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Crimini contro l'umanità. Mahmoud aveva tredici anni. La sua colpa? Quella di essere nato e cresciuto a Gaza

Post n°5111 pubblicato il 25 Agosto 2011 da cile54
Foto di cile54

IL SOGNO SPEZZATO

 

Occhi grandi, ma tristi e spenti. Gli occhi di un ragazzino costretto a convivere, con cadenza quotidiana, con la morte e la devastazione. Gli occhi di un adolescente, già abituato a convivere con la paura e il dolore, che sa che domani potrebbe toccare a lui di morire sotto i bombardamenti, perché gli ordigni, quelli no, non hanno occhi. Gli occhi di un tredicenne che sa che il suo futuro è una incognita. Perchè se nasci a Gaza, «dall’altra parte del muro della vergogna», il tuo destino è già segnato. Lo sai fin da piccolo, lo impari mentre sei ancora nella culla perché se la guerra non ti uccide, ti segna. Per sempre. Le ferite rimangono. I cadaveri, i corpi straziati, le case sventrate, l’odore acre della morte diventano immagini indelebili nella mente di chi ha vissuto, toccandoli con mano, pagandoli sulla propria pelle, gli orrori della guerra. Soprattutto se lo spettatore, ossia la vittima designata di tanto odio e di disumana violenza è un bambino. Gli occhi di un tredicenne la cui infanzia è stata violata. I cui sogni sono stati spazzati via a colpi di granata. Mentre il mondo, in silenzio, sta a guardare. Costretto a crescere in fretta, troppo in fretta. A diventare uomo a dispetto della sua giovanissima età, per ritrovarsi poi - una notte, in una maledetta notte sporca di sangue, il cui silenzio è stato spezzato dal rumore delle bombe - disteso sul selciato, privo di vita, dopo essere stato recuperato dalle macerie di una casa dilaniata. Eccola qua l’ennesima vittima innocente dei bombardamenti senza fine. Si chiamava Mahmoud Abu Sambra Afef. Aveva tredici anni. E’ quel ragazzino dagli occhi grandi, ma tristi e spenti, senza futuro. La sua colpa? Quella di essere nato e cresciuto a Gaza. Il suo progetto spezzato? Diventare un’attivista e battersi per una Palestina libera. E Mahmoud, era riuscito a coinvolgere i suoi coetanei, diventando la loro voce. La voce ribelle, di chi come lui, cullava il sogno di libertà. «Non gli hanno consentito di vivere un’adolescenza normale», urla la madre stringendo a se il corpo esanime del figlioletto ucciso. Mahmoud adesso non potrà più esaudire quello che era il suo più grande desiderio: giocare a calcio, rincorrere un pallone, assieme agli amici, come fanno tutti i ragazzini, che vivono nei Paesi liberi, dove la guerra la si studia soltanto sui libri di storia. «Badesh», era il suo grido di battaglia. Significa «io non voglio» e Mahmoud, non voleva la guerra. Era stanco, di vedere cadaveri. E temeva, soprattutto, per la vita del fratello maggiore. «Voglio proteggerlo», continuava a ripetere. Ma chi proteggeva Mahmoud? Ucciso a 13 anni, per la sua voglia di libertà, per i suoi ideali di democrazia e di giustizia. Morti con lui, annientati da una bomba che si è abbattuta sulla casa del minore. Adesso, a portare avanti il progetto di libertà in cui tanto credeva Mahmoud, sono i suoi coetanei. Lo hanno giurato davanti al suo corpo straziato. ma chi proteggerà loro? Candidati all’obitorio, in una terra martoriata e senza pace, dove la vita, anche quella di un ragazzino, vale poco. Quanti altri Mahmoud ci saranno a Gaza?

 

Pamela Giacomarro

24/08/2011

 
 
 
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