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Anche nei bresciani “non esposti” concentrazioni di diossine nel sangue superiori ai cittadini di Taranto più esposti

Post n°7610 pubblicato il 09 Aprile 2013 da cile54

Il "caso Caffaro" di Brescia

A Brescia vi è una porzione della città, 4 milioni di metri quadrati su cui vivono circa 25.000 abitanti, sottoposta da oltre 11 anni ad un’allucinante Ordinanza sindacale che interdice l’uso e il contatto con il terreno, prescrivendo rigidissimi divieti: qualsiasi uso anche a scopo ricreativo dei suoli; consumo alimentare umano dei vegetali spontanei e dei prodotti degli orti, presenti nella zona; allevamento di animali destinati direttamente o con i loro prodotti all’alimentazione umana; pascolo degli animali medesimi; consumo di alimenti di origine animale prodotti in zona; utilizzo dei sedimento dei fossati; asportazione di terreno… Insomma i cittadini sono confinati nelle loro case e nei soli spazi cementificati o asfaltati. Significativa al riguardo la situazione della scuola primaria “Deledda” dove i bambini da 11 anni non possono giocare nel giardino della scuola stessa, costretti su una piattaforma di cemento a guardare l’erba come un miraggio inattingibile.

Questa Ordinanza è l’emblema di uno dei casi di inquinamento da Pcb e diossine più disastrosi che si siano verificati all’interno di una città. Un emblema, tra l’altro, tanto clamoroso da impedire che, nonostante reiterati tentativi, il disastro ambientale che sottende possa essere rimosso e ricacciato sotto il proverbiale tappeto. In effetti fino al 2001 la società bresciana era riuscita a tenere perfettamente celato l’inquinamento di questa porzione della città, per oltre mezzo secolo. In quell’anno, in verità, non si registrò nessun episodio particolare, nessun incidente o fuga di gas tossici in ambiente. Veniva semplicemente pubblicata la storia della Caffaro, le cui conclusioni vennero anticipate, il 13 agosto del 2001, dal quotidiano “La Repubblica”, con un lancio clamoroso in prima pagina, A Brescia c’è una Seveso bis, che fece riemergere per intero quanto era stato per decenni rimosso. Si ipotizzava, in sostanza, una grave contaminazione da Pcb, ma anche da diossine e mercurio, di una vasta zona a sud della Caffaro, un’industria chimica operante per circa un secolo all’interno della città di Brescia: la denuncia si basava sulla documentazione storica dei processi e dei prodotti dell’azienda, nonché sulle vie accertate di dispersione in ambiente delle sostanze tossiche trattate. La Caffaro fu l’unica azienda chimica italiana a produrre su licenza Monsanto, per oltre 40 anni fino al 1984, i famigerati Pcb, parenti stretti delle diossine.

A quel punto le istituzioni furono costrette ad indagare, in verità con il malcelato intento di smentire

l’improvvido allarme. Invece ne risultò un quadro ben più grave di quello ipotizzato dallo scoop agostano. In tutto il territorio a sud e a valle della Caffaro i Pcb e le diossine erano presenti nel terreno da dieci a centinaia di volte oltre i limiti di legge, fino ad un massimo di 8.330 μg/kg per i Pcb (limite 60 μg/kg) e di 3.322 ngTeq/kg per le diossine (limite 10 ngTeq/kg), ovvero livelli di contaminazione dei terreni, sovrapponibili a quelli della zona A, a suo tempo evacuata, di Seveso, con l’aggravante che in questo caso lo strato di terreno contaminato non era di 7 cm, ma almeno di 50 cm e con un’estensione molto maggiore. Si rilevò, inoltre, la presenza di altre sostanze, tra cui mercurio, tetracloruro di carbonio, Ddt, arsenico che interessava sia i corsi d’acqua superficiali che la falda. Ciò determinò l’inclusione nel 2002 dell’area nei siti inquinati di interesse nazionale, come “Sito Brescia-Caffaro”, e l’emanazione dell’Ordinanza sindacale, di cui si è detto, rinnovata di sei mesi in sei mesi, fino ad oggi e a tempo indeterminato.

Ma in quella zona a sud della fabbrica, in passato per decenni, avevano operato una ventina di aziende agricole che avevano prodotto latte e carne, che oggi sappiamo contaminati, per il macello comunale e la centrale del latte. Solo nel 2001, si è sostanzialmente interrotta la diffusione della contaminazione, che nel caso di Pcb e diossine, com’è noto, avviene quasi esclusivamente attraverso la catena alimentare.

Sta di fatto che i bresciani si ritrovano con livelli di diossine nel sangue mediamente fuori norma, superiori a qualsiasi realtà finora indagata a livello mondiale, ed elevatissimi nel caso dei consumatori di prodotti alimentari del “sito Caffaro”.

Può servire a dare un’idea dell’eccezionalità del “caso Caffaro” un confronto con il “caso Ilva” oggi sotto i riflettori dei media. Qui sono stati indagati gli allevatori, nei dintorni della grande acciaieria, consumatori dei propri prodotti, e quindi più esposti, in particolare quelli più vicini all’impianto.

Ebbene i bresciani “non esposti” presentano concentrazioni di diossine nel sangue addirittura superiori ai cittadini di Taranto più esposti. Quasi 10 volte più elevate le concentrazioni nel sangue dei bresciani esposti del “sito Caffaro” abituali consumatori di prodotti provenienti dal sito stesso.

Ancor più clamoroso il caso del latte materno di una puerpera alimentata con prodotti provenienti dal sito bresciano. Le concentrazioni di diossine rilevate a Brescia nel sito Caffaro (147 pgTEQ/g di grasso) non trovano riscontro in altri casi di puerpere di siti contaminati tra i più noti (Venezia – Mestre, Taranto – Ilva, Duisburg – Ruhr, Caserta – “terra dei fuochi”), dove le concentrazioni oscillano tra i 15 e i 34 pgTEQ/g di grasso. Si pensi che il neonato figlio di quella signora ha assunto una dose giornaliera di diossina per kg di peso pari a 882 pgTEQ/kg-bw, rispetto al limite di 2 pgTEQ/kg-bw, indicato dall’Unione europea, ovvero qualcosa come 441 volte oltre il limite.

Ora, ci si potrebbe chiedere: com’è stata possibile una contaminazione tanto importante?

Due sono stati i fattori specifici concomitanti (oltre alla colpevole “ignoranza” storica della legislazione italiana sulla pericolosità d questi composti).

Da un canto la collocazione della fabbrica. Un insieme di fattori sembrano “giustificare” quella insensata ubicazione nel 1906 all’interno della città, a ridosso del centro storico: un progetto tecnico produttivo che presupponeva una disponibilità di energia elettrica considerevole e a basso costo, disponibile nelle valli bresciane, la contiguità al sistema ferroviario nazionale, la possibilità di attingere l’acqua necessaria e di reperire in loco manodopera. Brescia, in particolare il territorio di Fiumicello-Borgo S. Giovanni, era perfettamente funzionale a tale progetto. Lo stabilimento quindi sorse subito al di là del cimitero Vantiniano sull’allora via provinciale per Milano, nell’area più esterna di quella che stava diventando la zona industriale della città. La fabbrica si inserì all’interno della frazione di Borgo S. Giovanni-Fiumicello. Anzi si collocò addirittura all’intorno della scuola elementare “Dusi”, costruita nel 1898 per i bambini del Borgo, nelle adiacenze delle cascine che costellavano i campi a sud-ovest dello stesso abitato, a 300 metri dall’antica chiesa parrocchiale e dal centro del Borgo stesso e a poche decine di metri dalla stazione prevista proprio per servire quel nucleo abitativo, la stazione della ferrovia Brescia Iseo, per l’appunto di Borgo S. Giovanni, un quartiere che all’epoca raggiungeva i 3000 abitanti circa. Con tutta evidenza si accendeva una miccia accanto ad una bomba destinata prima o poi a deflagrare, insediando all’interno di una città un’industria chimica che si sarebbe poi specializzata nella produzione dei composti organici del cloro (oltre ai Pcb, il pentaclorofenolo, il Ddt, il lindano…), sostanze in generale cancerogene, non biodegradabili, altamente bioaccumulabili.

A ciò si aggiunga il fatto che lo scarico di notevole portata della fabbrica in corpo idrico superficiale fu per quasi un secolo la principale sorgente delle rogge che andavano ad irrigare i campi a valle della fabbrica, un perfetto veicolo per diffondere in ambiente le sostanze inquinanti. Da una documentazione esistente in Caffaro si è appreso che dallo scarico Caffaro di norma usciva una quantità enorme di Pcb, pari a circa 10 kg/die, vale a dire quasi 4 tonnellate anno. Sulla base di questo dato rigorosamente documentato è facile calcolare che le diossine in uscita possano essere state pari a diversi grammiTeq/die, nell’ordine, dunque di kgTeq/anno, se se si tiene conto del rapporto tra diossine e Pcb ritrovati nei terreni appunto irrigati da detto scarico nel corso dei decenni. Le produzioni di Pcb e di organoclorurati, che possono aver causato formazione di diossine, sono proseguite, al netto della sospensione della seconda guerra mondiale, per circa 40 anni. E’ facile fare i conti: si tratta di circa 150 tonnellate di Pcb disperse in ambiente a sud della fabbrica e di diverse decine di kg/Teq di diossine. Quantità davvero enormi.

A questo punto, scoperto l’immane disastro, come porvi rimedio?

Dopo 11 anni siamo ancora al punto di partenza, mentre nel frattempo, proprio il febbraio scorso, i Pcb sono stati dichiarati dall’organizzazione mondiale della sanità cancerogeni certi per l’uomo, come la diossina di Seveso. A Brescia si continua a ripetere: il compito è così complesso e difficile, che non si sa da dove cominciare. Oltre ai milioni di metri cubi di terreno inquinato all’esterno della fabbrica, va tenuto in conto il sito industriale stesso, in gran parte dismesso, che rappresenta dentro la città una zolla di terreno di 100mila metri quadrati con inquinamento a concentrazioni elevatissime fino a 35 metri e oltre di profondità e con il pericolo incombente di una contaminazione disastrosa della falda cittadina.

D’altro canto non si può abbandonare una porzione della città e 25.000 abitanti a quelle restrizioni descritte in apertura, che ovviamente nessuno rispetta, e lasciare innescata la bomba ecologica della Caffaro dentro la città.

Brescia dovrebbe diventare un caso di studio, di ricerca e di progettazione almeno di livello europeo, in cui mettere all’opera le migliori risorse scientifiche e tecniche disponibili in tema di bonifiche, con un progetto dunque finanziato anche dall’Ue, che veda una cooperazione attiva tra università, ricerca e imprese impegnate nelle tecnologie più efficaci alla “ripulitara” di ambienti inquinati.

Marino Ruzzenenti

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