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In un libro di Orazio Barrese che Andrea Camilleri ha definito in prefazione racconto epico, poema e saggio storico
Post n°3597 pubblicato il 17 Luglio 2010 da cile54
I racconti delle tante Calabrie
Quante sono le Calabrie che conosciamo, e quante quelle che non conosciamo? C'è la Calabria della 'ndrangheta e quella dei ragazzi di Locri che dopo l'uccisione di Francesco Fortugno scrissero su un lenzuolo bianco: «E adesso ammazzateci tutti». C'è la Calabria dei bronzi di Riace, riemersi dal mare dopo duemila anni, e quella delle navi affondate con il loro carico di bidoni pieni di veleni che non si riesce a far riemergere. C'è quella delle speranze di sviluppo arenate nel porto di Gioia Tauro e quella della crescita abusiva delle città e sulle coste. Quella della meraviglia delle foreste e dei crinali da cui si vedono tre mari, e quella del mare inquinato e dei litorali ridotti a discariche. E poi c'è la Calabria raccontata da Orazio Barrese, calabrese di Radicena, oggi Taurianova, che in un libro di ricordi struggenti narra storie di lotte lontane e di antichi soprusi, di amori perduti misteriosamente e di uno, impossibile, incontrato per caso. Della violenza pubblica dei potenti contro i più poveri e di quella privata di donne contro altre donne, fino a cambiare, l'una e l'altra, la vita e i destini degli uomini. Una vera tragedia greca. Anzi, una tragedia della Magna Grecia, con il suo carico di rimorsi e rimpianti, amici e compagni, nemici e padroni, e una sorta di lamento corale per la propria terra e per la giovinezza che furono e che il tempo e le vicende hanno modificato irrimediabilmente. Barrese, giornalista calabrese approdato prima a Roma, a Paese Sera , e poi a Palermo, al giornale L'Ora di Vittorio Nisticò (altro calabrese sbarcato in Sicilia) ha scritto Il pianoro delle quaglie (Iride, 301 pagine, 18 euro). Libro che si colloca, ci pare, nel filone della memoria vissuta e condivisa: quella di Corrado Alvaro ad Africo ; quella della lucana Mariolina Venezia in Mille anni che sto qui ; quella del pugliese Francesco Laudadio nel suo Scrivano ingannamorte , definito da Andrea Camilleri in prefazione «un romanzo ma, insieme, un saggio storico, un poema in prosa, un racconto epico». Ecco, questo libro di Orazio Barrese è tutto questo, con passaggi struggenti, soprattutto dove parla di quella sua terra difficile, terribile, ma anche selvaggiamente bella e generosa, tanto da indurre i contadini poveri e i loro figli affamati a restituire la libertà alle quaglie, arrivate sul pianoro in un giorno di pioggia e impossibilitate a riprendere il volo, dopo averle asciugate e nascoste nelle tasche per sottrarle ai tegami già pronti. Questo Pianoro delle quaglie diventa così, metaforicamente, il pianoro della libertà da cui i più deboli, avviliti, ammaccati, possono sperare di spiccare il volo, o almeno di riprendere una strada meno impervia e avara di quanto i padroni e i mafiosi di sempre avrebbero loro consentito. E c'è, in questo libro, un pezzo importante di biografie, alcune vere, dirette, altre malcelate, di capi sindacalisti, di uomini del Partito comunista, di donne che volevano e hanno cercato un altro posto al sole, non sempre riuscendo a trovarlo. Insomma, un pezzo d'Italia uscita dal fascismo e dalla guerra, che ha attraversato, nel bene e nel male, tutta la storia di più dell'ultimo mezzo secolo trascorso, con alcuni passaggi esilaranti, come quando "il padrone" spiega ai suoi uomini perché le donne che hanno appena conquistato il suffragio universale non dovrebbero votare. Scrive Barrese che don Pasquale sosteneva che «ora che c'è il voto pure per le donne, la famiglia è in pericolo se la moglie si mette in testa di contare quanto il marito. Per fortuna le nostre mogli sono giudiziose e sanno amministrare la casa più di tanti mariti che passano la domenica a ubriacarsi all'osteria. Ma che c'entrano le donne col voto? Da che mondo è mondo le cose pubbliche le decidono gli uomini, per questo portano i pantaloni. Adesso il capo comunista Togliatti, un uomo che non sa neppure dove siamo perché i suoi genitori lo hanno portato in Russia da bambino, e un pezzo grosso dell'Austria nostra nemica, contro la quale abbiamo fatto le Guerre d'indipendenza e la Prima guerra mondiale, l'austriaco De Gasperi, invece di venire a conoscerci e chiederci cosa ci serve, si mettono insieme per stabilire cosa debbono fare le nostre donne». Ecco, anche questo è stata l'Italia, almeno una gran fetta dell'Italia del Sud, ma anche larghe plaghe delle campagne del Nord. Ed è bene avere sempre chiaro da dove veniamo e quale è stato il tragitto che abbiamo dovuto compiere, spesso al prezzo di lacrime e sangue. Molto spesso al prezzo di dover abbandonare la terra dove siamo nati e la nostra gente.
Gemma Contin 14/07/2010 |
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Giorgiana Masi
Roma, 12 maggio 1977
omicidio di Stato
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