Creato da socialismoesinistra il 28/06/2008
Rivista di approfondimento culturale e politico dell'Associazione SocialismoeSinistra
 

 

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La crisi è finita? (parte uno)

Post n°262 pubblicato il 15 Agosto 2009 da socialismoesinistra

  1. Alcuni dati positivi relativi al secondo trimestre 2009, specialmente in Germania e Francia, fanno guardare con un certo ottimismo al futuro che ci attende. In Germania e Francia infatti il PIL del trimestre è tornato in territorio positivo dopo quattro trimestri con il segno meno. L’Italia, purtroppo, rimane ancora con il segno negativo davanti anche se da -2,7 si è passati a  –0,5. Smentito quindi il premier che dichiarava ai quattro venti che ne saremmo usciti prima e meglio degli altri; quelli che Berlusconi chiama “catastrofisti” (e ai quali voleva proibire di parlare) sol perché non condividevano l’ottimismo volontaristico del premier, si sono invece rivelati “realisti”. E continuano ad essere molto cauti nel guardare avanti.

1.1   La prima cautela è relativa alla temuta curva a W. Essendo chiaro che la curva discendente dell’andamento dell’economia mostra una diminuzione nella discesa, se cioè di fronte ad una derivata prima negativa riscontriamo una derivata seconda positiva, siamo portati a credere che la discesa sia finita e quindi ricomincia la risalita. Ma questo atteggiamento, più simile ad un wishful thinking che a deduzioni di logica economica, non esclude l’andamento a W di cui parlavamo in questo paragrafo. L’andamento a W significa un andamento, non nuovo nella storia economica, che accenna una piccola ripresa ma poi ricade in una nuova recessione. E’ chiaro che tale comportamento non è da escludere se consideriamo i fondamenti economici dei paesi in crisi.

1.2  La rilevata ripresa può derivare da un fatto logico ma non continuativo. Durante la fase critica di calo della domanda chi aveva scorte accumulate, chi cioè non produce su commessa ma produce per il magazzini sperando in vendite future, venendo proprio a mancare la speranza di future vendite (o meglio vedendo diminuire l’aspettativa di future vendite) ferma la produzione e vende le scorte. Quando le cose ricominciano a riprendersi, la prima cosa da fare è la ricostituzione delle scorte. Ciò costituisce un aumento del PIL ma, se i consumi non riprendono, una volta ricostituite le scorte la fase produttiva ritorna a stagnare. Questo atto di fiducia verso una ripresa della domanda può costituire quel gradiente in crescita della W di cui parlavamo al punto precedente.

1.3  L’attenzione quindi si rivolge alla domanda. Occorre dare atto a tutti i governi (a qualcuno più, a qualcun altro meno) che la crisi è stata dagli stessi governi affrontata abbastanza decisamente e tempestivamente. Insomma non come nel 1929. Certo si poteva fare di più e meglio. Soprattutto l’Europa ha registrato un fallimento di un intervento costruttivo, condiviso e forte. L’Europa come soggetto economico non ha reagito come un tutto unico, ma ciascun paese è andato per i fatti suoi (anche se con una blanda indicativa degli organismi europei) senza alcuna sinergia. Una operatività che impallidisce di fronte all’operato di Obama. Ma torniamo alla domanda. Nel mese di luglio la domanda statunitense, nonostante l’incentivazione alla rottamazione, è calata ancora dello 0.1%. Se quella è la locomotiva cui guardiamo i segnali non sono entusiasmanti. Ma non possiamo scordare che negli Stati Uniti la domanda trascinata dal credito al consumo è una cosa da scordare. Sarebbe suicida tornare a quella pratica, i consumatori statunitensi devono tornare a riprendere a risparmiare, devono cioè diminuire il tasso dei consumi. La domanda cinese può diventare la nuova locomotiva mondiale? Certamente questa è una prospettiva legittima e logica, ma assolutamente non immediata. Ci vorrà del tempo (anche perché molti operai cinesi stanno tornando alle campagne) perché la Cina, che rimane pur sempre più esportatrice che importatrice, possa diventare la locomotiva mondiale.

1.4  E poi non dimentichiamolo, la massa dei lavoratori espulsi dal ciclo produttivo continua a crescere, e ci si attende che nell’autunno ci saranno gli effetti più nefasti. Scrivono i giornali sulle migliaia di attività che alla fine delle ferie non riapriranno i battenti. Negli Stati Uniti “uno studio dell’economista Kenneth Rogoff arriva alla conclusione   che la disoccupazione continuerà a salire per almeno due anni e mezzo. Lo conferma una analisi della Federal Reserve, disponibile sul suo sito ufficiale, per cui  ci vorrà un intero decennio per tornare a un livello occupazione pre-crisi”. Non bisogna essere economisti per capire che se la disoccupazione cresce la domanda non può aumentare.

1.5  Non dimentichiamoci poi, che anche l’uscita dalla crisi, comporta problemi di non poco conto. Non possiamo scordare tutta la liquidità immessa nell’economia per salvare le banche e le imprese in crisi. Tutti questi soldi che i contribuenti hanno dovuto “regalare” ai giganti del capitalismo per farli sopravvivere, destinati altrimenti ad una fine ignobile come Lehman Brothers, Fanny e Freddy, Northen Bank, Bank of Scotland, Stato Islandese etc. sono soldi sottratti in parte ai contribuenti ed in parte trattasi di stampa di carta moneta (deficit spending) che comporterà problemi di riequilibrio. Se la creazione di liquidità è uno stimolo per l’economia in stasi, il rientro di detta liquidità comporta effetti recessivi che non aiutano certo la domanda a crescere. Peraltro il mancato controllo del rientro della liquidità creata può esplodere in pesanti effetti inflazionistici. Ecco perché gli interventi che i governi hanno fatto nel periodo di crisi vanno classificati in due categorie: interventi con futuri esiti produttivi e interventi, per dirlo in sintesi, di tipo assistenziale. Faccio un esempio: i soldi dati all’impresa automobilistica da Obama, se tutto andrà bene, saranno in grado di generare ricchezza sufficiente a ripagare il prestito avuto; i soldi per la social card non avranno sicuramente alcun ritorno (anche se saranno serviti ad attenuare le possibili tensioni sociali). Il primo intervento si auto rigenera, il secondo intervento necessita di manovre correttive che non potranno non incidere negativamente sulla ripresa della domanda.

1.6  Per quanto riguarda l’Italia i problemi sono, a mio parere, ancora più gravi. Non dimentichiamo che prima dello scoppio della crisi nell’agosto 2007, il nostro PIL viaggiava a velocità zero; il nostro sistema produttivo denunciava una incapacità a crescere o quanto meno a tenere il passo con gli altri paesi con una struttura economica simile alla nostra. C’era un problema. Non è stato risolto. C’era il problema “produttività” ed esso rimane pesante come un macigno; c’era il problema della dimensione delle nostre imprese e tale problema rimane. Infatti esentare dall’Ires per soli 5 anni il 3% dei nuovi capitali sottoscritti e versati ha effetti da placebo, se si pensa che il costo di un collegio sindacale (che dura in eterno e non soli 5 anni) si rimangia il modesto risparmio fiscale. L’intervento di tipo Shumpeteriano (la distruzione creativa) poteva essere l’occasione per disfarci di tutti i lacci e laccioli del nostro sistema produttivo. Invece nulla è stato fatto, e non solo in Italia. C’è un forte rischio che se tutto torna come prima (come la ripartenza delle speculazioni bancarie sui titoli tossici fa temere) ci troveremo tra breve di fronte ad una nuova grave crisi.

 

  1. La statura di due leaders come Berlusconi ed Obama si  può misurare sulle loro dichiarazioni. Il primo dice “Chi doveva fallire è fallito, adesso andiamo tutti al mare, riprendiamo a consumare e aspettiamo che tutto torni come prima”. Il secondo dice “ La ripresa non è reale finché si continua a licenziare”.

2.1   Il presidente Obama introduce un elemento culturale fondamentale. Un elemento che ha a che fare con l’insegnamento di Gramsci, in particolare si tratta delle categorie culturali di senso comune ed egemonia. La classe dominante è tale non solo perché detiene le ricchezze e gli strumenti del potere, ma anche perché, e qui il pensiero va al rapporto struttura sovrastruttura di marxiana memoria, perché le categorie sovrastrutturali della classe dominante egemonizzano il pensiero comune per cui il modo di pensare della classe egemone diventa modo di pensare di tutti. E’ in questo senso che si può parlare di “pensiero unico”. Un movimento di emancipazione, un modo di pensare classista, inizia dall’individuazione delle contraddizioni del pensiero dominante, dall’elaborazione di una visione di classe della realtà esistente, nella diffusione di tale elaborazione che tenda a diventare a sua volta egemone e quindi divenire senso comune per tutti.

2.2  Nello specifico fa parte del senso comune che quando un sistema produttivo va in crisi i lavoratori esuberanti vadano licenziati. Quando la crisi sembra cominciare a dare segni di superamento si guarda con più attenzione alla crescita del PIL o alla crescita del reddito, perché, prima o poi, a questa crescita seguirà anche la crescita della occupazione. E’ ritenuto normale che i soldi dei contribuenti, per la maggior parte costituiti da lavoratori, vadano a salvare le banche (troppo grandi per fallire, too big to fail) che tuttavia sono state la causa del disastro. E’ triste ma inevitabile che una massa di persone incolpevoli paghi per gli errori altrui. Al massimo i paesi più welfaristi hanno predisposto degli strumenti sociali atti a rendere meno dura per questa massa di disoccupati la loro situazione. E’, ad esempio, ciò che ha fatto il governo Berlusconi che con la cassa integrazione in deroga ha cercato di rimediare, in parte e male, all’enorme ingiustizia non solo dei nuovi rapporti di lavoro introdotti dalla cosiddetta legge Biagi, ma anche di quei lavoratori a tempo indeterminato che non godevano della cassa integrazione. Ma essendo in deroga questi interventi evidenziano che si è stati incapaci di una soluzione universalistica, di sistema, strutturale, accontentandosi di una soluzione raffazzonata e di corto respiro. Rimane comunque il fatto che detti ammortizzatori sociali, a macchia di leopardo, come quelli italiani, o universalistici come quelli dei paesi dove esiste un sistema di salario minimo garantito, partono sempre dall’assunto che volenti o nolenti, colpevoli o innocenti, a pagare siano uomini della classe subalterna che subendo decisioni e colpe nate altrove, riportano alla mente il rapporto padrone-schiavo prima di Hegel e poi di Marx.

2.3  Quando Obama dice  “ La ripresa non è reale finché si continua a licenziare”, fa una affermazione che rompe l’omologazione acritica del senso comune. Se il PIL torna a crescere, se le banche tornano a riaprire il credito, se si iniziano a ricostituire le scorte, ebbene ciò non significa che la ripresa sia reale, fintantoché si continua a licenziare e si giunge alla conclusione che “ci vorrà un intero decennio per tornare a un livello occupazionale pre-crisi”. Viene cioè introdotto un punto di vista diverso da quello dominante. Viene cioè introdotto il concetto per cui se la borsa sale, ciò non è il punto di vista di tutti, ma è il punto di vista dei soli capitalisti, se si reintegrano le scorte ed aumenta la produzione l’indice che rileva questo fatto non è il punto di vista di tutti ma è il solo punto di vista dei produttori; ed il punto di vista dei capitalisti e dei produttori è il punto di vista di una parzialità, importante fin che si vuole, della popolazione, ma pur sempre parzialità. Se la borsa sale e si ricostituiscono le scorte ma la disoccupazione aumenta il tasso di disoccupazione non può essere il solo punto di vista del disoccupato, ma deve essere il punto di vista di tutta la classe lavoratrice. Sarebbe questo l’inizio di un rovesciamento del pensiero unico, un movimento di emancipazione del mondo del lavoro. L’esempio della INNSE al proposito è paradigmatico.

2.4  Allora ha ragione Franco Bartolomei nel suo articolo su Riccardo Lombardi, a rivendicare per il mondo del lavoro, per la categoria occupazione, per il pensiero della classe subalterna una “dignità istituzionale” che oggi non si riscontra. Sbaglia, a mio parere, il compagno Franco, quando parla di “salario come variabile indipendente”. Capisco il concetto che vuole portare avanti, ma usa le parole inadatte. Riccardo Lombardi provocatoriamente indicava “la piena occupazione” come variabile indipendente; non certo il salario. I tempi del salario variabile indipendente sono i tempi passati di Potere operaio e dell’operaismo più radicale. Ma Riccardo Lombardi che era per sua natura un “programmatore” non poteva parlare di salario come di una variabile indipendente, ma parlava della piena occupazione (a mio parere scorrettamente) come variabile indipendente, ma a parer mio sarebbe stato meglio definirla “funzione obiettivo”. Entriamo allora qui nella terza parte del mio ragionamento: iniziamo a parlare di programmazione.

  1. Negli anni 60 “andava di moda” parlare di programmazione. Sull’esperienza della Tennessee Valley Authority  si costruì un piano per la riduzione delle differenze tra nord e sud. Il piano Vanoni si era posti come obiettivo: la crescita del reddito al 5%, il riassorbimento della disoccupazione e della sottoccupazione, la riduzione delle differenze tra nord e sud. Forse troppi obiettivi e fors’anche configgenti. C’è da interrogarsi sul perché lo strumento programmatorio sia uscito dalla prassi dei governi attuali. Agli inizi degli anni ’60 Riccardo Lombardi, Amintore Fanfani, Giorgio LaMalfa, Giorgio Ruffolo, Pieraccini resero attuale e attuato lo strumento programmatorio. Oggi la sinistra pare essersene scordata. Ma se pensiamo che la crisi che stiamo attraversando richiede un nuovo e diverso approccio nelle politiche economiche, se pensiamo che lo Stato debba e possa intervenire non solo quando si tratta di salvare dalla vergogna le banche e le imprese sull’orlo del fallimento come Alitalia, se pensiamo che la razionalità socialista sia superiore alla “mano invisibile” dell’iper liberismo ebbene allora siamo arrivati al momento in cui ripensare, in termini nuovi alla programmazione

 
 
 
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