per creder mio troppo imperfetta
Qual più da lingua de' tuoi pregi ignara
Sia valorosa ed ammirabil detta.

Io guardo il Mondo, e volgo gli occhi in giro;
Ma sempre che a veder fermo le ciglia,
Te fra le cose ed i miei sguardi miro.

Però l'anima mia si riconsiglia
Di amare inflno all'ultimo sospiro
Te sua donna allegrezza e maraviglia.

Giuseppe Gioachino Belli
Da "Il Canzoniere inedito di G. G. Belli", Estratto dal fascicolo di gennaio 1916 della Rivista d'Italia - Roma Piazza Cavour, Roma - Tipografia dell' Unione Editrice, via Federico Cesi 45
In "La Età dell' Oro", Roma dalla Tipografia Salviucci, 1851

 
 
 

Tomaso Castellani 2

VII
Di M. Tomaso Castellani

11

Signor invitto, a cui con tanti pregi
L’antico Carlo il suo gran nome dona,
E tu ch’adorni l’alta tua corona
Col bel titol del re di tutti i regi,

Il buon Pastor a voi co i santi fregi
Vien carco d’anni, né al camin perdona,
E con accesa carità vi sprona
A più lodate imprese e fatti egregi.

Vinca amor l’odio, e vostre voglie averse
Ragion del sangue, e la virtù del vero
L’armi superbe ad altro onor converta:

Quel che già l’onde al suo gran duce aperse
Per altro mar contra ’l nemico altero
A maggior palme or v’ha la strada aperta.

12

Signor, quando del mar l’onda s’adira,
Mosso dal vento che ’l percuote e fiede,
L’imagin del suo aspetto allor non vede
Chi ’n tal tempesta la sua vista gira;

Così la nostra vita che sospira
Nel mortal corso, a cui non si concede
Mai fermo stato e riposata sede,
Non ben se stessa in tal travaglio mira.

Nessun vegg’io, che freddo e caldo prove,
Sì amico al ciel ch’i colpi aspri e molesti
Schifi del mondo, e ’l suo fallace impero.

Dunque la mente di chi ’l tutto muove
Sempre tranquilla e i spiriti celesti
Sol veder ponno di noi stessi il vero.

13

O dea di Cipro e tu che ’n ciel le piume
E ’n terra spieghi, che sovente a torto
Già m’affligeste ed or m’avete scorto
Il guado a sì mal noto e altiero fiume,

Debito a tante grazie e al buon costume
Il voto solvo, e al vostro tempio porto
L’imagin d’un che già tra vivo e morto
E in tutto cieco ha ricovrato il lume.

Or canto la mia pace e i vostri altari
Orno di palme ed odorati mirti,
Libero e sciolto de l’ingiuste pene,

E per essempio onde ciascun impari
Sperar ne’ dei contra gl’ingrati spirti,
Qui appendo il giogo, i lacci e le catene.

14

Anime caste e pure,
Al bel servigio intente
Di quel Signor che vi può far contente,
Sì come il flagellar sempre voi stesse
In compagnia del pianto
Cangiar si deve in pace eterna e ’n riso,
Così potess’io le vostr’orme impresse
Al mondo seguir tanto
Ch’io mi vedessi dal suo error diviso,
E vosco in Paradiso
Del sommo Sole al raggio alto e lucente
Scaldarmi al fin fra la beata gente.

15

Omai sott’altro ciel per miglior acque
Correr conviemmi, over ritrar a riva,
Poi che mia nave di buon vento priva
Sempre in quest’onde a la fortuna spiacque.

Sì dolce canto a le mie orecchie piacque
D’una sirena in forma umana e viva,
Che mentre errando troppo m’aggradiva
Il legno mio quasi sommerso giacque.

Or faccia il Ciel che più benigna stella
L’errante mia speranza omai destine
Al porto ver per via più dritta e bella,

E quel gran Donator delle divine
Grazie la mia smarrita navicella
Per altro mar conduca a miglior fine.

16

Machina eccelsa e invitta, che prescrivi
De l’armi e di Vulcan la forza e l’arte,
E de le meraviglie al mondo sparte
Al tuo Milano il maggior nome ascrivi;

Or più che mai securamente vivi,
Poi che di Cipro Vener si diparte
E viene in te, dov’è Pallade e Marte,
Fatta ricetto di mortali e divi;

Giunt’è Cupido con sue liete schiere,
Fra i tuoi guerrier, di pargoletti Amori,
Di lancie e strali armando le tue mura;

Di dolce ardor empion le menti fere,
Onde puoi dir: "Or CESARE di fuori,
E dentro uomini e dei, mi fan secura".

17

Aventurate ma più audaci piume
Di quelle già che vanamente alzaro
Icaro verso il ciel, onde mostraro
Essempio a chi salir troppo presume,

Se ’l caso averso per men caldo lume
A loro avenne, or voi, ch’un sol più chiaro
Scalda con raggi ardenti, qual riparo
Vieta che tanto ardor non vi consume?

Ma quel ch’ad altri nuoce è sol radice
Del vostro ben, però movete il vento
Per accrescer la fiamma che vi giova.

Onde poi quella nostra alma fenice
Le gran forze d’amor, l’altrui tormento,
Nel proprio ardor, se stessa e voi rinova.

18

Muse, se mai danno terren piangeste,
Over vi mosse con letizia al canto
Giamai celeste acquisto, or siate quanto
Basti a la terra e al ciel gioiose e meste.

Spiegando l’ale sue veloci e preste
Asceso è SERAFINO al regno santo,
Di cui le strade con sua voce tanto
Al mondo rendea chiare e manifeste.

Or l’alto Re con la sua man superna
I frutti ad un ad un par che gli conte
De l’util seme che già sparse in terra.

Tornata è in cielo a la milizia eterna
La tromba che giù scese a mover pronte
Nostr’alme contra la tartarea guerra.

19

Non tremi alcun mortal di maraviglia
Che qua giù mira il mio divin aspetto:
Io son la dea di Cipro, del mar figlia,
Donna e splendor del terzo alto ricetto.
Come materna cura mi consiglia,
Il fuggitivo mio figliuol diletto
Cercando vo: chi l’ha veduto il dica,
Se Vener cerca a’ suoi desiri amica.

Chi ’ndizio alcun di lui, o del suo piede
Mostra qualch’orma, o del suo vol la via,
Un bascio n’averà per sua mercede
Quanto dolce può dar la bocca mia;
Ma chi ’l rimena a la sua propria sede
Di maggior don voglio che degno sia.
E perché in mille forme inganna altrui
I segni udite da conoscer lui.

Garzon è alato e di color di fuoco,
Crespe e flave ha le chiome e ’l viso ardente,
Il parlar dolce in cui non trova luoco
Il vero, anzi è contrario a la sua mente;
Scherza come fanciul, ma ’l scherzo e ’l gioco,
Quando s’adira, cangia in duol sovente.
Or corre, or vola, e non ha ferma stanza,
E sempre in giro mena la speranza.

Copre il pensier, ed ha le membra ignude,
E un picciol arco, ma lontan aventa,
Saette a fianco velenose e crude:
In lui vergogna e la pietad’è spenta.
La terra, il cielo e l’infernal palude
Con l’aspre punte sue fiede e tormenta:
Ferito ha Giove e me sua madre spesso,
E l’empio non perdona anco a se stesso.

Non vola senza pargoletta face,
Che sopr’ogn’altra la sua fiamma estende,
Né vuol con noi per alcun tempo pace,
Ma i maschi petti e i giovenili accende.
Febo, c’ha il raggio suo tanto vivace,
Sovente a tal ardor vinto s’arrende;
Anzi egli acceso già dal parto mio
Pose ’l suo carro e se stesso in oblio.

Chiunque il trova e giunge, il prenda e leghi,
E se contende, a me per forza il meni,
Né curi di suo pianto o di suoi preghi,
E fugga i baci suoi di velen pieni;
Se dolce ride, al riso non si pieghi,
Anzi allor più lo sforzi e l’incateni,
E se dicesse: "Io ti do l’arco e i dardi"
(Il tutto è fuoco), da tal don si guardi.

Donne, se mai materno amor v’accese,
S’alcuna l’ha di voi me lo riveli,
Né contra Vener sia tanto scortese
Che tolga le sue forze over le celi.
Ben vi so dir che le faville accese
Di lui più crescon sotto i panni e i veli,
Né lungo tempo il mio fallace figlio
Nasconder mai si può senza periglio.

Tomaso Castellani
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 

Vita Nova 21-24

Post n°1735 pubblicato il 11 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

XXI

Poscia che trattai d'Amore ne la soprascritta rima, vènnemi volontade di volere dire, anche in loda di questa gentilissima, parole per le quali io mostrasse come per lei si sveglia questo Amore, e come non solamente si sveglia là ove dorme, ma là ove non è in potenzia, ella, mirabilemente operando, lo fa venire. E allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Negli occhi porta.

Negli occhi porta la mia donna Amore,
per che si fa gentil ciò ch'ella mira;
ov'ella passa, ogn'om vèr lei si gira,
e cui saluta fa tremar lo core,
sì che, bassando il viso, tutto smore,
e d'ogni suo difetto allor sospira:
fugge dinanzi a lei superbia ed ira.
Aiutatemi, donne, farle onore.
Ogne dolcezza, ogne pensero umile
nasce nel core a chi parlar la sente,
ond'è laudato chi prima la vide.
Quel ch'ella par quando un poco sorride,
non si pò dicer né tenere a mente,
sì è novo miracolo e gentile.

Questo sonetto sì ha tre parti. Ne la prima dico sì come questa donna riduce questa potenzia in atto, secondo la nobilissima parte de li suoi occhi; e ne la terza dico questo medesimo, secondo la nobilissima parte de la sua bocca: e intra queste due parti è una particella, ch'è quasi domandatrice d'aiuto a la precedente parte ed a la sequente, e comincia quivi: Aiutatemi, donne. La terza comincia quivi: Ogne dolcezza. La prima si divide in tre; che ne la prima parte dico sì come virtuosamente fae gentile tutto ciò che vede, e questo è tanto a dire quanto inducere Amore in potenzia là ove non è; ne la seconda dico come reduce in atto Amore ne li cuori di tutti coloro cui vede; ne la terza dico quello che poi virtuosamente adopera ne' loro cuori. La seconda comincia quivi: ov'ella passa; la terza quivi: e cui saluta. Poscia quando dico: Aiutatemi, donne, do a intendere a cui la mia intenzione è di parlare, chiamando le donne che m'aiutino onorare costei. Poscia quando dico: Ogne dolcezza, dico quello medesimo che detto è ne la prima parte, secondo due atti de la sua bocca; l'uno de li quali è lo suo dolcissimo parlare, e l'altro lo suo mirabile riso; salvo che non dico di questo ultimo come adopera ne li cuori altrui, però che la memoria non puote ritenere lui né sua operazione.

XXII

Appresso ciò non molti dì passati, sì come piacque al glorioso sire lo quale non negòe la morte a sé, colui che era stato genitore di tanta maraviglia quanta si vedea ch'era questa nobilissima Beatrice, di questa vita uscendo, a la gloria eternale se ne gìo veracemente. Onde, con ciò sia cosa che cotale partire sia doloroso a coloro che rimangono e sono stati amici di colui che se ne va; e nulla sia sì intima amistade come da buon padre a buon figliuolo e da buon figliuolo a buon padre; e questa donna fosse in altissimo grado di bontade, e lo suo padre, sì come da molti si crede e vero è, fosse bono in alto grado; manifesto è che questa donna fue amarissimamente piena di dolore. E con ciò sia cosa che, secondo l'usanza de la sopradetta cittade, donne con donne e uomini con uomini s'adunino a cotale tristizia, molte donne s'adunaro colà dove questa Beatrice piangea pietosamente: onde io veggendo ritornare alquante donne da lei, udio dicere loro parole di questa gentilissima, com'ella si lamentava; tra le quali parole udio che diceano: «Certo ella piange sì, che quale la mirasse doverebbe morire di pietade». Allora trapassaro queste donne; ed io rimasi in tanta tristizia, che alcuna lagrima talora bagnava la mia faccia, onde io mi ricopria con porre le mani spesso a li miei occhi: e se non fosse ch'io attendea audire anche di lei, però ch'io era in luogo onde se ne gìano la maggior parte di quelle donne che da lei si partìano, io mi sarei nascoso incontanente che le lagrime m'aveano assalito. E però dimorando ancora nel medesimo luogo, donne anche passaro presso di me, le quali andavano ragionando tra loro queste parole: «Chi dee mai essere lieta di noi, che avemo udita parlare questa donna così pietosamente?». Appresso costoro passaro altre donne, che veniano dicendo: «Questi ch'è qui, piange né più né meno come se l'avesse veduta, come noi avemo». Altre dipoi diceano di me: «Vedi questi che non pare esso, tal è divenuto». E così passando queste donne, udio parole di lei e di me in questo modo che detto è. Onde io poi, pensando, propuosi di dire parole, acciò che degnamente avea cagione di dire, ne le quali parole io conchiudesse tutto ciò che inteso avea da queste donne; e però che volentieri l'averei domandate, se non mi fosse stata riprensione, presi tanta matera di dire come s'io l'avesse domandate ed elle m'avessero risposto. E feci due sonetti; che nel primo domando in quello modo che voglia mi giunse di domandare; ne l'altro dico la loro risponsione, pigliando ciò ch'io udio da loro sì come lo mi avessero detto rispondendo. E comincia lo primo: Voi che portate la sembianza umile, e l'altro: Se' tu colui c'hai trattato sovente.

Voi, che portate la sembianza umile,
con li occhi bassi mostrando dolore,
onde venite che 'l vostro colore
par divenuto de pietà simile?
Vedeste voi nostra donna gentile
bagnar nel viso suo di pianto Amore?
Ditelmi, donne, che 'l mi dice il core,
perch'io vi veggio andar sanz'atto vile.
E se venite da tanta pietate,
piàcciavi di restar qui meco alquanto,
e qual che sia di lei no 'l mi celate.
Io veggio li occhi vostri c'hanno pianto,
e vèggiovi tornar sì sfigurate,
che 'l cor mi triema di vederne tanto.

Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima chiamo e domando queste donne se vegnono da lei, dicendo loro che io lo credo, però che tornano quasi ingentilite; ne la seconda le prego che mi dicano di lei. La seconda comincia quivi: E se venite.

Qui appresso è l'altro sonetto, sì come dinanzi avemo narrato.

Se' tu colui, c'hai trattato sovente
di nostra donna, sol parlando a nui?
Tu risomigli a la voce ben lui,
ma la figura ne par d'altra gente.
E perché piangi tu sì coralmente,
che fai di te pietà venire altrui?
Vedestù pianger lei, che tu non pui
punto celar la dolorosa mente?
Lascia pianger a noi e triste andare
(e fa peccato chi mai ne conforta),
che nel suo pianto l'udimmo parlare.
Ell'ha nel viso la pietà sì scorta,
che qual l'avesse voluta mirare
sarebbe innanzi lei piangendo morta.

Questo sonetto ha quattro parti, secondo che quattro modi di parlare ebbero in loro le donne per cui rispondo; e però che sono di sopra assai manifesti, non m'intrametto di narrare la sentenzia de le parti, e però le distinguo solamente. La seconda comincia quivi: E perché piangi; la terza: Lascia pianger a noi; la quarta: Ell'ha nel viso.

XXIII

Appresso ciò per pochi dì, avvenne che in alcuna parte de la mia persona mi giunse una dolorosa infermitade, onde io continuamente soffersi per nove dì amarissima pena; la quale mi condusse a tanta debolezza, che me convenia stare come coloro li quali non si possono muovere. Io dico che ne lo nono giorno, sentendo me dolere quasi intollerabilmente, a me giunse uno pensero, lo quale era de la mia donna. E quando èi pensato alquanto di lei, ed io ritornai pensando a la mia debilitata vita; e veggendo come leggero era lo suo durare, ancora che sana fosse, sì cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria. Onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo: «Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia». E però mi giunse uno sì forte smarrimento, che chiusi li occhi e cominciai a travagliare sì come farnetica persona ed a imaginare in questo modo; che ne lo incominciamento de lo errare che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di donne scapigliate, che mi diceano: «Tu pur morrai»; e poi, dopo queste donne, m'apparvero certi visi diversi e orribili a vedere, li quali mi diceano: «Tu se' morto». Così cominciando ad errare la mia fantasia, venni a quello ch'io non sapea ove io mi fosse; e vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, maravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore ch'elle mi faceano giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volando per l'aria cadessero morti, e che fossero grandissimi terremuoti. E maravigliandomi in cotale fantasia, e paventando assai, imaginai alcuno amico che mi venisse a dire: «Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo». Allora cominciai a piangere molto pietosamente; e non solamente piangea ne la imaginazione, ma piangea con li occhi, bagnandoli di vere lagrime. Io imaginava di guardare verso lo cielo, e pareami vedere moltitudine d'angeli li quali tornassero in suso, ed aveano dinanzi da loro una nebuletta bianchissima. A me parea che questi angeli cantassero gloriosamente, e le parole del loro canto mi parea udire che fossero queste: Osanna in excelsis; ed altro non mi parea udire. Allora mi parea che lo cuore, ove era tanto amore, mi dicesse: «Vero è che morta giace la nostra donna». E per questo mi parea andare per vedere lo corpo ne lo quale era stata quella nobilissima e beata anima; e fue sì forte la erronea fantasia, che mi mostrò questa donna morta: e pareami che donne la covrissero, cioè la sua testa, con uno bianco velo; e pareami che la sua faccia avesse tanto aspetto d'umilitade che parea che dicesse: «Io sono a vedere lo principio de la pace». In questa imaginazione mi giunse tanta umilitade per vedere lei, che io chiamava la Morte, e dicea: «Dolcissima Morte, vieni a me, e non m'essere villana, però che tu dèi essere gentile, in tal parte se' stata! Or vieni a me, che molto ti desidero; e tu lo vedi, ché io porto già lo tuo colore». E quando io avea veduto compiere tutti li dolorosi mestieri che a le còrpora de li morti s'usano di fare, mi parea tornare ne la mia camera, e quivi mi parea guardare verso lo cielo; e sì forte era la mia imaginazione, che piangendo incominciai a dire con verace voce: «Oi anima bellissima, come è beato colui che ti vede!». E dicendo io queste parole con doloroso singulto di pianto, e chiamando la Morte che venisse a me, una donna giovane e gentile, la quale era lungo lo mio letto, credendo che lo mio piangere e le mie parole fossero solamente per lo dolore de la mia infermitade, con grande paura cominciò a piangere. Onde altre donne che per la camera erano, s'accorsero di me, che io piangea, per lo pianto che vedeano fare a questa; onde faccendo lei partire da me, la quale era meco di propinquissima sanguinitade congiunta, elle si trassero verso me per isvegliarmi, credendo che io sognasse, e dicèanmi: «Non dormire più» e «Non ti sconfortare». E parlandomi così, sì mi cessò la forte fantasia entro in quello punto ch'eo volea dicere: «O Beatrice, benedetta sie tu»; e già detto avea «O Beatrice», quando riscotendomi apersi li occhi, e vidi che io era ingannato. E con tutto che io chiamasse questo nome, la mia voce era sì rotta dal singulto del piangere, che queste donne non mi potero intendere, secondo il mio parere; e avvegna che io vergognasse molto, tuttavia per alcuno ammonimento d'Amore mi rivolsi a loro. E quando mi videro, cominciaro a dire: «Questi pare morto», e a dire tra loro: «Procuriamo di confortarlo»; onde molte parole mi diceano da confortarmi, e talora mi domandavano di che io avesse avuto paura. Onde io essendo alquanto riconfortato, e conosciuto lo fallace imaginare, rispuosi a loro: «Io vi diròe quello ch'i' hoe avuto». Allora, cominciandomi dal principio infino a la fine, dissi loro quello che veduto avea, tacendo lo nome di questa gentilissima. Onde poi sanato di questa infermitade, propuosi di dire parole di questo che m'era addivenuto, però che mi parea che fosse amorosa cosa da udire; e però ne dissi questa canzone: Donna pietosa, e di novella etate, ordinata sì come manifesta la infrascritta divisione.

Donna pietosa, e di novella etate,
adorna assai di gentilezze umane,
che era là 'v'io chiamava spesso Morte,
veggendo li occhi miei pien di pietate,
e ascoltando le parole vane,
si mosse con paura a pianger forte;
E altre donne, che si fuoro accorte
di me per quella che meco piangia,
fecer lei partir via,
e appressârsi per farmi sentire.
Qual dicea: «Non dormire»,
e qual dicea: «Perché sì ti sconforte?»
Allor lassai la nova fantasia,
chiamando il nome de la donna mia.
Era la voce mia sì dolorosa
e rotta sì da l'angoscia del pianto,
ch'io solo intesi il nome nel mio core;
e con tutta la vista vergognosa
ch'era nel viso mio giunta cotanto,
mi fece verso lor volgere Amore.
Elli era tale a veder mio colore,
che facea ragionar di morte altrui:
«Deh, consoliam costui,»
pregava l'una l'altra umilemente;
e dicevan sovente:
«Che vedestù, che tu non hai valore?»
E quando un poco confortato fui,
io dissi: «Donne, dicerollo a vui.
Mentr'io pensava la mia frale vita,
e vedea 'l suo durar com'è leggero,
piànsemi Amor nel core, ove dimora;
per che l'anima mia fu sì smarrita,
che sospirando dicea nel pensero:
- Ben converrà che la mia donna mora! -
Io presi tanto smarrimento allora,
ch'io chiusi li occhi vilmente gravati,
e furon sì smagati
li spirti miei, che ciascun giva errando;
e poscia imaginando,
di conoscenza e di verità fora,
visi di donne m'apparver crucciati,
che mi dicean pur: - Morràti, morràti -.
Poi vidi cose dubitose molte,
nel vano imaginare ov'io entrai;
ed esser mi parea non so in qual loco,
e veder donne andar per via disciolte,
qual lagrimando, e qual traendo guai,
che di tristizia saettavan foco.
Poi mi parve vedere a poco a poco
turbar lo sole ed apparir la stella,
e pianger elli ed ella;
cader li augelli volando per l'âre,
e la terra tremare;
ed omo apparve scolorito e fioco,
dicendomi: - Che fai? Non sai novella?
morta è la donna tua, ch'era sì bella -.
Levava li occhi miei bagnati in pianti,
e vedea (che parean pioggia di manna)
li angeli che tornavan suso in cielo,
ed una nuvoletta avean davanti,
dopo la qual gridavan tutti: Osanna;
e s'altro avesser detto, a voi dirèlo.
Allor diceva Amor: - Più nol ti celo;
vieni a veder nostra donna che giace. -
Lo imaginar fallace
mi condusse a veder madonna morta;
e quand'io l'avea scorta,
vedea che donne la covrìan d'un velo;
ed avea seco umilità verace,
che parea che dicesse: - Io sono in pace. -
Io divenia nel dolor sì umile,
veggendo in lei tanta umiltà formata,
ch'io dicea: - Morte, assai dolce ti tegno;
tu dèi omai esser cosa gentile,
poi che tu se' ne la mia donna stata,
e dèi aver pietate e non disdegno.
Vedi che sì desideroso vegno
d'esser de' tuoi, ch'io ti somiglio in fede.
Vieni, ché 'l cor te chiede.-
Poi mi partìa, consumato ogne duolo;
e quand'io era solo,
dicea, guardando verso l'alto regno:
- Beato, anima bella, chi te vede! -
Voi mi chiamaste allor, vostra merzede.»

Questa canzone ha due parti: ne la prima dico, parlando a indiffinita persona, come io fui levato d'una vana fantasia da certe donne, e come promisi loro di dirla; ne la seconda dico come io dissi a loro. La seconda comincia quivi: Mentr'io pensava. La prima parte si divide in due: ne la prima dico quello che certe donne, e che una sola, dissero e fecero per la mia fantasia, quanto è dinanzi che io fossi tornato in verace condizione; ne la seconda dico quello che queste donne mi dissero, poi che io lasciai questo farneticare; e comincia questa parte quivi: Era la voce mia. Poscia quando dico: Mentr'io pensava, dico come io dissi loro questa mia imaginazione. Ed intorno a ciò foe due parti: ne la prima dico per ordine questa imaginazione; ne la seconda, dicendo a che ora mi chiamaro, le ringrazio chiusamente; e comincia quivi questa parte: Voi mi chiamaste.

XXIV

Appresso questa vana imaginazione, avvenne uno die che, sedendo io pensoso in alcuna parte, ed io mi sentio cominciare un tremuoto nel cuore, così come se io fosse stato presente a questa donna. Allora dico che mi giunse una imaginazione d'Amore; che mi parve vederlo venire da quella parte ove la mia donna stava, e pareami che lietamente mi dicesse nel cor mio: «Pensa di benedicere lo dì che io ti presi, però che tu lo dèi fare». E certo me parea avere lo cuore sì lieto, che me non parea che fosse lo mio cuore, per la sua nuova condizione. E poco dopo queste parole, che lo cuore mi disse con la lingua d'Amore, io vidi venire verso me una gentile donna, la quale era di famosa bieltade, e fue già molto donna di questo primo mio amico. E lo nome di questa donna era Giovanna, salvo che per la sua bieltade, secondo che altri crede, imposto l'era nome Primavera; e così era chiamata. E appresso lei, guardando, vidi venire la mirabile Beatrice. Queste donne andaro presso di me così l'una appresso l'altra, e parve che Amore mi parlasse nel cuore, e dicesse: «Quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta d'oggi; ché io mossi lo imponitore del nome a chiamarla così Primavera, cioè prima verrà lo die che Beatrice si mosterrà dopo la imaginazione del suo fedele. E se anche vòli considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire 'prima verrà', però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce, dicendo: Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini. Ed anche mi parve che mi dicesse, dopo, queste parole: «E chi volesse sottilmente considerare, quella Beatrice chiamerebbe Amore, per molta simiglianza che ha meco». Onde io poi ripensando, propuosi di scrivere per rima a lo mio primo amico, tacendomi certe parole le quali pareano da tacere, credendo io che ancora lo suo cuore mirasse la bieltade di questa Primavera gentile; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Io mi senti' svegliar.

Io mi senti' svegliar dentro a lo core
un spirito amoroso che dormia:
e poi vidi venir da lungi Amore
allegro sì, che appena il conoscia,
dicendo: «Or pensa pur di farmi onore»;
e ciascuna parola sua ridia.
E poco stando meco il mio segnore,
guardando in quella parte onde venia,
io vidi monna Vanna e monna Bice
venir invêr lo loco là ov'io era,
l'una appresso de l'altra maraviglia;
e sì come la mente mi ridice,
Amor mi disse: «Quell'è Primavera,
e quell'ha nome Amor, sì mi somiglia».

Questo sonetto ha molte parti: la prima de le quali dice come io mi sentii svegliare lo tremore usato nel cuore, e come parve che Amore m'apparisse allegro nel mio cuore da lunga parte; la seconda dice come me parea che Amore mi dicesse nel mio cuore, e quale mi parea; la terza dice come, poi che questi fue alquanto stato meco cotale, io vidi e udio certe cose. La seconda parte comincia quivi: dicendo: Or pensa; la terza quivi: E poco stando. La terza parte si divide in due: ne la prima dico quello che io vidi; ne la seconda dico quello che io udio. La seconda comincia quivi: Amor mi disse.

Dante Alighieri
(segue)

 
 
 

Canzoniere inedito 6

XXVI.

Amami, Clori mia, dicea Fileno,
Mesto piangendo alla sua donna accanto:
Amami: e la di lei stringeasi intanto
Mano gentile al palpitante seno.

Io t'amo, ella rispose; ed il sereno
Ciglio fe' molle del garzone al pianto:
E tanto in me di amore alberga quanto
Non arse in petto uman foco terreno.

Ciò che alla ninfa sua disse il pastore
10 ti direi, se non temessi, o cara,
A te grato il mio dir men ch'io lo bramo.

Ma pur tentar vogl'io la sorte avara:
Il Ciel guidi il mio labbro, ed il tuo cuore:
Amami, o Cintia,... ah! tu rispondi: io t'amo.

Acrostico.


XXVII.

Donna, sapete, già volge il terzo anno
Da che messo mi son por tal viaggio.
Dove un mar fiero ed un terren selvaggio
Trovan sempre color che andar non sanno.

Ch'egli è ben certo a chi si arresta il danno,
0 a chi manco per via viene il coraggio:
Perch'io, che lena e troppo ardir non aggi".
Temo ad ognora di novello affanno.

Ma Voi potete, se il volete, aita
Porgermi pur, mostrandomi la stella
Che ne dirigga al disiato porto.

Ond'io, che sol per Voi feci partita,
Per Voi sia salvo, c me ne glorj; e quella
E Voi laudi dal lido, ove fui scorto.

XXVIII.

Quando angoscioso, e pien di pianto il ciglio,
Cerco la notte e i solitari lochi,
E in brevi suoni ed affannosi e rochi
Mettendo guai all'upupa somiglio:

Se in que' tristi momenti a pensar piglio
A' miei felici dì come fur pochi,
Subito avvieu che l'avvenire invochi
Meglio atato (?) dal cor che da! consiglio.

Questo è un inganno della mente inferma,
Che quello che disia compone e spera,
E in lui si scorda, e si conforta e pasce.

Ma la memoria oh Dio presto rinasce:
E troppo avanti a lei nuda e leggera
S'erge la speme, e poi non sa star ferma.

XXIX.

Ardere sempre di segreto Amore,
Cercar mercede, e viver di speranza;
Ecco la sorte che a fruir m'avanza
Nel vano Mondo, ove la vita è un gioco.

Chiesta pure dell'una honne abbastanza,
Il primo è grande, e non vuol darmi loco:
A che dunque io vivrò se così poco
Riman di speme, e tanto di costanza?

Ogni pena ah! il so ben sofferta in pace
Bello fa più lo Amor che si sostiene;
E chi sa più soffrir più a donna piace.

Eitornin dunque le passate pene;
Tutto io sarò di sopportar capace,
Intanto che l'Amor vivo mi tiene.

Acrostico.

XXX.

Sia per ragion, per torto, o per inganno,
Dov'io con teco, o mia donna, m'adiro,
Basta un sorriso tuo, basta un sospiro,
Perchè tosto il furor volga in affanno.

Allor mi pento e il mio sdegno condanno
E a te d'intorno tutto umil m'aggiro:
Più attento allora in te riguardo, e miro
Ciò che altre mille agli occhi miei non hanno.

Tanto a un infermo spesso accader suole,
Che dopo il mal che li turbò la mente
Vede più chiaro, e più chiaro favella.

Così ne' campi suol nascer sovente,
Che dietro ai nembi ritornato il sole
Ride natura, e a noi sembra più bella.

Giuseppe Gioachino Belli
Da "Il Canzoniere inedito di G. G. Belli", Estratto dal fascicolo di gennaio 1916 della Rivista d'Italia - Roma Piazza Cavour, Roma - Tipografia dell' Unione Editrice, via Federico Cesi 45
In "La Età dell' Oro", Roma dalla Tipografia Salviucci, 1851

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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