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Crescita e produttivismo stanno mettendo a rischio la sopravvivenza umana. Ma i crimini ambientali aumentano

Post n°4626 pubblicato il 25 Aprile 2011 da cile54

Ecco perché alla Terra il capitalismo fa male

«Per salvare il pianeta dobbiamo farla finita con il capitalismo». Mi piacerebbe che un'affermazione del genere risultasse firmata da qualche esponente della sinistra, italiana o di non importa quale altra nazionalità: che mostrasse così non solo di avere finalmente valutato a pieno la portata della crisi ecologica e il suo intrinseco rapporto con l'attuale impianto economico e sociale del mondo, ma di avere anche recuperato la stessa ragione costitutiva della sinistra politica: la quale, nata in opposizione al capitalismo, in questo senso parrebbe dover essere tuttora attiva, sia nella lettura dei rapporti sociali e dei loro mutamenti, sia nell'impegno operativo ai fini di un loro possibile superamento.

Ma così non è. La frase appena riportata è il titolo di un libro firmato da un noto ambientalista francese, Hervé Kempf (Garzanti 2010), il quale, a differenza di larga parte dei "verdi", non solo ha la capacità di leggere nel capitalismo - e dunque nelle logiche dominanti la politica mondiale - le cause determinanti del gigantesco e crescente dissesto della Terra, ma ha anche il coraggio di proclamarne la fine necessaria. E ne dirò più avanti.

Prima credo utile soffermarmi, e porre interrogativi, sulle ragioni per cui storicamente le sinistre non solo sono rimaste silenziose e di fatto assenti di fronte allo squilibrio crescente degli ecosistemi, ma sovente hanno mostrato aperta ostilità verso l'ambientalismo. A questo modo da un lato ignorando il fatto che a pagare le conseguenze del fenomeno sono sempre stati soprattutto i ceti più poveri (lavoratori impegnati in attività fortemente tossiche, abitanti di inquinatissimi quartieri operai, profughi da devastanti cicloni, alluvioni, ecc.), dall'altro dimenticando come una corretta lettura in chiave ecologica dei processi produttivi potrebbe trovare tutt'oggi ampie consonanze nella stessa analisi marxiana dell'"accumulazione capitalista": per più aspetti da potersi utilizzare come antefatto della più valida cultura ambientalista attuale.

Tutto ciò risponde d'altronde all'intera storia delle sinistre a partire dai "trenta gloriosi" del dopoguerra, gli anni dominati dall'euforia della "ripresa", quando la crescita produttiva nella forma dell'accumulazione capitalistica in qualche modo era parsa garantire anche alle classi lavoratrici un indubbio miglioramento di vita. Fu allora che il "produrre" si impose dovunque come indiscutibile garanzia di crescente benessere, e perfino come antefatto di inarrestabile ascesa sociale. E sempre più le lotte furono per la conquista di ulteriori garanzie, non per la messa in discussione dell'ordine dato; mentre via via l'intera politica delle sinistre si assestava entro questi confini. Non è un caso che sempre più raramente ormai si parlasse di "capitalismo" e d'abitudine ci si riferisse piuttosto al "neoliberismo". Fu così che la "rivoluzione", benché mai esplicitamente rinnegata, certo in qualche misura "entrò in sonno". Mentre crescita e produttivismo si imponevano come categorie portanti dello "sviluppo" e del progresso sociale. E come tali resistettero anche quando, tra fine anni Ottanta e inizio Novanta, la tradizionale rispondenza biunivoca tra produzione e occupazione iniziò a dare segnali contraddittori, fino a cancellare ogni regola in materia, e via via attestarsi nella precarietà come una realtà "normale".

In effetti stava producendosi una rottura destinata a segnare sempre più profondamente il futuro. Lo spettacolare aumento della capacità produttiva, derivato dal progresso scientifico e tecnologico, cui a lungo aveva risposto un consumismo accortamente promosso e inculcato ad ogni livello, sempre più ora faticava a trovare risposta adeguata. Ed è a partire da allora che la "crescita", già implicitamente data come un imprescindibile dogma economico, in qualche modo viene imposta anche come un dovere sociale. Da parte delle sinistre perseguita principalmente (ne accennavo di recente proprio su queste pagine) per contrastare la disoccupazione conseguente appunto al progresso tecnologico e alla crescente capacità delle "macchine" di sostituire il lavoro umano. Ciò che fu - a me pare - un grave errore storico: sostanziale rinuncia all'uso della scienza e della tecnica per la "liberazione del lavoro e dal lavoro", secondo l'auspicio marxiano; e anche, di fatto, accettazione della strategia imposta dal capitale, destinata tra l'altro a sostenere, anzi alimentare, quel produttivismo indiscriminato, di fatto fine a se stesso, che è causa prima della crescente devastazione della Terra.

E' da allora infatti che l'ambientalismo più qualificato, via via sostenuto da parte crescente della comunità scientifica mondiale, con insistenza tenta di convincere il mondo, e in particolare chi lo guida, che stiamo mettendo a rischio la stessa sopravvivenza umana. Ciò che non ha spostato di un millesimo la tenacia con cui imprenditori, politici, economisti insistono sulla stessa linea: più produzione più consumi. Le sinistre - va detto - non fanno eccezione.

Il lavoro firmato da Hervé Kempf, citato in apertura, illustra ampiamente e senza indulgenza le conseguenze di questo processo che, insieme alla crescente devastazione degli ecosistemi, produce non meno deplorevoli conseguenze nei comportamenti delle masse: non solo psicologicamente indotte a un forsennato consumismo (in qualche modo indicato e assunto come unica valida conferma del proprio esistere), ma bombardate da modelli che propongono competitività a tutto campo, premiano scelte di vita sempre più azzardate e meno rispettose dei diritti altrui e di civili norme di convivenza, inducendo tra ciascuno e il suo prossimo una sorta di guerra perenne: a perfetta imitazione della "guerra" che domina i mercati, o della guerra tout court, di cui non mancano mai esempi più o meno rilevanti, attivi sul pianeta: magari "inventati", per sostenere con la produzione di armi un Pil che non cresce a dovere…

Questa è la lettura della crisi ecologica planetaria firmata dall'ambientalismo più intelligente e responsabile: non limitata alla sua specifica - di per sé gravissima - realtà, ma vista nella complessità dei fenomeni che la accompagnano e spesso ne sono parte integrante. Credo sarebbe la più utile, qualora le sinistre del mondo volessero ritrovare una loro politica: capace di parlare all'oggi senza contraddire la storia.

Carla Ravaioli

24/04/2011

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