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filo aperto con tutti coloro che s'interrogano sull'organizzazione politica della società e che sognano una democrazia sul modello della Grecia classica

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NULLA DI TROPPO

Post n°1084 pubblicato il 28 Febbraio 2024 da rteo1

NULLA DI TROPPO

 «Nulla di troppo» (μηδέν ἄγαν). È stato tramandato dalla storia della filosofia che questa frase era stata scritta sull'ingresso del tempio di Apollo a Delfi, così come l'altrettanta nota e più diffusamente citata «Conosci te stesso» (γνῶθι σεαυτόν). Tralasciando, per ora, quest'ultima, su cui si ritornerà successivamente, perché sono entrambe interconnesse, circa, invece, la prima (sintesi dell'esperienza, della saggezza e della "ragione" sempre contrastate dagli istinti atavici) si può senz'altro sostenere che il principio da essa espresso sia un parametro "assoluto" (nulla, quindi senza eccezioni), che se ben applicato potrebbe consentire di ridurre al minimo i conflitti sociali. Tuttavia se "nulla" (umanamente inteso in senso "assoluto") non lascia spazio a dubbi interpretativi e applicativi non altrettanto può dirsi in ordine a "troppo".

Infatti, quando può dirsi che qualcosa "è troppo" ?

Certamente esso non può assolutamente coincidere con "Tutto", che dovrà invece servire come parametro sociale da evitare ad ogni costo (come l'estremo opposto "niente", o "nulla"); inoltre, bisognerà aver ben chiaro che "troppo" non potrà mai essere quantificato dal punto di vista soggettivo perché tale giudizio risulterà sempre del tutto inadeguato, indeterminabile, insufficiente, perché ci saranno all'incirca otto miliardi di persone (quanti sono attualmente gli abitanti sulla terra) che avranno un proprio personale criterio per stabilire quando una cosa sia troppo e quando non lo sia. Così, ad es., una donna (occidentale) che ha almeno un centinaio di borse e altrettante paia di scarpe (pur essendo bipeda) riterrà che non siano troppe, mentre (forse) lo penserà colei che ne ha soltanto un paio; così (per par condicio) un uomo che ha decine di orologi da polso e centinaia di cravatte non penserà che siano "troppi" mentre lo penserà chi ha un solo orologio (o non ne ha affatto) e qualche cravatta.

Lo stesso dicasi per quanto concerne i patrimoni, sia immobiliari, che mobiliari e finanziari, perché di sicuro un capitalista, un industriale, un imprenditore, un banchiere, un alto dirigente pubblico o un capo di governo, non penserà mai di possedere "troppo" (anzi farà di tutto per aumentare ancora di più il suo patrimonio) diversamente da come penserà un povero, un operaio, un pensionato "al minimo", un disoccupato.

Il predetto parametro, perciò, per avere una qualche utilità sociale e politica non può essere soggettivo ma dovrà essere "oggettivo". Non vi è dubbio che anche quest'ultimo sia di difficile individuazione, soprattutto quando esso sia da connettere alle "cose umane" anziché ai fenomeni naturali. Questi ultimi, infatti, "interpretati" e "dimostrati" sperimentalmente non lasciano più dubbi perché, ad es., tutti sanno che "dopo il lampo si sente il tuono" dal momento che è ormai un dato scientifico acquisito (perciò oggettivo) che il lampo arriva prima perché "viaggia" alla velocità della luce (⁓300.000 Km/s) mentre il tuono giunge dopo perché si propaga alla velocità del suono (⁓1200 Km/h).

E allora non c'è alcun rimedio contro il "troppo" ?

Penso di si, anche se occorrerà ancora molto tempo, finché gli umani non riusciranno ad agire "secondo la giusta misura" (katà Métron, per gli antichi Greci) tenendo a freno gli istinti, la cupidigia e la voluttà (oggi condizionati ed esaltati dal capitalismo e dalle "leggi del libero mercato", per approdare all'"uomo nuovo" che dia anche rilevanza all'essenza spirituale del suo essere "corpo-pensiero" (e organismo biologico, soggetto alle forze chimico-fisiche), consapevole della sua transitorietà nel mondo. E così potrà rientrare in gioco la ricerca della "Verità", che gli umani hanno esiliato dalla propria vita, e avere un ruolo rilevante la c.d. "coscienza", il "giusto" e l'equo", sia in senso politico che etico, morale e religioso.

Intanto, comunque, in attesa che l'indole degli umani si evolva verso tali direzioni, che si potrebbero definire "umanitarie" (come anche auspicato nella Dichiarazione Universale dei diritti umani), è possibile fare ricorso allo strumento del "diritto", che è un rimedio politico in grado di "oggettivare" qualsiasi fatto o atto che concerna il consorzio umano (persino quando l'oggetto sia di "competenza" religiosa).

Il "diritto", perciò, può servire, per ora e in attesa di altro criterio conforme al "Vero" con cui sostituirlo, per stabilire quando una cosa sia "oggettivamente troppo".

A questo punto, però, si rende necessario fare qualche precisazione per evitare che si possa equivocare, ritenendo che il "diritto" sia in sé oggettivo. Niente è più falso, anche se esso sia diventato il "mito" delle civiltà contemporanee, soprattutto occidentali, che lo invocano quando è "utile allo scopo" e lo violano quando è di ostacolo (bastino ricordare le guerre senza preventivo mandato ONU sia in Iraq, per sostituire il Presidente Saddam Hussein, sia in Libia, per "abbattere" il Colonnello Gheddafi, nonché quelle in Kosovo e in Afghanistan; ma anche la strage del 1998 della funivia del Cermis, in cui perirono circa venti turisti italiani, rimasti senza "giustizia" perché gli USA si sono riservati il "diritto-potere" (giurisdizione) di processare i propri militari in servizio all'estero, perciò non fu possibile giudicare in Italia il pilota dell'aereo statunitense che, volando a bassa quota, in violazione dei regolamenti, aveva tranciato un cavo della linea teleferica; così come l'abbattimento nel 1980 dell'aereo di linea Itavia - "la strage di Ustica"-, in cui morirono 81 passeggeri, rimasto senza colpevoli per l'impossibilità di acquisire prove dagli "Stati alleati" (probabilmente coinvolti nella strage).

Il "diritto", perciò, è quantomai "relativo" ed è, come giustamente sottolineava E. Severino, la forma dell'espressione della volontà politica del potere dominante, cioè l'esternazione mediante "precetti" (gli antichi "oracoli" dei sacerdoti dei templi) da parte della forma di governo (ora) costituzionalizzata (Parlamento, se in democrazia, Consiglio o Senato, nell'oligarchia o aristocrazia, Re, nella monarchia, ovvero la loro combinazione, detta "forma mista", che è la più comune finora adottata rispetto alla "forma pura").

Il potere, quindi, come forza sovrana di "produrre diritto" per l'intera Comunità, è il vero oggetto della contesa tra le varie forze (politiche e non) esistenti nei diversi ordinamenti sociali. E tale "contesa", che si fonda sul conflitto tra le diverse "forze", spesso anche in modo estremo, che dà luogo anche a rivoluzioni o sovvertimenti statali ("golpe"), ha lo scopo ultimo di decidere in ordine alla distribuzione delle risorse economiche prodotte dalla collettività (ma anche per dividere i lavoratori tra "padroni" e "schiavi").

La "visione", pertanto, del "modello politico di società" da realizzare (di cittadini liberi o schiavi, di sudditi, di eguali o di ineguali, di ricchi o poveri, ecc.) costituisce, il più delle volte, soltanto un mezzo propagandistico per acquisire consensi elettorali e per mascherare la verità sostanziale, che è la brama per il potere (la forza) per gestire il c.d. PIL e l'intera ricchezza economica della Comunità. E per imporre tale potere (come forza, soprattutto di polizia, militare, economica, finanziaria e ora anche tecnologica) non soltanto all'interno del proprio ordinamento ma anche nei rapporti tra Stati sul piano internazionale.

In altri termini, tutte le dinamiche del mondo avvengono perché "nel sottosuolo della storia..." (per citare ancora E. Severino, che riferiva il "sottosuolo" al pensiero della storia della filosofia) si muovono le "Forze universali della natura" che "lavorano" (energia) per la trasformazione di tutte le cose, per far sì che le cose diventino continuamente altro rispetto a quello che sono; e ciò accade anche per l'uomo, che in ogni istante della vita diventa "altro", sia per effetto delle forze biologiche e chimico-fisiche interne che di quelle esterne, universali, che lo spingono ad uscire dal percorso dell'apparire in un processo incessante, infinito, di avvicendamenti tra le generazioni (e tra le specie).

La medesima dinamica del dover "diventare altro", secondo necessità, perciò di sistema, si riscontra anche nei frequenti conflitti armati tra gli Stati (come, ad es., quello in corso tra la Russia e l'Ucraina, sostenuta dalle "forze" degli Stati membri della NATO, che non è riuscita a contenere la propria volontà di espansione militare verso Est), che si dovranno avvicendare nel corso del tempo come potenze egemoniche (in questa fase "impera" ancora l'America ma è anch'essa destinata al tramonto, com'è accaduto già per tutte le altre potenze demolite dal vento della storia e ora oggetto di studio archeologico).

Le stesse forze "conflittuali" agiscono anche all'interno delle Comunità, nelle quali, però, lo scontro avviene essenzialmente per la conquista del potere, in generale, e di quello legislativo in particolare. Le "forze popolari" (da intendersi, però, correttamente, come "forze proletarie", un tempo coincidenti con la c.d. "plebe" contrapposta ai "Patrizi", e al demos che era altro rispetto agli aristocratici e agli oligarchi) prendono parte alla contesa e, a seconda di quanta forza riescano ad esprimere nel confronto tra le forze in campo, la "legislazione" che ne deriverà sarà più o meno favorevole ai bisogni delle fasce sociali emarginate, o meno protette.

Il principio del "primato della legge" (ora della Costituzione, peraltro in parte superata, ormai, dai Trattati dell'U.E. e dal c.d. "diritto  internazionale"), perciò, che costituisce comunque un buon traguardo raggiunto dalla civiltà giuridica, come anche la "certezza del diritto", vanno però sempre ben compresi mediante l'analisi di fondo (il "sottosuolo") di quali siano le reali dinamiche sociali, politiche e procedurali che consentano la "produzione delle leggi". Così, ad es., in Italia ove, stando all'art.1 della Costituzione, esiste una forma di Stato-governo "Repubblicano-democratico", il procedimento legislativo non è esclusivo del "Popolo" né dei suoi rappresentanti politici perché è sufficiente analizzare le categorie sociali e professionali cui appartengono i singoli parlamentari per capire quali interessi relativi siano tutelati in concreto;  inoltre, la legge può essere sottoposta al controllo di legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale composta di quindici membri nessuno dei quali è eletto direttamente dal Popolo. Ma l'insignificanza, o marginalità, del "Popolo", ossia del basso livello di democrazia, ben si coglie nella norma relativa all'iniziativa legislativa (art.71 della Costituzione) che così sancisce: «L'iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere e agli organi ed enti (nda: CNEL e Consigli regionali) ai quali sia conferita da legge costituzionale. Il Popolo esercita l'iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli" (senza che la "proposta" abbia, poi, una corsia preferenziale in Parlamento, neppure se, per ipotesi, fosse stata sottoscritta da tutti i circa 50.000.000 elettori); inoltre, ed è altrettanto grave sotto l'aspetto della democrazia, la possibilità prevista dall'art.75 della Costituzione di richiedere il "referendum popolare" che, al di là del numero minimo dei richiedenti (almeno 500.000 elettori), è limitata dall'orientamento della Corte costituzionale, competente ad esprimersi sull'ammissibilità della richiesta, di poter escludere anche i referendum su materie diverse da quelle tassativamente non ammesse dalla Carta costituzionale (leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali). 

È del tutto chiaro, perciò, che anche il "diritto" non sia "oggettivo in sé"; tuttavia esso può essere "oggettivato" (dichiarato oggettivo) mediante la volontà espressa dal legislatore con la c.d. Legge.

Trattasi, perciò, di una finzione politico-giuridica (in gergo, una "fictio iuris") che tuttavia può servire allo scopo. Anzi, deve "necessariamente" servire allo scopo perché fin'oggi, come correttamente sostenuto da A. Schiavone nel saggio "Jus: L'invenzione del diritto in occidente", non è stato ancora trovato alcun altro e diverso strumento (se si eccettua, ovviamente, l'impiego della forza, o la guerra, rimedi spesso adottati dalle istituzioni di governo, anche contro la volontà dei popoli) per regolare i rapporti umani, interpersonali o sociali, tra questi e le istituzioni e anche tra gli Stati.

Il "diritto", pertanto, quale mezzo per fissare "oggettivamente" un parametro per stabilire quando un cittadino, una categoria, una società, e persino uno Stato, possegga "troppo", in termini di beni economici, in primis, ma anche di "potere" (in particolare del potere di impiegare la "forza"), e rispetto alle cose (incluse le "persone", che non dovrebbero mai essere considerate "cose", anche se spesso accade, pure negli ordinamenti detti "civili"). Tra i diversi modelli politici di governo è "troppo", senza alcun dubbio, il potere riservato ai dittatori, che oggi abbondano nel mondo, alle "autocrazie", e persino nell'occidente "democratico" dove ci sono tendenze verso forme presidenziali (o premierati) che potrebbero involvere verso forme assimilabili a quelle monarchico-costituzionale (col rischio di rendere flessibili anche i limiti della durata e del numero dei mandati).

Le Costituzioni europee del dopoguerra hanno tutte (o quasi) tentato di risolvere il problema mediante la "separazione dei poteri dello Stato" (una sorta di "divisione delle forze", praticata sin dalle più remote tribù, come anche nelle successive civiltà, come quella Greca, durante la Repubblica aristocratica romana e nei tempi successivi, fino ad oggi).

La soluzione adottata, tuttavia, è comunque inevitabilmente sempre logorata e intaccata nel corso del tempo dalla dinamica conflittuale per la conquista della "supremazia" tra i poteri (le diverse "forze"), in particolare per potere avere un ruolo (anche interdittivo o di condizionamento) nella "produzione legislativa". Tutti i poteri, infatti, alla lunga "straripano" sia per tendenze fisiologiche (naturali, si potrebbe dire) sia perché il vero potere cui tutti (e ognuno) ambiscono è quello di "fare le leggi" (l'unico modo, oltre quello della forza bruta, per attribuirsi, o farsi riconoscere, dei privilegi).

Così il Governo, che (in democrazia) dovrebbe governare (come potere esecutivo) in base alle leggi approvate dal Parlamento, fa spesso uso dei disegni di legge e dei decreti legge e si avvale della sua maggioranza partitica in seno al Parlamento per "produrre leggi o leggi delegate" (che spesso non sono "generali e astratte", come un tempo si diceva, ma concrete, perchè perseguono interessi relativi, di parte).

Lo stesso avviene (come nei tempi attuali), tra le magistrature dell'ordine giudiziario e le diverse forze politiche, sia al governo che in Parlamento perché "l'ordine giudiziario" anziché applicare le leggi vuole diventare "parte attiva" nella "produzione legislativa" sia relativa al proprio Ordine (ad. es. nella decisione sulla separazione delle carriere tra la magistratura inquirente e quella giudicante, che secondo "ragione e libertà" devono essere necessariamente distinte, differenziate, perché il "Giudice" dev'essere terzo e neutrale e la parte che sostiene l'accusa - il P.M.- deve essere alla pari con la parte che difende l'imputato -avvocato-), sia per quanto concerne le scelte (che devono essere riservate alla sola politica) di quali fatti umani (fattispecie) debbano essere ritenuti reati, perseguiti e puniti con la reclusione.

Anche rispetto a tali "conflitti" perciò bisogna essere in grado di stabilire quando essi debordino rispetto al "troppo".

Di sicuro, comunque, "non è troppo" (secondo chi scrive, ovviamente) il "potere" che è stato riconosciuto al Popolo dalla vigente Costituzione che pur avendo fissato nell'art.1 il principio fondamentale che l'Italia è una "Repubblica democratica" ha, poi, nella stessa Carta posto in ombra l'attributo "democratico" della Repubblica tanto che nella formula del Giuramento non viene esplicitato (l'art.91, infatti, prevede che "Il Presidente della Repubblica, prima di assumere le sue funzioni, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica..." e, in modo analogo, sono strutturate le formule del giuramento del Governo, ai sensi dell'art.93, della Corte costituzionale, ai sensi dell'art.135, e per alcuni dipendenti pubblici, ai sensi dell'art.54); inoltre, non è stata attribuita alcuna priorità e importanza politica all'iniziativa legislativa popolare (art.71 Cost.), e, infine, si rileva che alla "democrazia" l'ordinamento statale non ha riconosciuto alcuna data solenne per celebrare la "Festa nazionale della democrazia" (che, volendolo, potrebbe coincidere col 25 Aprile, anche per superare le anacronistiche contrapposizioni partitiche), come invece è avvenuto con la "Festa della Repubblica" del 2 giugno.

Ovviamente non sono soltanto queste le discrepanze che si riscontrano nel vigente ordinamento, ma in questa sede, in cui si vuole riflettere su altro, può per ora bastare, e perciò bisogna ritornare al tema, in ordine al quale adesso occorre evidenziare che il problema del "troppo" ha, comunque, radici remote così come anche i rimedi ipotizzati per farvi fronte. Così Aristotele, nel suo saggio "Politica" (Politeia), consigliava di adottare sempre la soluzione della "via di mezzo", così come quest'ultima è per il Buddismo la strada per conseguire la felicità per sé e per gli altri. Anche i romani ne erano ben consapevoli e ne è prova la locuzione "in medio stat virtus"; così come anche la saggezza popolare italica, ormai in declino, come le nascite, ne esprimeva il concetto col proverbio "Il troppo stroppia".

La realtà, infatti, dimostra proprio l'esatto contrario, e ciò perché, come popolarmente si dice: "tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare".

E perché ? Perché homo sapiens è fatto così ! È la sua natura chimico-fisica e biologica, soggetta alle forze universali, che lo inducono a manifestarsi così com'è mentre diventa continuamente altro "strappandosi" da sé, perché il conflitto, l'agonia, è  prima di tutto in sé stesso. Forse si può eccettuare soltanto la fase dell'origine del primo "nucleo genitoriale" che ha dato alla luce la propria discendenza, come specie umana. Se infatti i "genitori" (ossia coloro che "generarono" la prole) avessero riservato per sé "troppo", in termini di risorse alimentari, probabilmente avrebbero causato la morte per fame della loro "filiazione". È "ragionevole" ritenere, perciò, che almeno ab origine (seppur per esigenze "egoistiche" della stirpe e della specie) non vi fosse alcuno spazio per il "troppo" nell'ambito del "nucleo familiare".

Stando, allora, così le cose (secondo la c.d. "ragione") come mai il passaggio dal "nucleo" alla società organizzata da "homo sapiens" ha spesso concesso enorme spazio al "troppo" ?

Le spiegazioni, ovviamente, possono essere diverse e molteplici. Un ruolo rilevante lo ha avuto sicuramente il riconoscimento (senza limiti invalicabili, il "troppo") della "proprietà privata" dei beni come potere assoluto (il c.d. "diritto reale") sulle cose, e di ciò ne era ben convinto J.J.Rousseau che ben lo mise in risalto nel suo saggio "Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini".

Hanno avuto, però, un ruolo centrale anche le cc.dd. "istituzioni" che da "ruoli" socio-politici affidati all'interno delle Comunità, per dirimere i conflitti secondo il "giusto" (e impedire il "troppo") nell'interesse generale, sono progressivamente diventate nel tempo dei "poteri a sé", distaccati e distanti dal contesto sociale, fino ad assurgere, in alcuni ordinamenti, a veri e propri "sostituti" delle Divinità, con propri "templi", dotate del potere di pronunciare "oracoli", e così il "giusto" a volte è stato confuso con "l'ingiusto" perché le decisioni sono state spesso condizionate dagli interessi delle stesse istituzioni.

Sullo sfondo, però, c'è stata comunque sempre la "natura" con l'azione delle forze in perenne conflitto, e quelle relative ad homo sapiens e a tutte le altre specie viventi.

La "natura", infatti, si organizza e si manifesta (a quanto pare) mediante un "dualismo" intrinsecamente "conflittuale" (anche a livello di ogni singolo individuo, in cui agiscono le forze contrapposte che lo trasformano, nel corso della vita, lo fanno diventare diverso, lo spingono a diventare "altro").

Tale "dualismo" (come l'energia e la materia) sembra essere necessario alle esigenze della "natura" perché esso costituisce il motore che rende dinamico il divenire del mondo e dell'intero universo. Così, a causa sua, infatti, tutte le cose escono (appaiono, si manifestano come enti eterni secondo E. Severino) da dove esse hanno origine (dall'Essere, dall'Uno), come sosteneva Anassimando, ed entrano nello spazio-tempo, dal quale, poi, escono (scompaiono, ma senza andare nel "nulla", come alcuni sostengono, perché tutte le cose - uomini inclusi - sono "enti eterni") per ritornare infine dove hanno avuto origine. Se questo, però, è "il destino" secondo "necessità" ("natura"), tuttavia non si può escludere, in assoluto, che esso possa essere "governato", mitigato, dalla "ragione", come riteneva Schopenhauer, convinto che fosse possibile gestire la "volontà di potenza della vita" (con la c.d. "noluntas").

Non vi è dubbio che sia la "volontà della specie" (e le forze universali) a governare tutte le scelte degli umani, ma la consapevolezza (almeno della parte che ama la conoscenza) che le cose stiano così può aiutare ad attenuarne gli effetti. E che ciò sia possibile ben lo dimostrano i comportamenti di tutti coloro che all'uso della forza e della violenza contro gli altri prediligono, invece, la strada della mediazione, della ragione.

Gli omicidi, infatti, i femminicidi, e altri "delitti", avvengono perché non è stata utilizzata la "forza della ragione" per domare le forze in sé stessi che esaltano il proprio istinto primordiale. Tutti gli uomini (nessuno escluso), perciò, sono contestualmente dei potenziali "criminali" e dei "santi" e la differenza la fa soltanto la "noluntas", ossia la (contro)forza autoesercitata su sé stessi per scegliere il c.d. "bene" collettivo anziché il c.d. "male". Perciò il "buono" per natura non esiste, se non come categoria etico-morale e religiosa, e quando qualcuno si trovi socialmente dalla "parte giusta" è solo perché egli è entrato a far parte di tali forze sociali rispetto alle altre forze, che a volte le regole della società definiscono "illegali".

Molti anni fa fu scoperto nella foresta tropicale un uomo che da bambino era stato allevato dalle scimmie (come il famoso Tarzan del film) di cui aveva appreso il linguaggio e le regole di vita. Era perciò un "umano" nella forma ma una "scimmia" dal punto di vista culturale, sociale. Perciò si può senz'altro ritenere che se il figlio di un Re venga fatto crescere e vivere nelle banlieu francesi (o nei ghetti, nelle favelas, di molti quartieri disagiati e affamati, anche di città civilizzate europee) egli non si comporterà come un "principe ereditario" bensì come un abitante delle "banlieu", salvo che faccia forza su stesso per essere diverso da ciò che è indotto ad essere dal conteso socio-economico in cui si trova inserito. Di contro, un nato nelle banlieu (o nelle periferie degradate delle città) se fatto crescere in famiglie benestanti avrebbe elevate possibilità di affermarsi nella vita e di poter diventare un cittadino esemplare. Sono, questi, dei dati esperienziali difficilmente confutabili, valevoli per tutti, nessuno escluso.

La società, però, ovvero l'èlite dominante, che ha interesse a difendere "l'ordine sociale costituito" (nel senso dei privilegi acquisiti), vuole invece affermare l'opinione che non sia così, come un tempo era convinto Lombroso, che catalogava gli uomini in base alla fisiognomica, la quale, oggi, forse avrebbe consentito di classificare come socialmente pericolosi anche alcuni politici, ministri, giuristi e uomini ritenuti dabbene.

La "realtà", invece, è quella che deriva dal "gioco" conflittuale tra le diverse forze universali, la biologia e la chimica e la fisica degli organismi viventi, pertanto anche le dinamiche degli umani dovranno essere viste e interpretate con le stesse regole. Fermo restando che gli umani hanno avuto il dono della conoscenza che potrà servire a mitigare tutti i conflitti socio-politici, sia a livello nazionale che internazionale. E in quest'ottica risulta essere quanto mai necessario formare anche una coscienza collettiva in ordine al "troppo" perché questo è certamente la causa della malattia di tutti gli ordinamenti politici e costituzionali.

La soluzione, perciò, inevitabile, per diventare "umani" non può che essere quella di adottare il principio generale di "nulla di troppo", con buona pace di tutti. 

 
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CHI SONO, DA DOVE VENGO, DOVE VADO

Post n°1083 pubblicato il 09 Gennaio 2024 da rteo1

CHI SONO, DA DOVE VENGO, DOVE VADO

Tutti nella vita si chiedono "chi sono, da dove vengo, dove vado ?". Anche coloro che sembrano interessati soltanto a soddisfare i propri bisogni corporali. Pure costoro, infatti, ad un certo punto della loro esistenza si pongono le medesime domande, anche se a prevalere siano comunque i sensi  e i desideri materiali, almeno finché non giunga "l'ora fatale" che li sospinge nell'angoscia più drammatica, soprattutto perché dovranno staccarsi dal proprio patrimonio materiale e dall'IO, di cui si sono narcisamente e follemente innamorati, come sostiene la psicoanalisi. Ebbene, per conoscere le risposte occorre liberarsi dalle catene culturali, sociali, religiose e giuridiche che tengono gli uomini prigionieri con l'illusione di essere "liberi", anche a causa dell'attuale mito dei "diritti". Occorre, perciò, svuotare la mente da tutte le strutture e sovrastrutture istituzionali, politiche, dalle tradizioni, gli usi, i costumi e i modi di vivere che rinnovano e tramandano i miti e i riti delle remote civiltà ruprestri e di quelle "classiche", fino all'età contemporanea. Soltanto così, infatti, è possibile essere "in rete", in "risonanza di fase" col mondo e con le "fluttuazioni del vuoto quantistico" dove esistono le risposte a tutte le domande. Basta solo essere interessati a conoscere la "Verità" perché, come diceva E. Severino, "Noi siamo già nella verità". "Chi sono", allora ? C'è stato un tempo in cui si usava dire "Lei non sa chi sono io!", come si narrava in un saggio degli anni '70, quando accadeva spesso che alcune cc.dd. "autorità" reagivano con tale espressione nei confronti della polizia locale o stradale quando venivano censurati o multati per aver violato il codice della strada. L'abitudine, comunque, non è stata mai del tutto cancellata dai costumi sociali, anche se oggi il c.d. "senso civico democratico" impedisce, o limita, tali esternazioni. Permane, tuttavia, in ogni c.d. "autorità", quantomeno sul piano psicologico, la convinzione di "essere speciale" rispetto alla massa dei "comuni mortali" perché si ritiene che la "carica", il "ruolo", la "funzione" (ma anche la professione, l'arte, il mestiere) esercitati nella Comunità siano la "reale" e oggettiva identità della persona fisica, e così, con tale errata convinzione, si usa attribuire a ciascuno una "identità sociale" (ora anche "digitale") confondendo l'essere umano, in quanto tale, con la sua inevitabile "recita sociale" (da"attore" o comparsa), che ha "accettato" o gli è stata "assegnata", spesso in distonia con le sue vocazioni e i suoi talenti naturali. Ad ogni buon conto, non vi è dubbio che "essere speciale", o ritenere di esserlo, per effetto dell'attività svolta o della carica rivestita, non può comunque eliminare il dubbio o il conflitto con sé stessi su "chi si è" realmente. Neppure quando la soluzione, la risposta, si rinvenga in una norma legislativa o costituzionale, così com'era previsto dall'art.4 dello Statuto Albertino del 1848 in virtù del quale «La persona del Re è sacra ed inviolabile», perché una "legge umana" non può mutare la natura, ciò che si è biologicamente, fisiologicamente, chimicamente e anche ontologicamente. Soprattutto quando una tale "sacralizzazione" riguardi una singola persona (neanche quando rivesta il ruolo politico del "Re") e non invece la "persona in sé" (e perciò qualunque essere umano), che tuttavia sarebbe comunque da evitare perché il "sacro", come sostiene U. Galimberti, si colloca nello spazio dell'indifferenziato, dell'Assoluto, delle "Divinità", le quali, per convenzione, sono ritenute "onnipotenti", immortali; mentre invece l'uomo è mortale, perciò non può essere mai identificato con le "divinità", "sacralizzato" e venerato, né prima, né durante e neppure dopo la sua fine terrena. Purtroppo, però, la storia umana sin dai primordi non riesce a fare a meno dei miti e dei simboli e così di frequente "divinizza" i Re, i Faraoni, i Basileus, gli eroi, i governanti, gli imperatori (l'immagine - la odierna foto - di Augusto era esposta in tutti i luoghi pubblici, gli erano dedicate delle edicole votive e i sacerdoti celebravano riti religiosi in suo onore), e persino i legislatori (Plutarco, nelle Vite parallele di Numa e Licurgo riferisce che anche quest'ultimo, quale legislatore di Sparta, era stato definito dall'oracolo di Delfi «dio piuttosto che uomo», che gli fu "consacrato un tempio" e "gli dedicavano sacrifici ogni anno come a un dio"). Eppure l'uomo deve decidersi a superare sé stesso, quale ponte con la scimmia, secondo Nietzsche, e trasformarsi in "superuomo" per accettare con serenità la transitorietà della sua forma corporale e valorizzare "l'uguaglianza nella diversità" (o la "diversità nell'uguaglianza"). Va infatti compreso che l'essere "diversi", ovvero "singolari" nelle molteplici e infinite forme, costituisce l'espressione della manifestazione fenomenica della "Suprema volontà di potenza" universale la quale travalica tutti i limiti umani (e ciò è anche un bene, se si pensi a come sarebbe stato "monotono" avere tutti la stessa forma, gli stessi "talenti", vizi e interessi). E, rispetto alla stessa "Suprema Volontà", va, altresì, capito che l'uguaglianza è imprescindibile dalla molteplicità, dalla diversità (finanche i genitori, quando "equilibrati", non riescono a trattare in modo diseguale i propri figli, pur se questi siano tra di loro diversi, come spesso accade). I concetti di "uguaglianza", perciò, e di "diseguaglianza", che si riscontrano in seno ai consorzi umani, sono soltanto il frutto, rispettivamente, della sapienza (merce rara) e dell'arbitrio delle forze politiche, sociali e dei legislatori. È un assurdo naturale, perciò, voler "catalogare" e raggruppare per categorie, aree geografiche, tutti i popoli e gli esseri umani plasmandoli e deformandoli secondo modelli politici generali da parte dei "governatori di turno" alla guida di una Comunità. Gli uomini sono tutti "singolarmente diversi" tra di loro perché così essi devono essere. Non possono essere altro, infatti, rispetto a come vuole la "necessità" (o il Destino, inteso come ciò che sta, l'esser sé di ogni singola cosa), anche se lo volessero; neppure quando essi si trasformano durante il divenire cambiando "sagoma", perché altrimenti si porrebbero contro la natura, in opposizione col "disegno" di quest'ultima (che, secondo chi scrive, ha "senso in sé" essendo la natura la manifestazione dell'Uno nel Molteplice). Perciò, ad es., "l'agricoltore" quando ha la vocazione per la coltivazione della terra e la raccolta dei prodotti, realizza il suo essere, analogamente a colui che si sente spinto (o attratto) verso l'esercizio della funzione pubblica (da intendersi, quest'ultima, come attività nell'interesse generale). Né il primo (l'agricoltore), né il secondo (il politico), perciò, è "migliore" dell'altro (come spesso, invece, sanciscono i "legislatori" senza poter fondare le loro decretazioni su principi e valori assoluti) ma entrambi sono "uguali nella diversità" (o diversi nell'eguaglianza) sia come "uomini sapienti" che come "uomini del fare". E la loro "parità" (uguaglianza) nella molteplicità (diversità) è certamente un "bene" perché nessuna "Comunità" potrebbe esistere se tutti avessero la medesima vocazione a svolgere la stessa attività di agricoltore o di politico (basta immaginare che cosa accadrebbe se tutti -o quasi- svolgessero la funzione di legislatori e di funzionari incaricati di controllare e attuare le disposizioni delle leggi, come purtroppo sta ormai avvenendo, anche a livello nazionale ed europeo). Ecco, allora, perché qualunque legislazione umana (anche se "costituzionalizzata") che discrimini tra diverse attività, ruoli e funzioni in rapporto alla distribuzione delle risorse prodotte dalla Comunità, costituisce un "libero arbitrio", una violenza "all'esser sé" di ogni cosa. Certamente ci vorrà molto tempo ancora, prima che si riesca a cogliere "il senso in sé" del Molteplice (la diversità, così come si manifesta in natura mediante infinite forme) e dell'Uno (l'uguaglianza), ma la natura non ha fretta. La terra ha "soltanto" quattro miliardi e mezzo di anni ed è a circa la metà del suo ciclo vitale. Essa può aspettare, mentre continua incessante i suoi moti di rotazione a 1600 Km/h e di rivoluzione a circa 105.000 Km/h. L'uomo forse no, perché ha uno spazio-tempo sicuramente più breve (e non soltanto come lasso di tempo tra le generazioni ma come specie umana). Perciò è quanto mai "urgente" che l'uomo inizi a superare sé stesso; a liberarsi dalla schiavitù del corpo (che è una forma effimera) per comprendere che l'anelata eternità è "in sé stesso"; che non la deve acquisire altrove né la può perdere perché la sua "matrice quantica" è "eterna" e alla fine del ciclo è destinato (come ogni cosa) a ritornare all'origine, ove l'energia e le informazioni sono "eterne", come tutte le particelle atomiche e subatomiche (onde-particelle) che costituiscono il corpo umano, o di cui quest'ultimo fruisce, come ad es. l'ossigeno per respirare e l'acqua per bere (l'ossigeno respirato da Socrate, così come l'acqua da lui bevuta, non hanno cessato di esistere ma sono entrate in altre forme e processi vitali). Soltanto la "forma umana", perciò, è transitoria, così come tutte le altre "forme" esistenti, mentre sono eterni tutti i suoi composti, che andranno a costituire, all'infinito e in eterno, altre e diverse "forme". Ed è proprio questo il "gioco" dell'universo, nel quale nulla può mai ritornare ad essere, nella forma, uguale a prima; ed è anche il miglior modo per realizzare il "principio di eguaglianza universale". Le società contemporanee, grazie alle numerose scoperte scientifiche e al prezzo pagato con la vita da eroici filosofi e intellettuali (come, ad es, Giordano Bruno), hanno finalmente acquisito la consapevolezza che tutti gli esseri umani sono anche biologicamente, chimicamente e fisiologicamente uguali (o simili). Il corpo di tutti gli umani è infatti composto dagli stessi atomi di idrogeno, carbonio, azoto, ossigeno, calcio, fosforo, ecc., e tali atomi sono gli stessi che costituiscono l'intero universo, nel quale tutto si ri-mescola per organizzare sempre nuove forme in un "divenire" in perenne trasformazione. La "materia" è soltanto una minima parte dell'universo e il corpo umano è costituito per il novantanove per cento da molecole di acqua (Hidrogeno e Ossigeno), tra di loro in risonanza e, nel divenire dello spazio-tempo, anche in dissonanza per consentire la disgregazione delle molecole e il disfacimento degli organismi per dare origine a nuove forme dell'eterno ciclo. È quest'ultimo - il "ciclo"-, quindi, che in senso "evolutivo" sta a fondamento della disciplina e del cambiamento del mondo e dell'intero universo. Sono cicliche, perciò, tutte le "forme" viventi (tra cui, oggi, anche gli esseri umani) e "non viventi" (secondo la classificazione umana, che tuttavia non può escludere in assoluto "la vita in sé" di ogni singolo atomo o di ogni "particella quantica"). Anche le galassie attuali sono il prodotto di precedenti galassie che si sono "estinte" alla fine del loro ciclo per dare ingresso a "nuove forme" di stelle, di galassie e organismi vari; così come avverrà per il nostro sole tra circa 10-15 miliardi di anni e per la terra tra circa 5-10 miliardi, e come sta accadendo sulla terra alla specie homo sapiens della quale si sono finora avvicendati circa 110 miliardi di umani. Durante il "ciclo" tutto si "ri-mescola"; anche i "geni" dei cromosomi umani, che annoverano geni provenienti dai virus e dai batteri che hanno "colonizzato" il corpo umano e altre specie viventi. Eppure tutto ciò, ben compreso grazie alla scienza e alla tecnologia, che lavorano per "liberare l'uomo" dai suoi pregiudizi, sembra non bastare ancora, visto che gli umani continuano a perseverare nel vizio di ritenere qualche uomo, loro simile, "in odore di Divinità" a cui trasferire anche le proprie libertà e dignità. E così gli umani si lasciano anche trascinare dagli Stati-apparati in stupide quanto inutili guerre per il primato egemonico e il piacere distruttivo mentre sarebbe utile cooperare prima del termine del proprio "ciclo politico", che ha inizio quando una civiltà diventa egemone, per migliorare le condizioni di vita individuali, collettive e globali, così come avviene in ogni organismo complesso (com'è la specie umana nel suo insieme), evitando di estremizzare la "competizione" e valorizzare la "partecipazione"; inoltre, occorre contrastare l'iniqua distribuzione delle ricchezze che fa vivere di stenti e privazioni una gran massa di esseri umani, sia a livello nazionale che internazionale; ed è altresì necessario che gli emarginati, gli sfruttati, gli schiavizzati, si chiedano se valga la pena condurre una tale "vita terrena" e di trasmetterla in successione ai propri figli (a causa dell'aberrante "rigidità delle classi sociali"), visto che è inevitabile la fine del ciclo vitale e che nessuna "forma umana" è speciale, né dura in eterno. È perciò indispensabile che ognuno si ponga la domanda: chi sono ? Al riguardo, va detto, anzitutto, che "non si è ciò che si fa" (esercitare un'arte, un ruolo, una professione o essere  titolare di una funzione non fa essere l'uomo ciò che fa). Identificare, perciò, l'uomo con ciò che fa in società, con l'attività che svolge, è una pura aberrazione culturale. E per capirlo basta pensare anche ai riti di carnevale. L. Pirandello narrava che il suo personaggio scopriva di essere "Uno, Nessuno e Centomila". L'uomo, però, è anche un organismo biologico che, come una "macchina", compie processi chimico-fisici di trasformazione della natura. Sul piano della psiche, invece, l'uomo è caratterizzato (secondo la tripatizione freudiana) dalla coabitazione della parte "razionale", conscia, dell'Io, e la parte inconscia, del "Super Io" e dell'Es. L'Io svolge un ruolo di mediazione in precario equilibrio perchè deve costantemente gestire sia i precetti imposti dall'esterno dal super Io, sia la parte irrazionale, che è sede della "follia", la quale spesso diventa la "condizione normale" degli esseri umani. L'uomo si trova, così, ad essere in "relazione" sia con l'esterno che con la propria psiche, nella quale l'Io coabita con "altri" (anche con l'esigenza della specie, che prima lo spinge alla riproduzione e poi lo sopprime, a circa 85 anni di età). E lo stesso avviene rispetto all'esterno, per la presenza degli "altri", diversi nelle forme ma uguali biologicamente, chimicamente, fisicamente, ecc.. L'uomo, perciò, è sempre in "relazione", sia all'interno che all'esterno di sé stesso. È patologico, perciò, dire "IO" anziché "NOI", e se lo dice un politico significa che ha manìe da dittatore. L'uomo e "l'Io" non possono esistere senza "l'altro" perché l'intero universo è "relazione". E ogni cosa e ognuno è "forma" dello spazio-tempo in cui si entra (nascita) e dal quale si esce (morte) perché si è partecipi del ciclo necessario ed inevitabile dell'eterno infinito, del molteplice e dell'Assoluto. Nulla, perciò, può manifestarsi due volte con la stessa forma durante l'intero ciclo (il bambino, l'adolescente, l'adulto, il vecchio) perché bisogna entrare in altre "forme" dell'infinito che in eterno tutto trasforma. E così si potrà anche dare la risposta al perché "in vita" si provi "dolore" (ma anche "piacere", a volte), pur essendo energia-materia in eterna trasformazione, perché si comprenderà che sia il dolore che il piacere appartengono soltanto alla "vita" che si manifesta nello spazio-tempo, che è finito. È, perciò, l'ingresso nella "vita" che "provoca" dolore e sensazioni. Così come l'uscita dalla "vita", soprattutto quando ci si è "innamorati" della propria forma corporale e non ci si è preparati ad entrare in una "nuova forma", in un'altra dimensione, dove forse dimora l'anelata "felicità". Nell'Assoluto, invece, non esistono dolore o piacere; e neppure lo spazio e il tempo, né la vita e la morte, e neanche l'uomo. Ivi tutto è eterno, come i costituenti delle forme umane che parteciperanno ad aggregare e disaggregare altre forme nell'eterno infinito. E bisogna accettarlo senza alcuna necessità di dover distruggere i "templi", come nichilisticamente sta ora avvenendo, perché essi possono servire come "luogo dell'incontro del sé con l'Altro". Chi sono, allora ? Nel mondo materiale, un organismo biologico e psicologico complesso, che tuttavia non può sottrarsi al suo "Destino" (essere ciò che è stato "destinato" ad essere); che è singolarmente diverso nella forma ma uguale nella sostanza a tutti gli altri organismi esistenti in natura, con i quali è in relazione nella rete dell'universo. E da ciò deriva, in ordine alle domande iniziali "da dove vengo" e "dove vado", che vengo dall'Infinito ! dall'Eterno, dall'Immutabile, dall'Indeterminato e Indifferenziato. Dal Tutto ! Ed è lì che vado, perché tutto lì deve ritornare per ricominciare il ciclo delle infinite forme degli eterni, in coerenza con le leggi di conservazione dell'energia e della massa secondo cui "Nulla si crea, né si distrugge ma tutto si trasforma". E allora, stando così le cose (come sembra), non risulta assolutamente sensato continuare a "divinizzare" qualunque essere umano e prendere atto che l'uomo e l'io sono un "Noi" in relazione con gli altri e che ogni cosa e tutto sono soltanto delle "forme" provvisorie e transitorie nell'eterno e infinito ciclo della materia e dell'energia che costituiscono l'intero universo.

 
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UN CITTADINO DEMOCRATICO IN "USCITA" DAL TERZO MILLENNIO

Post n°1080 pubblicato il 10 Ottobre 2023 da rteo1
Foto di rteo1

https://www.ibs.it/cittadino-democratico-in-uscita-dal-libro-teodoro-russo/e/9791222801568 

 

https://reader.ilmiolibro.kataweb.it/v/1302533/un-cittadino-democratico-in-uscita-dal-terzo-millennio_1325334

 

https://www.lafeltrinelli.it/cittadino-democratico-in-uscita-dal-libro-teodoro-russo/e/9791222801568?queryId=9d2f6dc3b6c8054ffb09319eb14206be 

 
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DEMOCRAZIA ETICA E GIUSTIZIA SOCIALE DISTRIBUTIVA

Post n°1078 pubblicato il 11 Settembre 2023 da rteo1

DEMOCRAZIA ETICA E GIUSTIZIA SOCIALE DISTRIBUTIVA

Credo che la "democrazia" tra i tanti benefici, relativamente al ruolo politico del c.d. "Popolo", abbia prodotto anche l'effetto di riconoscere ai cittadini il diritto di "pensare" e di esprimere (più o meno) liberamente il proprio pensiero. Ovviamente questo non è tutto, perché al di là del "cogito ergo sum" di Cartesio, gli uomini hanno anche un "corpo" che reclama di "essere alimentato" per poter agire, lavorare, produrre, e non solo consentire il "cogitare". Per questi motivi, da molto tempo, ormai, tra i diversi argomenti che impegnano l'agone politico vi è sicuramente quello relativo alla distribuzione delle ricchezze nell'ambito della società. Va evidenziato che le modalità di riparto della ricchezza sono strettamente collegate alla forma di Stato e di governo. In una monarchia, ad es. di tipo assoluto, come era quella di Luigi XIV, Re di Francia, che si identificava con lo Stato (l'état se moi, come diceva), tutte le ricchezze appartenevano al Re, come anche i sudditi. Lo Stato, quindi, era "patrimonio" del Re e, pertanto, passava in successione dinastica come "bene ereditario". Ma anche le più moderne "monarchie" con i Re, dette "costituzionali" o "democratiche", come ad es. quella inglese (ma anche Spagnola, Belga, Svedese, Danese, Norvegese...) pur non essendo più "proprietarie dei regni" (Stati) tuttavia godono del privilegio di un "sostanzioso appannaggio" economico-patrimoniale a carico dei sudditi (i quali, formalmente, sono altro, rispetto ai cittadini perché hanno il "dovere" dell'inchino e della riverenza, tipici atti di sottomissione, psicofisica e morale e non di pura e libera "cortesia") e partecipano, altresì, al Governo dello Stato con funzioni più o meno intrecciate con le procedure del potere legislativo ed esecutivo. Diversamente, invece, avviene nella c.d. "democrazia" (nella forma moderna di "Repubblica democratica"), nella quale il destinatario delle ricchezze prodotte dalla Comunità è il Popolo (in realtà solo una parte, purtroppo, come si evidenzierà in seguito) che è anche definito dalla Costituzione (art.1) come "Sovrano" della Repubblica (mentre, ex art.87, co.1, della Carta, il "Capo dello Stato" è il Presidente della Repubblica). Infine, nell'oligarchia (forma di governo risultante dai modelli platonici e aristotelici) sono soprattutto gli "oligarchi", ossia l'élite dominante al potere, ad accaparrarsi la maggior parte delle risorse. Vi è, pertanto, una correlazione tra le forme di Stato e di governo innanzi menzionate e la "ripartizione delle risorse" prodotte dalla Comunità; tale correlazione perciò può ben essere presa come riferimento per dedurne quanta "democrazia" è entrata a far parte della Repubblica-democratica, nella Monarchia-democratica o nell'oligarchia. Trattasi, in altri termini, di  un metodo di analisi "sostanziale", più reale e veritiero rispetto al modello costituzionalizzato che fa uso di formule teoriche, retoriche e di simboli sacralizzati. Per fare un esempio concreto richiamiamo l'art.1 della Costituzione italiana che, come noto, sancisce: "L'Italia è una Repubblica democratica..." e che "La sovranità appartiene al Popolo....". L'Italia, quindi, non è - formalmente - una monarchia né una oligarchia, ma è una "democrazia" (innestata nella forma repubblicana che riconosce la "Sovranità" al Popolo) pertanto, in ordine alla distribuzione delle ricchezze, se fosse vero il "principio fondamentale della Costituzione", si dovrebbe riscontrare "nei fatti" che il "Popolo" (ossia, in senso lato, tutti i cittadini, nessuno escluso) sia il beneficiario (goda, fruisca) di tutte le risorse (mobili, immobili e opere intellettuali) prodotte dall'intera Comunità. E inoltre, trattandosi di democrazia, che, a differenza degli altri regimi di governo, si fonda sul principio politico-giuridico ed etico dell'eguaglianza dei cittadini (parità tra cittadini, in senso reale, concreto, orizzontale, e non soltanto in senso formale "dinanzi alla legge"), la richezza dovrebbe risultare "equamente distribuita" (secondo eguaglianza e giustizia sociale). Vediamo, allora, se è proprio così. Dai dati ufficiali (al 2019, ma tuttora validi in termini percentuali) si rileva che la "torta della ricchezza" (l'intero "patrimonio" delle famiglie italiane) è stata stimata in circa 9.297 miliardi di euro, con il 20% più ricco che possiede quasi il 70% della ricchezza nazionale; un altro 20% detiene il 17% circa della ricchezza e il restante 60% dei cittadini possiede solo il 13,3% (ai margini dei quali si trovano circa 5.000.000 di cc.dd. "poveri assoluti" nonché 5.000.000 di cc.dd. "poveri relativi"). È di tutta evidenza, dai dati che precedono, che in Italia, dal punto di vista della distribuzione delle risorse, esiste una oligarchia (da oligos, pochi) che ha un ruolo "idrovoro" ed "energivoro" "nell'accaparramento" delle ricchezze (circa il 70%) mentre la "democrazia" (ossia il 60% del "popolo") ha soltanto una parte marginale (partecipa al riparto della ricchezza solo per il residuo 13,3 %), con oltre 5.000.000 di "cittadini" privati, o limitati, delle risorse, della dignità e dei diritti umani. Eppure si continua a ripetere, senza alcuna esistazione, senza alcun disagio morale, né etico, religioso o sociale che in Italia c'è la "democrazia", così come ci sarebbe in tutti gli altri Stati europei e nell'intero occidente capeggiato dall'America. Invece, stando ai predetti dati statistici, bisognerebbe dire che c'è soltanto una "quota di democrazia". Ed è così in tutto l'occidente, sia negli Stati repubblicani che nelle monarchie con i Re (che in Europa costituiscono la maggioranza), nel quale la democrazia è soltanto una "quota", una ""frazione", che concorre con le élites oligarchiche e monocratiche nel governo degli Stati e alla distribuzione delle risorse. È questa, quindi, la realtà che emerge dall'analisi del "riparto della ricchezza" nei diversi modelli di Stato e di  governo europei e occidentali. Non basta dire, perciò, che uno Stato è democratico ma bisogna chiedersi anche "quanto" lo sia, non solo nella forma (art.3 della Cost.: Tutti i cittadini sono eguali...) ma anche e soprattutto nella "sostanza" (quanti cittadini partecipano e quanti sono esclusi dalla distribuzione delle risorse). La già citata Costituzione italiana al comma 2 dell'art.1 sancisce che "La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione". Non vi è dubbio che in virtù di tale prescrizione si abbia voluto, politicamente e istituzionalmente, limitare l'esercizio diretto della volontà popolare, sia in ordine al potere legislativo (approvare le leggi, iniziativa legislativa e referendaria vincolanti, ecc.) sia nell'attribuzione delle diverse cariche statali (il Popolo, oggi, non elegge direttamente il PDR, né il "Capo del Governo", né i Giudici della Corte costituzionale, e neanche le supreme cariche delle altre magistrature, come, invece, avveniva, ad es., nella democrazia ateniese ove l'Assemblea era costituita dal popolo, come anche  i tribunali, i cui giudici, peraltro, erano scelti tra la "classe dei più poveri", i Teti, mediante estrazione a sorte, e la funzione aveva una durata annuale). È del tutto evidente, perciò, che nell'ordinamento italiano, sul piano "sostanziale", la "democrazia" coesiste con una sorta di "oligarchia" (l'élite) e che si rinviene anche un ruolo apicale "monarchico" (mònos, uno solo), com'è quello del "Capo dello Stato" (il PdR), al quale sono riservate risorse e privilegi. Trattasi, perciò, di una "formula" politico-costituzionale riconducibile a quella definita "mista" da Aristotele, il quale la riteneva, tuttavia, come la più equilibrata possibile perché in grado di dare maggiore stabilità alla Polis. Oggi, però, agli albori del terzio millennio, sebbene vi siano tendenze geopolitiche egemoniche di alcuni Stati atte a riportare indietro "l'orologio della storia" e l'intera umanità all'età della pietra, si può anche "prendere atto" di tale forma "mista" di gestione del potere pubblico ma bisogna correggere l'iniquo riparto delle ricchezze, che si fonda sulla "forza" politico-economica e giuridica delle diverse "classi" (o categorie sociali e istituzionali), e recuperare e valorizzare il "principio etico" di fondo della democrazia, ossia il principio dell'eguaglianza reale. Nessuna forma di governo può esistere solo come pura "forma politica" (né giuridica) ma tutte hanno bisogno di un "principio etico" (ad es. le virtù, l'onore e il coraggio per l'Aristocrazia). Così anche la moderna democrazia ha bisogno del "principio etico dell'eguaglianza reale", in virtù del quale "tutto il Popolo" deve partecipare alla distribuzione delle risorse. La democrazia, perciò, dev'essere anche "etica" e non solo politico-giuridica in senso stretto. Vale la pena ricordare che le "leggi del libero mercato" sono solo il frutto della elaborazione e imposizione del capitalismo economico-finanziario dell'élite imperiale dominante (internazionale e nazionale) ma non hanno alcun valore assoluto. Bisogna, perciò, ripartire dal comune fondamento biologico che tutti gli "umani" hanno lo stesso DNA (e moltissimi vizi e difetti comuni); che "nessuno basta a sé stesso" e "tutti hanno bisogno di tutti" perciò è giusta la distribuzione delle ricchezze secondo il principio della "democrazia-etica", la quale trova un valido fondamento nella "Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo" che all'art.1 sancisce: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». La Dichiarazione venne adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Parigi con la Risoluzione 219077A del 10 dicembre 1948 e tra i Paesi firmatari vi erano gli Stati Uniti d'America, il Regno Unito e la Francia (l'Italia entrò a far parte dell'Assemblea nel 1955). Come si rileva dalla citata "Dichiarazione" (che non può essere sconfessata dai firmatari, se non negando di essere stati "capaci d'intendere e di volere", o in "malafede, non credendo in ciò che "dichiaravano" e firmavano) è la "nascita" il momento fondamentale: "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti". La "nascita", pertanto, deve costituire l'evento, l'accadimento, il fatto biologico, il momento in cui "tutti gli esseri umani" sono nella condizione di "eguaglianza in dignità e diritti". Tale "nascita" non ha, per quanto si ricava dalla "Dichiarazione", alcun riferimento con i "genitori", né con la "stirpe" o la "gens" familiare, perciò al momento della nascita sono "tutti eguali", sia il figlio di un bracciante, che di un operaio, di un magistrato, di un professionista, di un parlamentare, di un "grande capitano d'industria", ecc. Non vi è dubbio, ovviamente, che nella realtà, almeno finora, chi nasce in una famiglia di ricchi non sarà mai "eguale" a chi nasce in una famiglia di poveri perché la "dinamica" è regolamentata dagli "ordinamenti giuridici"; ma questi non hanno alcun valore assoluto e universale e non sono né eterni né immutabili. Basta perciò soltanto volerlo "politicamente" e "culturalmente". In che modo ? ci si domanderà. La soluzione è quella di superare la "finzione giuridica" che, contronatura, mediante l'istituto della "successione ereditaria", fa sopravvivere alla morte biologica un essere umano. Tale "istituto giuridico" ha in sé, sullo sfondo, anche dell'inconscio, una "folle idea metafisica", ontologica, dell'uomo quale essere dotato di potere assoluto rispetto alla morte (come quello del Dio Creatore e Salvatore), che consente, mediante l'esercizio della funzione legislativa, di "continuare" ad esistere (giuridicamente) mediante successori (legittimi o testamentari), in primis i figli. Indubbiamente questi ultimi hanno in sé (in generale) una parte del patrimonio genetico dei "genitori" (uso le virgolette perchè oggi il concetto di "genitorialità" è controverso tra le diverse fazioni politiche), ma è altrettanto certo che essi siano "altro", degli individui del tutto originali, nuovi e diversi rispetto ai propri genitori (molti "geni" hanno avuto dei figli "idioti" e molti "idioti" hanno avuto figli "geniali"). Ecco, allora, perché risulta essere naturalmente ed eticamente giusto e corretto quanto solennizzato nella suddetta "Dichiarazione universale", cioè che tutti alla "nascita" sono "eguali in dignità e diritti". Occorre, perciò, trovare una qualche soluzione "giuridica" per poter trasferire tali principi e valori anche sul piano patrimoniale. La Costituzione italiana all'art.42, u.co, sancisce che "La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità". È questa, perciò, la via da seguire, ossia intervenire sulla legge della successione ereditaria per ridistribuire equamente le risorse che oggi sono "ingiustamente" detenute soltanto dai suddetti "ricchi" (il 20% dei cittadini, che possiede il 70% delle risorse), ma anche dai "meno ricchi" (il 20%, che detiene un altro 20%) e dalla "classe media" (il 60%, che possiede il restante 15% circa). Alexis de Tocqueville, nel suo noto saggio "La democrazia in America", registrava, con sorpresa, con la sua cultura di aristocratico e di alto magistrato, che in alcuni Stati americani le imposte di successione erano particolarmente elevate per far sì che le ricchezze accumulate ritornassero alla collettività. Come si vede, a quel tempo avevano ben chiaro quale fosse il vero problema della diseguaglianza sociale: l'accumulo illimitato delle ricchezze a causa della trasmissione dei beni per via ereditaria, perciò intervenivano mediante una elevata imposta di successione. In Italia la materia (scottante !) è stata disciplinata con il d. Lgs. del 31.10.1990, n.346, che ha approvato il T.U., contenente le "disposizioni concernenti l'imposta sulle successioni e donazioni. L'art.3, comma 4-ter, prevede che "I trasferimenti effettuati anche tramite i patti di famiglia... a favore dei discendenti e del coniuge, di aziende o rami di esse, quote sociali e di azioni non sono soggetti all'imposta". L'art.12, invece, sancisce che "1. Non concorrono a formare l'attivo ereditario: h) i titoli del debito pubblico, fra i quali si intendono compresi i buoni ordinari del tesoro e i certificati di credito del tesoro, ivi compresi i corrispondenti titoli del debito pubblico emessi dagli Stati appartenenti all'unione europea e dagli Stati aderenti all'Accordo sullo spazio economico europeo"; i) gli altri titoli di Stato, garantiti dallo Stato o equiparati, ivi compresi i titoli di Stato e gli altri titoli ad essi equiparati emessi dagli Stati appartenenti all'Unione europea e dagli Stati aderenti all'Accordo sullo Spazio economico europeo, nonché ogni altro bene o diritto, dichiarati esenti dall'imposta da norme di legge". L'art.13, inoltre, esclude " I beni culturali di cui agli articoli 1, 2 e 5  della legge 1 giugno 1939, n.1089, e all'art.36 del DPR 30.9.1963, N.1409...". In ordine alle aliquote, invece, l'art.7, commi 1 e 2 (come modificati dall'art.69, L. n.342/2000), sancisce: "1. L'imposta è determinata dall'applicazione delle seguenti aliquote al valore della quota di eredità o del legato: a) quattro per cento, nei confronti del coniuge e dei parenti in linea retta; b) sei per cento, nei confronti degli altri parenti fino al quarto grado e degli affini in linea retta, nonchè degli affini in linea collaterale fino al terzo grado; c) otto per cento, nei confronti degli altri soggetti. 2. L'imposta si applica esclusivamente sulla parte del valore della quota o del legato che supera i 350 milioni di lire (euro 180.759). 2-bis. Quando il beneficiario è un discendente in linea retta minore di età, anche chiamato per rappresentazione, o una persona con handicap riconosciuto grave ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104, come modificata dalla legge 21 maggio 1998, n. 162, l'imposta si applica esclusivamente sulla parte del valore della quota o del legato che supera l'ammontare di un miliardo di lire (euro 516.456). Da quanto precede emerge in modo del tutto evidente che in Italia la "democrazia etica" è un puro miraggio ma che, tuttavia, se quella parte politica che ama compiacersi ritenendosi  "democratica e progressista" riuscisse ad esserlo anche nei fatti allora si potrebbe sottoporre ad imposta di successione (almeno) il 70% dell'intero patrimonio (asse) ereditario, col trasferimento delle risorse al "Sovrano" cioè al "Popolo", il quale, per il tramite delle "sue istituzioni repubblicane" (in particolare i Comuni), le ridistribuisce  in modo eguale tra tutti i cittadini (nessuno escluso). In alternativa, qualora si dovesse ritenere opportuna una modifica graduale della vigente normativa si potrebbe iniziare mediante l'abrogazione del suddetto comma 4-ter dell'art.3; modificando l'art.12 con l'introduzione di una esclusione parziale dei titoli del debito pubblico (ad es. fino a €. 50.000), e introducendo, a modifica dell'art.7, un'aliquota progressiva, per scaglioni, (conformemente all'art.53 della Costituzione), fino a una aliquota massima del 70 % sull'intero patrimonio (asse) ereditario, con una soglia di esenzione della quota ereditaria o del legato (ad es. €. 155.000, pari alla quota pro capite di €.9297 mld). L'equa distribuzione delle risorse, invece, secondo un principio di "democrazia etica" e di "giustizia sociale", dovrebbe avvenire cominciando dal "basso" (per capirci, "dall'ultimo" dei cittadini) e "salire" nella c.d. "scala sociale", o della "gerarchia" delle diverse funzioni pubbliche, anziché, come tuttora avviene, partendo "dall'alto", dai vertici, perché così si arriva sempre in fine (alla "base sociale") senza avere più risorse disponibili da distribuire (oggi, come sopra detto, ci sono circa 5.000.000 di poveri assoluti). Occorrerà, quindi, "ribaltare la piramide" nella "distribuzione delle risorse" incominciando dalla base verso il vertice per realizzare una società ispirata alla "democrazia etica" e alla "giustizia sociale" in cui i cittadini,  al di là del momento in cui esercitino le diverse attività, ruoli e funzioni, si relazionino in senso "orizzontale" e non più "verticale", secondo un criterio di eguaglianza sostanziale e non più solo formale. In altri termini, al di là della necessità socio-politica di dover organizzare secondo un criterio "piramidale" le molteplici attività, la distribuzione delle risorse prodotte dall'intera comunità, invece, deve avvenire in modo egualitario. L'ineguaglianza, quindi, può riguardare il solo ambito lavorativo (anche istituzionale), come esigenza di efficienza del sistema, secondo "merito" (competenza)  ma non può giustificare una diseguale distribuzione delle risorse in ossequio del principio della "Sovranità del Popolo". E in linea con questa soluzione tutti i "pensionati" dovranno essere qualificati col solo titolo di "cittadini", senz'altra distinzione (e decretare l'esistenza di un unico "Istituto nazionale di previdenza", con un tetto massimo alle pensioni, da pagarsi con le imposte progressive e non più con i "contributi previdenziali"). E si dovrebbe riconoscere alle donne-madri uno stipendio mensile per il loro ruolo sociale e i sacrifici psicofisici della maternità che le rendono delle moderne "eroine". Non vi è dubbio che l'idea della "democrazia etica" e le soluzioni innanzi prospettate di "giustizia sociale" nella "distribuzione delle ricchezze" siano alquanto "utopiche" (anche perché gli "umani" in un mondo "duale" sono anche "dis-umani"), ma le "idee", anche se gli umani non le "realizzino", devono comunque "manifestarsi", come sosteneva Hegel, sia per il tramite degli "autori minori" - come in questo caso -, che dei Maggiori, come è avvenuto con Platone, che aveva proposto come soluzione la sua Repubblica ideale; ma anche sant'Agostino, che aveva immaginato la sua "Civitas Dei" e Tommaso Campanella la "Città del Sole" (senza dimenticare Tommaso Moro con la sua Utòpia e che persino Dante aveva elaborato la sua Monàrchia ritenendola come miglior modello di governo possibile). 

 
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IL SENSO IN SČ E LA PARTECIPAZIONE

Post n°1077 pubblicato il 03 Giugno 2023 da rteo1

IL SENSO IN SÈ E LA PARTECIPAZIONE

L'uomo ha bisogno di dare un "senso" al suo essere nel mondo. Qualunque senso sia, materiale o spirituale, reale o ideale, non fa alcuna differenza. Ciò che conta è "crederci", almeno finchè non si scopra l'inganno fatto a sé stessi. D'altronde va anche "umanamente" compreso perché non è facile accettare di essere un "animale", per quanto ritenuto (dallo stesso uomo) più evoluto, tanto da autodefinirsi "homo sapiens". E la sua esigenza di "dare un senso" è soprattutto in funzione del "dopo". Anzi, è proprio quest'ultimo, "il dopo", che lo tormenta di più, tanto che i più fragili psicologicamente - ossia la stragrande maggioranza degli umani - preferiscono non pensarci e fare ricorso ad inutili e superstiziosi "scongiuri" e a bizzarri e folcloristici rituali per cancellare, almeno dalla mente, l'evento finale, cioè il "passaggio di stato", che tuttavia è necessario alla vita e per la vita. Il pensiero di dare un senso alle cose, alle azioni, agli accadimenti, che si manifestano nella realtà fenomenica strugge l'intera esistenza. È infatti il pensiero che tormenta l'intero corso della vita "terrena". Non di tutti, ovviamente, ma di certo di tutti coloro che sono convinti che il pensiero(libero) sia il mezzo di interlocuzione con l'universale, col Tutto, l'infinito, l'indeterminato, l'Essere. La Costituzione italiana lo "celebra" all'art.21, comma 1, ove è sancito che "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", salvo, poi, limitarlo, al comma 6 : "Sono vietate le pubblicazioni a mezzo stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni", oltre a sanzionarlo penalmente con i "reati di opinione" (vilipendio) e di "satira" (ingiuria e diffamazione).  Ma questo "dualismo" costituzionale e giuridico non è altro che la prova indiretta che ad essere duale è proprio "il pensiero" allorquando si concretizza nello spazio-tempo. Anche se si ha "paura" di ammetterlo, perché crollerebbe una certezza fondamentale su cui è stato strutturato l'intero "castello di sabbia" degli esseri umani. Hegel nel suo saggio "La fenomenologia dello spirito", sosteneva che "la realtà è autocontraddittoria, tende a superare sé stessa e a diventare altro da quello che è"; diceva anche che l'idea deve manifestarsi e che lo fa diventando realtà naturale la quale ha in sé la "razionalità". In altri termini, trattasi di una concezione dell'idea simile a quella platonica che prevedeva l'intervento del "Demiurgo artefice" nella mediazione tra il mondo delle idee e le relative forme (copie) imperfette realizzate nella natura e, altresì, della visione "conflittuale" eraclitea di tutte le cose durante il divenire. Il dilemma, comunque, per i limiti e le imperfezioni che caratterizzano gli umani, è comprendere se l'idea sia già in sé "autocontraddittoria" oppure se lo diventi dopo, nel momento in cui l'idea (mediata e a causa di questa "mediazione") diventa "realtà" (l'energia-materia che acquista forma, con origine dal "mondo quantico"). Ovviamente la risposta può essere soltanto relativa, soggettiva, a seconda dell'esperienza, della conoscenza, della visione che ciascuno ha della vita, dell'universo e delle sue leggi. Postulare, perciò, che il pensiero collegato al mondo delle idee universali sia contraddittorio in sé perché già le idee sono autocontraddittorie vuol dire che lo è tutto l'universo e che, di conseguenza, lo sono anche, inevitabilmente, tutte le decisioni umane (individuali o collettive, sociali, politiche, istituzionali, economiche, ecc.). In questo caso, perciò, non sarebbe giustificabile nessuna "condanna" degli umani, che devono essere tutti "assolti" da ogni colpa, perché essi sono "prigionieri" del "dualismo cosmico". Certamente i cultori del mito del "libero arbitrio" non accetteranno mai l'esistenza del principio del determinismo, del meccanicismo, cui credeva Einstein, e del Destino, inteso come "la necessità dell'esser sé" di ogni cosa (uomini inclusi) che "non può non essere ciò che è", anche durante il "divenire", cioè quando si trasforma per diventare (apparentemente) "altro da sé" (il neonato, il bambino, l'adolescente, l'adulto, il vecchio). Pertanto ci sarà sempre un "dualismo" tra coloro che credono nell'Indeterminismo, il caos, e quindi la casualità, posta a base dell'universo (in particolare nel mondo subatomico, secondo il principio di indeterminazione di Heisemberg), e i sostenitori del principio del determinismo, il cosmos, la regolarità e immutabilità delle leggi della fisica generale. Anche se, a dire il vero, e in linea con quanto già sopra accennato, non si possa escludere che sia il "determinismo" che "l'indeterminismo" siano coesistenti, coessenziali, come l'energia e la materia, perchè come sosteneva Hegel "la verità è nel tutto" ed Eraclito affermava che "la saggezza consiste nel comprendere il governo del tutto mediante il tutto". Un "Tutto", quindi, che si manifesta in forma "duale" nel divenire, nel quale appare, e perciò anche il dualismo "senso-non senso" dell'esistenza umana. Anche se risulta arduo comprenderne la "ragione" mediante la "ragione" perché questa non è un assoluto ma soltanto un "mito" umano. La c.d. "ragione", infatti, se vi è dualismo, come appare nelle cose, non può non essere commista con l'anti-ragione, o con l'irrazionalità, la quale coabita nel subconscio unitamente all'Io e al superIo. La "commistione", quindi, la "simbiosi", come tra l'energia e la materia, dev'essere, perciò, il paradigma mentale che deve guidare ogni ricerca del pensiero umano. Anche  in ordine alla ricerca del  "senso", mettendo in conto che esso possa essere un tutt'uno col "non senso", anche quando le convenzioni umane impongano separazioni e differenze, premi e punizioni, elogi e sanzioni, a seconda del "senso e del non senso". E ciò è inevitabile perché purtroppo il "pensiero umano" non è libero ma è socialmente condizionato, segregato e plasmato dalle "regole" politiche generali, morali e religiose che governano gli aggregati civili, la mente e la psiche umana. E così anche la "ragione", il "logos" mitizzato dalla civiltà occidentale, diventa in assoluto inaffidabile, e di ciò se ne ha prova quando i governi decidono di mandare al "massacro" i popoli e di annientare i sogni dei giovani per degli illusori segni, simboli e ideologie, come narra Ignazio Silone ne "La scuola dei dittatori", anziché sedersi a un tavolo della diplomazia per trovare almeno una soluzione possibile tra le infinite soluzioni. E allora, stando così le cose (senza prova contraria, peraltro difficile a darsi), occorre ora affrontare la seguente domanda: esiste un senso in sé, in generale, e della stessa vita ? Una canzone dal titolo "Un senso" di un noto artista italiano contiene il seguente brano: «Voglio trovare un senso a questa vita / Anche se questa vita un senso non ce l'ha ». Gli artisti, si sa, hanno una sensibilità particolare che consente loro di travalicare i limiti della "ragione" e di avvicinarsi al "senso ontologico" delle cose e del Tutto. Bisogna, perciò, tenerne sempre conto, ma non si può, ovviamente, abdicare mai la verifica, la ricerca del fondamento mediante il proprio pensiero. Ed è proprio questo che fa subito emergere l'aporia, la contraddizione in sé, del predetto brano musicale: se si ritenga, infatti, che la vita non abbia senso, allora non ha senso cercare (trovare) un senso. Invece è evidente l'errore di escludere, a priori, che "la vita abbia un senso in sé stessa" (così come la sua antagonista: la morte). Certamente questa soluzione ridimensiona l'uomo e il suo egocentrismo ma consente di comprendere che non è vero che non esista alcun senso, in assoluto, ma che invece il senso esista, come "senso in sé", sia della vita che di tutte le cose, e inoltre che questa "conclusione" non impedisce agli uomini di darsi e dare un senso, ma con la consapevolezza di essere delle "maschere" (non a caso detti "persone", ossia "maschere") ma anche delle "macchine biologiche programmate" (come, ad es., l'apoptosi). Un modo, seppur indiretto, per "dimostrarlo", tra i tanti possibili, risulta essere quello relativo ad alcuni rituali fondamentali esistenti in natura. Il primo è certamente quello del "corteggiamento", finalizzato alla riproduzione. Tutte le specie viventi sono "schiave" di tale rituale, che prelude la selezione del partner. Solitamente è il "maschio" che si esibisce, come in teatro, assumendo le "pose" più ardimentose, ma anche "ridicole", al tempo stesso. Si ostentano piumaggi, suoni, canti, stridii, muscoli, e si fa ricorso alla "competizione", alla "lotta", tra gli aspiranti per il primato dell'accoppiamento. La "femmina" solitamente attende che la "contesa" abbia termine, e a volte sceglie anche il partner che ritenga più idoneo allo scopo (questa libertà di scelta e anche d'iniziativa sono diventate, ormai, "patrimonio culturale" di buona parte del "mondo occidentale"). In natura, quindi, tutto avviene secondo la "competizione" in vista dell'accoppiamento per la "riproduzione". È questo, quindi, il "trofeo", il "premio" in palio, che consente la trasmissione del "patrimonio genetico" e la prosecuzione della specie. Anche gli esseri umani soggiacciono alle stesse leggi della natura. Ma essi, che hanno anche il "dono" della fantasia, frutto della follia che abita l'inconscio, ci aggiungono anche altro, che è il prodotto della società e della cosiddetta "civiltà": i riti. Sono questi, infatti, che più di tutto marcano la differenza tra gli umani e le altre specie viventi, e non perché queste ultime non abbiano i propri "riti", giacché anch'esse ne hanno (secondo natura), ma perché gli umani hanno anche l'esigenza di "dare senso" alle proprie azioni, per cui "inventano" rituali, spesso bizzarri ed estrosi, che a volte travalicano ogni (buon) senso, fino al punto che "il senso non ha più alcun senso". Per comprendere queste "pazzie" tipiche del mondo umano è sufficiente riflettere sulla complessità e varietà dei "corteggiamenti", ma anche sull'accoppiamento, che precede, prescinde, o segue il rituale del "matrimonio", che spesso si conclude con i "festeggiamenti" a cui prendono parte "processioni" di invitati. Lo stesso dicasi per i "rituali" politici, istituzionali, sociali prescritti dalle "regole" giuridiche, etiche, morali, religiose, che a volte non hanno alcun collegamento col reale, col naturale, "costringendo" gli individui e le masse a credere o accettare per fede (o per appartenenza) che simboli e segni abbiano in sé ed esprimano principi e valori "assoluti", trascendenti, metafisici, senza rendersi conto che durante lo spazio-tempo del divenire, senza il libero pensiero, "un essere relativo e finito non può capire e scoprire l'assoluto né l'infinito". E ciò nonostante, gli umani  continuano a voler imporre in generale le loro produzioni, sacralizzandole con i riti, come se fossero l'espressione della "verità". Alla base, comunque, dell'esistenza, sia umana che non, vi è, come detto, la "competizione" che, in generale, secondo natura, è finalizzata alla "riproduzione". La competizione, perciò, e la riproduzione costituiscono, in generale, i veri fondamentali della natura di tutti gli esseri viventi e delle organizzazioni umane. Anche le "leggi", quindi, così come la competizione per l'assunzione di funzioni e ruoli pubblici, hanno come substrato, più o meno inconscio, dominato dall'economia della specie, il fine della "riproduzione". In ordine a quest'ultima giova sottolineare che essa nell'élite intellettuale e creativa tende spesso a "sublimarsi" e, così, l'élite trae "piacere"  dalla creazione di prodotti artistici, culturali, politici, economici, ovvero, nel campo istituzionale, mediante la identificazione col potere costituito, e, nel mondo religioso, con la missione verso il trascendente. La riproduzione, perciò, quale esigenza primaria ed essenziale per la natura, interconnessa con la competizione, nel consorzio umano impone il suo "senso in sé", non curandosi  del "senso-nonsenso umano" che mediante la divaricazione dell'intelletto, per esigenze socio-politiche, oltre che psicologiche dell'individuo, spinge a "dissociare" "l'essere" dal "dover essere", mediante l'apparire (che tuttavia è anch'essa una forma della "competizione"). E cosi può accadere di assistere a "rituali" pubblici, privati e sociali del tutto analoghi a quelli tipici dell'infanzia o dell'epoca dei miti, seppur celebrati con "solennità". Esigenze tutte umane di "dare senso" e credere di essere la "specie prescelta" e di avere il primato assoluto sia in natura che su tutte le altre specie viventi. Ma soprattutto di voler credere di "essere altro" rispetto a ciò che realmente si è e che si manifesta nel "circolo dell'apparire", come sosteneva E. Severino. Tutto comunque, e si ribadisce, si muove sempre in base alla competizione (negli umani solo un gamete, tra diversi milioni, feconda l'ovocita). Nulla e nessuno la può impedire perché essa è alla base della natura (anche la pandemia virale costituisce un esempio di "competizione" tra specie diverse) ed ha senso "in sé stessa". Tale "competizione" in ambito sociale viene disciplinata mediante le "regole" e le istituzioni. Lo sport, come ad es. il calcio, ne costituisce l'esempio per eccellenza, dove il "trofeo" (la coppa) costituisce l'equivalente simbolico del risultato dell'accoppiamento e "riproduzione sessuale o intellettuale". Il "frutto" è il trofeo in palio, la coppa, come l'elezione alla carica pubblica è il premio della competizione elettorale (e il "posto fisso", il premio del concorso pubblico). Certamente senza né regole socio-politiche né istituzioni tutti gli umani sarebbero preda delle basilari "pulsioni naturali" (alimentari, per la sopravvivenza, e sessuali, per la prosecuzione della specie), che pur tuttavia, seppur in modo più o meno inconscio, continuano ad orientare i comportamenti degli umani, singoli e associati. E tanto è vero che analizzando i criteri di distribuzione delle risorse economiche prodotte dalle società "civili" ben si coglie come tali risorse siano distribuite sulla base (iniqua ma resa legale dai legislatori) della "competizione" tra le diverse funzioni e ruoli pubblici e privati, secondo gerarchie più o meno rigide tra classi e caste. Relativamente a queste va detto che la "democratizzazione della Repubblica", come è accaduto nel dopoguerra in Italia (ma anche in molti altri Stati europei), ha consentito di superare le dure ed estreme contrapposizioni sociali di stampo ottocentesco, ben analizzate e sviluppate nel Manifesto del 1848 e nel Capitale di K. Marx, che, secondo la logica dialettica dell'ineludibile conflitto tra le classi, avrebbero dovuto portare la "classe proletaria" (operai e contadini) alla conquista del potere politico diventato prerogativa della "borghesia", che lo aveva sottratto alla "classe feudataria". Per effetto della "democratizzazione", che ha "imborghesito" i proletari, come argutamente osservato dal filosofo Aldo Masullo nella relazione "crisi della fenomenologia e fenomenologia della crisi", la contrapposizione tra le classi si è diluita e affievolita, soprattutto dopo i "moti del 1968". La "contrapposizione democratica", così, nell'attuale Repubblica, ha ridimensionato il potenziale "rivoluzionario" della "classe proletaria" e ha assunto la forma e la natura della "competizione" tra molteplici "gruppi di interessi" (partiti, in primis, sindacati, corporazioni professionali, burocratiche, istituzionali, associazioni, ecc.). La "competizione" è ora la "regola" delle diverse dinamiche sociali per l'accaparramento delle risorse economiche (il "premio") direttamente e indirettamente finalizzate alla "riproduzione" (scegliere o essere scelti dal partner), o alla sublimazione (assunzione ed esercizio del potere o realizzare opere d'arte). L'esperienza, però, soprattutto di questi ultimi tempi, ha reso evidente che la "competizione", quando concerne gli Stati, può spingersi finanche nel campo bellico nel quale, a causa dell'esistenza delle pulsioni distruttive nell'inconscio umano, è la soppressione della vita del "nemico" che diventa il "trofeo" da conquistare. E così gli "Stati", strumenti idonei ad esaltare le virtù dei cittadini, quando mal governati, diventano  amplificatori delle "pulsioni distruttive"  e strumenti di morte anziché di vita. Perciò non bisogna mai sopprimere gli "anticorpi politici" per impedire che qualunque umano, a qualsiasi vertice si collochi nella gerarchia politica, possa avere il potere assoluto di "mandare al macello" il "Popolo" di cui è parte. Già troppe inutili e futili tragedie hanno funestato la "storia". Basta, perciò, col "rito della potenza" fine a sé, per alimentare la "potenza" perché alla fine sarà la stessa potenza a distruggere sé stessa. La conoscenza finora acquisita, anche grazie all'eredità ricevuta  dalle generazioni passate, dalla cultura, dalla scienza e dalla tecnologia, fa tuttavia ben sperare e ritenere che il (buon) senso umano, per evitare l'estinzione della specie, trasferisca, prima o poi, tutte le divergenze nel solo campo della "competizione", economica, politica e "intellettuale". La competizione, pertanto, per il bene comune e collettivo, incluso quello degli Stati, dovrà essere "democraticamente" estesa in tutti gli ambiti, sia locali che "nazionali" e internazionali. Non vi è dubbio che la "competizione" metterà da parte le odierne civiltà più "evolute" (e anche l'attuale democrazia, come già si coglie dai segnali che si registrano sia all'interno che all'esterno dell'Italia). Ma questa sarà solo la prova dell'esistenza del ciclo vitale di tutto ciò che esiste in natura, la quale, come tale, e come detto, ha "senso in sé", così come la "competizione", che potrà salvare la specie umana se ben intesa e praticata in linea col motto: L'importante non è vincere, ma partecipare. 

 
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