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E' giunto il momento di mettere in discussione l'imperativo della crescita a prescindere dai danni che crea

Post n°5047 pubblicato il 07 Agosto 2011 da cile54

Il feticcio della crescita

Fa una certa impressione leggere i patti multilaterali, gli appelli bipartisan alla coesione nazionale in nome della Crescita invocata come se fosse la Madonna miracolosa. Ma di cosa parlano sindacalisti, industriali, banchieri, politici?

Scrivono i ricercatori del Wuppertal Insitute (Futuro sostenibile. Le risposte eco-sociali alle crisi in Europa, a cura di Wolgang Sachs e Marco Morosini, Ed. Ambiente, 2011): “Da tre decenni i politici cercano inutilmente di combattere la disoccupazione attraverso una crescita economica forzata. Ma se la produttività del lavoro aumenterà, come ha fatto finora, del 1,5-2% all’anno, il Pil dovrebbe aumentare del 3 o 4% all’anno o anche di più nel lungo periodo per eliminare davvero la disoccupazione. Puntare a tassi di crescita del genere è vano” (p. 289). E stiamo parlando della Germania, della “locomotiva” – irraggiungibile – dell’Europa, del “modello” – inimitabile – di economia. Dal 1970 al 2005 la produttività del lavoro è aumentata del 2,5%, il Pil è più che raddoppiato, ma le ore lavorate sono diminuite dell’86%. Insomma, nei paesi a capitalismo maturo, i posti di lavoro diventano più produttivi e diminuiscono di numero: jobless growth.

Le ragioni di questa divaricazione, di questo divorzio tra crescita e benessere, sono molte: la delocalizzazione delle produzioni industriali di massa, l’allargamento dei sistemi di mercato in nuove aree geografiche e settori produttivi, la finanziarizzazione dell’economia con i tassi di rendimento esorbitanti pretesi dai possessori di titoli di credito, altro ancora. Ma è certo che inseguire questa crescita è un vero suicidio per le società occidentali. Senza contare il fatto che questa crescita economica si porta dietro un carico ambientale semplicemente insostenibile. Serve ricordare le guerre commerciali (e non solo) in corso per l’accaparramento delle materie prime, delle utilities, del suolo fertile, dei genomi, di internet… e di quanti altri beni comuni ancora rimangono da saccheggiare? Per quanta droga finanziaria (speculativa nelle Borse o di stato nel sostegno ai titoli del debito pubblico) si possa immettere, la cosiddetta “economia reale” europea, quella fatta di merci vendibili e di lavoro vivo remunerato, non riuscirà mai a tenere il passo nella guerra competitiva senza confini e senza regole che si chiama concorrenza intercapitalistica  internazionale, dove 500 società di capitale controllano il 52% del Prodotto lordo mondiale, dove una microscopica casta di cosmocrati stile Marchionne ha il potere di determinare le politiche industriali degli stati nazionali.

Difficile pensare che la crisi di un sistema si possa risolvere perseverandolo a tutti i costi.

Un altro che se ne intende, Tim Jachson, a capo di uno staff di consulenti del governo britannico, (Prosperità senza crescita. Economie per il pianeta reale, Ed. Ambinete, 2011) ha scritto: “Sono state le politiche attuate per stimolare la crescita a portare l’economia al tracollo”.

Sarebbe forse giunto il momento di mettere in dubbio l’imperativo della crescita. Le alternative esistono, ma sono quelle che non scritte nel “patto sociale”: redistribuire il lavoro attraverso una diminuzione degli orari (in Germania lo chiamano “tempo pieno breve per tutti” o “società a mezza giornata”) e l’introduzione di nuovi modelli di reddito (fissazione di limiti massimi e minimi con un reddito di base garantito per la valorizzazione del lavoro oggi non retribuito per attività di cura per la famiglia, la natura, la società); nuova fiscalità puntando su tasse ecologiche (carbon tax, pubblicità) e socialmente eque  (Tobin tax); diversa gestione trasparente e pubblica della finanza (imponendo tassi di rendimento differenziati a seconda del periodo di recupero); economia solare, investimenti ecologici (conversione ecologica dell’industria secondo i modelli della Bleu Economy, a zero emissioni), revisione della contabilità nazionale (superare il Pil come indicatore del benessere sociale ed della sostenibilità ambientale). Insomma è necessario “disaccoppiare” (decoupling, come dicono gli economisti) il benessere, lo star bene, da quanto il mercato è disposto a darci, cioè dalla nostra capacità di solvibilità.

Per uscire davvero dalla crisi dovremmo far recedere il mercato (cominciando da quello finanziario, dei titoli di debito) aumentando gli spazi anche economici di autonomia della società. Sottrarre beni e servizi comuni (l’acqua è solo il primo esempio, quanti altri sarebbero possibili?) dagli artigli della “messa a valore” (rendimento monetario, profittabilità) di ogni cosa e di ogni relazione sociale. Insomma servirebbe un progetto di nuovo modello economico per la sinistra. Esattamente il contrario della crescita.

Paolo Cacciari

6 agosto 2011

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