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Rapporto annuale del Social Watch: analisi, testimonianze, proposte sulla situazione italiana

Post n°4372 pubblicato il 19 Febbraio 2011 da cile54

Povertà, salute, istruzione

  

Produrre ricchezza non basta a rendere più equa o migliore una società. I lunghi cascami della crisi cominciata con l'esplosione della bolla immobiliare statunitense alla fine del 2008 sono la dimostrazione pratica di questo assunto: proprio negli Usa la crescita del Pil continua ad essere positiva da mesi, eppure la disoccupazione non accenna quasi a calare. Non parliamo dell'India, del Brasile o della Cina, che in maniera diversa tra loro e nonostante una crescita spesso a due cifre, non hanno visto scomparire alcune piaghe della povertà, né hanno reso necessariamente più efficace il loro sistema di sicurezza sociale.

Per misurare il benessere sociale di una società, i suoi progressi annui, le organizzazioni internazionali elaborano da anni indicatori di sviluppo, ovvero gruppi di dati capaci di fotografare una realtà in maniera schematica e allo stesso tempo approfondita. Da molti anni il Social Watch - una rete internazionale di Ong, associazioni e centri studi presente in 61 Paesi - osserva il mondo con lo strumento degli indicatori di sviluppo e ogni anno pubblica un rapporto, ricco di tabelle e di analisi legate alle grandi questioni internazionali. Ieri a Roma la rete nazionale (Arci, Acli, Amnesty international, Wwf, Mani Tese, CRBM, Oxfam, Lunaria, Fondazione Responsabilità Etica) ha presentato la versione italiana del rapporto 2010 dal titolo "Dopo la caduta, un nuovo New Deal" riferito alla crisi economica che ha colpito il mondo negli ultimi due anni e alla necessità di investire pesanetemente in sviluppo sociale per uscirne. Il quadro complessivo fornito dal rapporto non è sconfortante per una ragione molto semplice: utilizzando indicatori di sviluppo classici quali il BCI (Basic Capabilities Index la percentuale di bambini che arriva a cinque anni, la scolarità di base e il numero di parti assistiti) scopriamo che grazie allo sviluppo di Paesi enormi come la Cina o il Brasile, i salti in avanti a livello mondiale ci sono eccome. Ma non sono nemmeno comparabili con quelli dell'economia (il tasso di crescita mondiale degli anni 2000 è del 19%, quello del BCI del 3%, in calo rispetto agli anni 90). Va poi ricordato che il rapporto è del 2010 e che quindi raccoglie spesso dati fermi al 2008, ovvero fotografa una tendenza, ma si ferma attorno o subito dopo l'esplodere della crisi. Non misurandone quindi l'impatto sulla società mondiale. In questo senso, Paesi con indicatori di sviluppo buoni, come l'Europa o gli Stati Uniti, potrebbero riservare brutte notizie nel rapporto dell'anno prossimo.

Altri indici e numeri analizzati dal Social Watch sono quelli relativi alle questioni di genere e alla spesa pubblica (per la sanità, l'istruzione in positivo, quella militare i negativo) e al cosiddetto APS, l'Aiuto pubblico allo sviluppo. Spendendo in maniera efficace in questi due segmenti, le autorità pubbliche determinano un avanzamento del benessere complessivo di una società e investendo in aiuto allo sviluppo producono miglioramenti fuori dai propri confini. Fino al 2008 l'APS ha conosciuto un discreto livello di aumento o è rimasta stabile, aveendo toccato un apice nel 2005. L'unico grande donatore che taglia i fondi è il Giappone in crisi economica cronica da quasi un decennio. I più bravi sono come al solito i nordeuropei, con svedesi e norvegesi che spendono più di tutti in percentuale sul Pil e tedeschi, che sono più grandi e ricchi, che spendono più di tutti in assoluto (dietro gli americani, che però in percentuale del Pil restano molto bassi). L'Italia fa schifo come sempre, visto che nel 2008 partiva da un misero 0,22% del Pil in Aiuto allo sviluppo e nel 2009 è passata allo 0,16%. Grazie alla generosità del ministro Tremonti siamo in controtendenza con i maggiori paesi europei, che nonostante i tagli alla spesa dovuti alla crisi hanno mantenuto o aumentato gli stanziamenti per la cooperazione internazionale. Le lacune della cooperazione italiana - tra l'altro - stanno avendo un impatto nefasto anche sulla tabella di marcia dell'Unione Europea, che non ha raggiunto il traguardo collettivo dello 0,56% entro il 2010 in buona parte per causa nostra. L'Italia è infatti responsabile del 40% dei fondi mancanti, ovvero di circa 4,4 miliardi di euro.

Per ogni indicatore il rapporto contiene numeri utili, classifiche dei Paesi e raffronti con gli anni precedenti. E' insomma un utile strumento di consultazione. Anche per capire dove si colloca l'Italia nel panorama mondiale. Male per l'occupazione giovanile, male per i tassi di povertà relativa. Male per la parità di genere. Se guardiamo poi alla partecipazione femminile al mercato del lavoro, alla vita pubblica e politica (l'indicatore si chiama GEI, Gender Equality Index), l'Italia è dietro tutti i Paesi avanzati meno l'antiquata Svizzera e insegue da lontano anche il Brasile, il Sud Africa, la Cina. Il tasso di inattività delle donne è del 13% sotto la media Ue e siamo al 56eismo posto per numero di elette. E la ragione, anche se questo sul Social Watch non c'è scritto, è più antica delle feste private di Silvio Berlusconi.

Martino Mazzonis

18/02/2011

 
 
 
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