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Cecilia Strada, presidente di Emergency, a sostegno di Liberazione

Post n°3701 pubblicato il 16 Agosto 2010 da cile54

Voi e pochi altri potete aiutarci a rompere l'embedded

 

"Embedded". Parola chiave se si parla di informazione con Cecilia Strada. «La guerra viene negata, ovviamente, da chi la fa, da entrambe le parti. La chiamano missione di pace, guerra santa o guerra di liberazione. Si capisce perché: la guerra è sempre il problema e non è mai la soluzione e bisogna farla digerire, non mi stupisce. Mi mette più in imbarazzo che lo facciano i giornalisti che in una società avanzata dovrebbero incalzare il potere, raccontare i fatti», dice a Liberazione, la presidente di Emergency, 31 anni, socio-antropologa.

E' per questo che dal 2003 Emergency ha imboccato con Peacereporter la strada dell'autoproduzione di informazione. O ti racconti o sei raccontato. Un dato che accomuna molte esperienze di autorganizzazione, cooperazione, solidarietà dal basso che Liberazione sta incontrando nel corso della sua campagna di rilancio.

«Peacereporter viene realizzata con i missionari comboniani dell'agenzia Misna, non proprio dei pericolosi sovversivi - spiega Strada - per raccontare il vero volto della guerra al di là del chiasso. Qui se ne parla solo quando le vittime sono italiane: quante volte abbiamo letto dei massacri in Sri Lanka? Eppure lì c'è una guerra da 20 anni. Ma Peacereporter ci serve anche per le buone notizie. Storie di buona cooperazione, di esperienze locali anche in Afghanistan, in India... perché, vedi, non siamo solo noi, gli occidentali, che proviamo ad aiutare i poveri. Esistono moltissime esperienze che sono alternative alla guerra. E il nostro giornale è letto ma non abbastanza: è una goccia in un mare dell'informazione pieno di problemi, tranne qualche eccezione. Però, se mettiamo

i lettori di Liberazione, del manifesto e gli ascoltatori di qualche radio, comunque non fanno la maggioranza. E' un problema. Liberi tutti di farsi la propria opinione sulla giustezza o meno di una guerra purché si abbiano gli elementi sufficienti per formarsela».

Ma il giornalismo nelle zone di guerra è "embedded", arruolato. Oppure non è. «Nel sud e nell'est dell'Afghanistan non ci sono giornalisti indipendenti - continua Cecilia Strada - chi prova ad andare sul campo, e non è embedded, rischia la vita, spesso viene minacciato, sequestrato ucciso. Altrimenti resta la forte commistione tra giornalisti e militari. Una stampa indipendente non c'è». Poi esiste pure per Emergency il problema di obbedire o trasgredire alcune leggi dell'infotainment, una brutta parola che fonde i termini inglesi di informazione e intrattenimento. Un'informazione che ha fame di sensazionalismo, che non riesce a raccontare le cose con gli occhi e le parole dei soggetti sociali ma che li metabolizza all'interno di format precisi. Paradigmatico quello che Cecilia Strada chiama «l'esempio di aprile», della vicenda che vide l'arresto di tre volontari di Emergency arrestati dai servizi afgani. «E' stato drammatico - ricorda - abbiamo perfino letto sui giornali che i nostri colleghi avevano confessato. Sapevamo che era una bufala ed eravamo terrorizzati, sapevamo che la loro liberazione senza accuse non avrebbe avuto la stessa eco del loro arresto. Molti giornalisti sono caduti in mega-trappole che si sarebbero potuti evitare, sarebbe bastato verificare le notizie. Sono venute meno le regole abbastanza basilari del mestiere. Abbiamo avuto molta paura e subìto un enorme danno anche se abbiamo visto moltissima solidarietà intorno a noi».

La rassegna stampa di quei giorni era piena di insinuazioni nei confronti dell'organizzazione umanitaria fondata da Gino Strada.«Anche stamattina c'era un articolo che insinua che i nostri volontari siano collusi. La cosa strana è che tutti i giornalisti, in quei giorni, ci esprimevano solidarietà. Poi uscivano cose incontrollate, frutto di anni e anni di ignoranza e di linee editoriali precise. Ho visto un sondaggio su un grosso giornale che chiedeva: "Emergency torna a Lashkar Gah dopo le accuse di collusione con il nemico, cosa ne pensate?". Così, senza dire chi avesse formulato quelle accuse e chi fosse il nemico. Mi sembrava di ascoltare la voce dello speaker dei cinegiornale d'epoca dell'istituto Luce». Il sondaggio, nonostante tutto, vedeva oltre l'80% dei partecipanti a favore dell'impresa di Emergency. Cecilia, se potesse, porterebbe tutti, giornalisti e politici, da quelle parti a mostrare loro il vero volto della guerra. Ma non può. Restano, soli, Peacereporter, Liberazione, qualche radio, il manifesto, a raccontare che i tre volontari stanno bene e sono pronti a ripartire. A raccontare che Emergency ha appena inaugurato un centro pediatrico nel sud del Darfur e che, a metà ottobre, aprirà un poliambulatorio a Marghera. «Sarà come quello che funziona già molto bene a Palermo - conclude Cecilia - fornirà assistenza di base ai migranti e a chi ne ha bisogno». Con Emergency, l'appuntamento più vicino l'incontro nazionale dei volontari, dal 7 al 12 settembre, a Firenze. Ci saranno parecchi dei duemila volontari attivi in Italia. In giro per il mondo ce ne sono un centinaio per turno oltre alle migliaia di locali. Solo in Afghanistan 850 famiglie lavorano per Emergency.

 

Francesco Ruggeri 

15/08/2010

 
 
 
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