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L'ecologia dei poveri. Le proteste popolari dalle periferie romane alle comunità indios in Bolivia

Post n°5445 pubblicato il 31 Ottobre 2011 da cile54

Ambientalisti per necessità. I nuovi conflitti in nome della natura

 

Corcolle è una frazione di campagna romana lambita dalle ultime propaggini della città. Qui dovrebbe sorgere a breve una delle due discariche provvisorie che sostituiranno quella di Malagrotta, ormai giunta a esaurimento. Nella discarica - "temporanea", dice il prefetto di Roma Pecoraro - finirebbe parte delle quattromila tonnellate di immondizia al giorno prodotte dalla capitale. Nel giro di breve tempo i residenti scendono sul piede di guerra e organizzano sit-in e blocchi sulla via Prenestina Polense. Poco più a nord, a Riano - appena 43 chilometri da Roma - c'è l'altro sito individuato per "ospitare" la seconda delle due discariche, una cava di tufo che sorge proprio in mezzo al paese. Anche qui il copione è lo stesso. Migliaia di persone sfilano per protesta lungo la via Tiberina contro Alemanno e Polverini e bloccano il traffico.

Nel corso degli ultimi anni i casi di proteste popolari contro le discariche si sono intensificati. A Terzigno, nell'hinterland napoletano, è ancora fresca la memoria degli scontri di appena un anno fa. Dopo la decisione del governatore della Campania, Stefano Caldoro, di aprire una seconda discarica, la gente si riversò nelle strade. I manifestanti organizzarono blocchi e barricate, la polizia rispose con cariche e lacrimogeni. Di conflitti nati attorno a temi ambientali è pieno il mondo. Si potrebbero citare altri casi, la No Tav per rimanere in Italia o i movimenti antinuclearisti in Germania e in Francia o i gruppi di ecologisti radicali nati in Russia nell'ultimo decennio. Ma bisogna allargare lo sguardo fuori dell'Europa. La novità è la proliferazione di esperienze collettive nei paesi emergenti o del Terzo mondo. Vicende conflittuali che vanno dal movimento per l'emancipazione del Delta del Niger - una formazione che ha scelto la lotta armata contro l'inquinamento e lo sfruttamento ambientale da parte della multinazionali del petrolio - alla protesta delle comunità indios che in Bolivia si oppongono alla costruzione di un'autostrada nel bel mezzo di un parco nazionale - tanto da indurre il presidente Evo Morales a bloccare i lavori. Cosa hanno in comune queste lotte? Ovunque salta agli occhi la saldatura dei movimenti ecologisti con istanze popolari. L'ambientalismo non è più affare esclusivo per élites illuminate o per avanguardie minoritarie dell'opinione pubblica. Le lotte per la difesa dei territori o contro le discariche o contro lo sfruttamento naturale per mano di multinazionali, ovunque si svolgano, nell'occidente avanzato o altrove, si saldano con i bisogni materiali e con i conflitti distributivi di chi sta negli ultimi posti della gerarchia sociale. Qui - per dirla con le parole di Joan Martinez Alier, autore di un saggio uscito un paio d'anni fa, Ecologia dei poveri (Jaca Book, pp. 423, euro 38) - non è in gioco l'ambientalismo dei ricchi, quello dei "parchi nazionali" o dello "sfruttamento razionale delle risorse naturali", quello che si richiama al mito della wilderness, delle foreste vergini e dei fiumi inviolati, che si limita a «preservare e mantenere ciò che resta degli spazi naturali integri rimasti fuori dal mercato», che «sorge dall'amore per i bei paesaggi e da valori profondi, non da interessi materiali». L'ambientalismo di cui si parla è un movimento globale, di dimensioni planetarie, che mescola linguaggi un tempo separati, che chiede allo stesso tempo giustizia sociale e ambientale. Non è vaga nostalgia di civiltà premoderne. In questo ecologismo popolare chi difende la natura difende se stesso e le sue possibilità di sopravvivenza, il diritto delle comunità a salvaguardare il proprio territorio dal potere dei mercati. Sono «lotte per la giustizia ambientale che hanno caratterizzato tanto il Nord quanto il Sud del mondo» e che, nei propri obiettivi, hanno ben chiaro il «nesso tra potere, natura e conflitto». A ben vedere, i conflitti ecologici raccontati da Martinez Alier - per esempio le battaglie negli Usa contro il «razzimo ambientale» e lo stoccaggio di rifiuti tossici nei territori degli afroamericani o dei latinoamericani - hanno per oggetto le «asimmetriche relazioni di potere», l'intreccio tra sfruttamento della natura e ingiustizia sociale. Gli scontri ambientali si mescolano a rivendicazioni sociali e vedono per protagonisti gli esclusi, gli emerginati, coloro che stanno in basso nella catena di comando, siano le comunità indigene boliviane o gli abitanti delle periferie romane o i comitati della Val di Susa. «Non sostengo - parole di Martinez Alier - che i poveri siano sempre e dovunque ecologisti: sarebbe assurdo. Sostengo invece che nei conflitti ecologici distributivi i poveri sono spesso dalla parte della conservazione delle risorse e di un ambiente pulito, anche quando non pretendono di essere ecologisti». Eppure i tanti «conflitti distributivi» su scala locale non trovano spazio nei media. «Dal Giappone alla Nigeria, dalla Spagna al Sudafrica, da Tailandia e Papua Nuova Guinea a Ecuador e Perù, dall'India a Stati Uniti e Brasile. I conflitti presentati vanno dal Nord al Sud, sono urbani e rurali, di terre alte e aree umide, come la protezione delle mangrovie contro la depredazione dell'industria

dei gamberi, la resistenza contro le dighe e le dispute per le falde acquifere, i movimenti contro lo sfruttamento di gas e petrolio in zone tropicali, le lotte contro le importazioni di rifiuti tossici, i conflitti contro la «biopirateria» o l'appropriazione delle risorse genetiche, la conservazione delle risorse ittiche di fronte allo sfruttamento esterno abusivo, le proteste contro le piantagioni forestali (siano esse di palma africana o di eucalipto), i conflitti di lavoro per salute e sicurezza in miniere, fabbriche o piantagioni, nonché i conflitti ambientali urbani su uso del suolo, accesso all'acqua, sistemi di trasporto, opposizione a certe forme di smaltimenti dei rifiuti e all'inquinamento dell'aria».

La resistenza dei gruppi indigeni contro l'industria petrolifera o mineraria non è un fenomeno di politica identitaria o localistica. L'ecologismo dei poveri parla un linguaggio universale perché mette in discussione l'asimmetria delle relazioni di potere, nel sud del mondo quanto nelle società occidentali. Questo rende l'ecologismo un movimento tendenzialmente planetario, paragonabile - per portata globale - a quello che storicamente fu il colonialismo, ma con un segno contrario. Il discorso colonialista non è stato solo un'impresa politico-militare, ma anche una gigantesca narrazione che ha spacciato un interesse di parte per un'opera di civilizzazione del mondo intero. L'operazione ideologica del colonialismo è stata l'aver trasformato la cultura, la religione e l'economia dell'occidente nella cultura, nella religione e nell'economia di tutti, colonizzati inclusi. Chissà che i movimenti ecologisti popolari non siano il ritorno in forma inversa del discorso colonialista. Un nuovo universalismo che contesti il profitto e il denaro come unici regolatori della vita umana e naturale, capace di parlare a tutte le latitudini, ma nello stesso tempo di convivere con una pluralità di economie alternative dal basso.

 

Tonino Bucci 

30/10/2011

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G8 GENOVA 2011/ UN LIBRO ILLUSTRATO, MAURO BIANI

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Giorgiana Masi

Roma, 12 maggio 1977

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