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La sfida è aperta: immaginare e praticare la convivenza fra eguali in cui pesino sempre meno le forme di sfruttamento

Post n°6595 pubblicato il 01 Luglio 2012 da cile54

Immigrazione, è l'ora dei bilanci

Sono passati quasi 14 anni da quel giorno in cui un governo di centro sinistra, avente come ministro dell’interno l’attuale presidente della repubblica Giorgio Napolitano, varava un testo unico sull’immigrazione con il voto di tutto l’allora centro sinistra. La legge 40, meglio nota come Turco–Napolitano (Livia Turco era ministro per gli affari sociali), si poneva l’ambizioso obiettivo di far rientrare l’Italia a pieno titolo nella cosiddetta “Area Schengen”, per regolare la circolazione e la vita dei cittadini migranti in Europa. Un testo aborracciato, in cui gran parte delle richieste e delle intuizioni dei movimenti e delle associazioni antirazziste non vennero recepite che parzialmente. Un testo votato (sbagliando, come ammesso poi successivamente) anche dal Prc.

Nasceva già quel securitarismo leghista e legato agli ambienti più reazionari del Paese che venne parzialmente assecondato e considerato plausibile dai legislatori e da coloro che poi attuarono la legge. Dal testo finale vennero espunte modifiche sostanziali come quelle per la facilitazione alla cittadinanza italiana, il diritto al voto; vennero inseriti gli allora Cpt (oggi Cie) per le persone irregolari da espellere coattivamente e poi, in sede attuativa, poco si fece per valorizzare alcuni elementi positivi che il testo conteneva relativi all’inclusione sociale e ai progetti per accettare e far accettare l’irreversibilità dei fenomeni migratori in Italia.

Gli anni successivi hanno visto ulteriori e drastici peggioramenti: gli elementi introdotti col nuovo testo unico grazie agli emendamenti che hanno dato vita alla attuale legge Bossi–Fini, si sono caratterizzati come fattori non solo volgarmente xenofobi, ma hanno pervicacemente voluto accentuare uno dei caratteri strutturali che motiva l’esistenza di un testo unico in materia: una legge sul mercato del lavoro. I peggioramenti introdotti dal 2002 in poi, attraverso i vari “pacchetti sicurezza” e le vigliacche ordinanze approvate da “sindaci sceriffi” incapaci e presi dalla miseria del consenso facile, non solo non sono minimamente riusciti nello scopo dichiarato – ridurre la presenza di stranieri irregolarmente presenti – ma hanno accentuato scontri, tensioni, sfruttamento di massa dei lavoratori migranti sfociati in vero e proprio schiavismo diffuso. Ne è risultata una legislatura ferruginosa capace solo di intasare questure, tribunali, vite delle persone e di non consentire un inserimento sereno di milioni di persone che intanto si trasferivano in Italia.

Laddove le difficoltà divenivano insormontabili, si provvedeva con l’ipocrisia dei “decreti flussi” (lavoratori che ufficialmente arrivano dal proprio paese perché chiamati dal datore di lavoro italiano e che in realtà per lo stesso hanno lavorato per anni in nero) o sanatorie più o meno camuffate. Come giustamente ripete spesso un valido dirigente sindacale esperto in materia (Piero Soldini) da noi si «producono stranieri». Ovvero non si permette di ottenere la cittadinanza neanche per nascita, si costringe ad una eterna precarietà mediante permessi di soggiorno legati al lavoro di durata insufficiente, si rifiuta di accettare l’idea che questo ormai è, come tutti gli altri stati europei, un Paese multiculturale e non occasionalmente.

Da circa un anno stanno però accadendo fenomeni in controtendenza. Intanto il securitarismo, lo straniero come capro espiatorio per una crisi globale e per la trasformazione che avviene nelle nostre città sembra non avere più presa. Malgrado lo squallore di alcune forze politiche che hanno costruito la propria identità sulla fabbrica della paura e malgrado l’insipienza della sinistra moderata, il tema non fa più facilmente presa, non è più considerato foriero di sciagure totali. Lo si deve anche al fatto che – malgrado le nostre leggi – circa 5 milioni di uomini, donne e minori, migranti, sono entrati di fatto nella società italiana, ne occupano posizioni, nicchie economiche e, a volte, anche culturali, sociali ecc, con una propria soggettività individuale. Lavoratori sindacalizzati, donne che sopperiscono al disfacimento del welfare con il proprio contributo privato, spazi reali all’interno delle città, ragazzi e ragazze che ripopolano le classi scolastiche di ogni ordine e grado. Si modifica il nostro linguaggio, si modifica l’approccio, diventa meno ossessivo, nonostante l’ignoranza mediatica, il timore delle invasioni.

Restano però spesso condizioni di subalternità dovute alle leggi tuttora in vigore, ad una logica di sfruttamento e ad una cultura ancora chiusa, anche a sinistra. E la novità più recente, da questo punto di vista, sta proprio nel fatto che anche nel mondo della sinistra di governo prendono piede iniziative, sollecitate anche da una ricca società civile non rassegnata, ad operare modifiche al presente. I temi sui quali soprattutto il Pd si sta schierando con nettezza sono due: da una parte l’inclusione dei migranti stabilmente presenti (cittadinanza per chi qui nasce e cresce e diritto di voto alle elezioni amministrative); dall’altra una revisione rispetto a quei buchi neri del diritto che sono i centri di identificazione ed espulsione dove oggi si può rimanere reclusi fino a 18 mesi senza aver commesso reati.

Un dato positivo ma, come spesso fa notare il circuito più attivo ed auto organizzato dell’associazionismo migrante, «la sinistra si mostra aperta quando è all’opposizione e non interviene quando governa». Una risposta a questa domanda seria a mio avviso va data e deve cominciare a crescere sin da ora. Occorre una radicale revisione delle legislazioni vigenti che guardino in maniera totalmente diversa le persone che scelgono l’Italia (ma il tema riguarda l’intera Europa) come paese in cui costruire parte o interamente un proprio progetto di vita. Rivederne i meccanismi considerando la soggettività delle scelte migratorie e piantandola con la retorica dell’invasione, predisporre piani veri e propri di revisione anche dell’assetto sociale in funzione delle nuove presenze.

Un ragionamento di questo tipo, che non può essere accettato dalla sinistra moderata sia per ragioni economiche che per inadeguatezza sociale e culturale, deve vedere la sinistra di classe come protagonista, capace di avanzare proposte partendo da alcuni elementi imprescindibili. Deve crescere su questo tema un dibattito pubblico da cui emerga soprattutto la voce del tessuto migrante, ricco, articolato, variegato e capace di squadernare l’assetto politico imponendo proprie priorità con cui è urgente e necessario confrontarsi. Si tratta insomma di recuperare anni persi in indegni dibattiti istituzionali in cui le figure centrali e dotate di potere decisionale utilizzavano e utilizzano ancora categorie statiche e insignificanti come “regolare “ e “clandestino”, laddove mercato del lavoro e reale formarsi delle relazioni sociali procedono in maniera radicalmente diversa e più magmatica.

Si tratta insomma di aprirsi ad una sfida: immaginare e praticare contesti di convivenza fra eguali in cui pesino sempre meno le forme di sfruttamento non solo economico per chi non è autoctono, in cui le comunità che di fatto già si vanno costruendo autonomamente vengano istituzionalmente riconosciute, accrescendo gli spazi di partecipazione reale e di comune responsabilizzazione. L’immigrazione, che piaccia o no, è un fatto sociale totale, modifica tutto e tutti e come tale va vissuto. Ovviamente questo significa anche abrogare le leggi attuali e rendere finalmente impossibile l’esistenza della detenzione amministrativa e dei centri di espulsione, vero marchio di infamia dell’intera Europa del ventunesimo secolo.

Stefano Galieni

30/06/2012 www.controlacrisi.org

 
 
 
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Roma, 12 maggio 1977

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