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Rivista di approfondimento culturale e politico dell'Associazione SocialismoeSinistra
 

 

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Berlinguer e Craxi: due progetti falliti, una sinistra distrutta.

Post n°273 pubblicato il 01 Settembre 2009 da socialismoesinistra

 

 

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Non è possibile comprendere la condizione attuale della sinistra italiana se non si fa un salto nel passato per rintracciare le ragioni lontane della sua profonda crisi.

Nel 1992 Tangentopoli segna la fine della I Repubblica. Un sistema fondato su partiti forti, che comunque avevano garantito la ricostruzione democratica dopo la guerra entra in profonda crisi. Il sistema italiano non riesce ad adattarsi al nuovo quadro internazionale determinato dalla caduta del Muro di Berlino.
Il PSI di Craxi è invischiato in una alleanza senza sbocchi con la DC ed attraversato da gravi fenomeni di degenerazione morale. Il PCI con grande ritardo prende effettivamente coscienza di non essere più da tempo comunista e fa una operazione politica a metà: con la nascita del PDS lascia alle spalle il comunismo ma non entra a pieno titolo (dal punto di vista ideale) nel socialismo europeo (anche se aderisce al PSE ed all’Internazionale Socialista). E’ un partito non comunista ma ibrido in cui convivono tentazioni di superare a destra la socialdemocrazia verso lidi liberaldemocratici con forme appena dissimulate di nostalgia del PCI.
Sono gli anni 80 che non riescono a realizzare quello che era necessario fare: unificare nel socialismo democratico il PCI ed il PSI.
Craxi inizialmente tentò (in questo sostenuto da quasi tutto il partito e dall’intellettualità socialista – vedi Bobbio) di riaffermare l’autonomia culturale ed ideologica del PSI nella sinistra, in quanto nel PCI berlingueriano ancora sussistevano contraddizioni ed ambiguità (Eurocomunismo, Terza Via) che rendevano difficile unificare la sinistra in un unico soggetto politico.
Il Pci si rendeva conto di non essere ormai più un partito comunista organico. Ma aveva enormi difficoltà a confluire nel movimento socialista europeo. Un po’ perché nella base comunista (o in settori di essa) persisteva il mito dell’URSS quale elemento fondante del PCI stesso, un po’ per un senso provinciale di malcelata superiorità che c’era nell’intellettualità comunista degli anni 70 verso la socialdemocrazia ed il socialismo europei.
Il concetto di “terza via” coniato da Berlinguer tendeva a collocare il comunismo italiano in una “terza posizione” tra il socialismo democratico ed il socialismo reale. In tal modo si salvaguardava una identità comunista che conviveva con una prassi e dei programmi socialdemocratici. Una riproposizione della doppiezza togliattiana in una forma più avanzata. Inoltre tale elaborazione doveva essere funzionale alla strategia del compromesso storico: l’incontro tra DC e PCI per salvare il paese dalle varie “emergenze” che lo attraversavano (nella impostazione del PCI c’è largo spazio per le posizioni “emergenzialiste” – esse giustificano una sorta di CLN permanente) ed il rifiuto di una democrazia dell’alternativa (che avrebbe visto la sinistra italiana alternativa alla DC ed al blocco moderato).
In conclusione il PCI si dichiarava orgogliosamente comunista, parlava di “fuoriuscita dal capitalismo”, ma nella proposizione dei suoi programmi restava nell’ambito della socialdemocrazia classica, quella di “Bad Godesberg” – costruire elementi di socialismo all’interno di progetto di società che non oltrepassa l’orizzonte del capitalismo. Questo mentre nella socialdemocrazia e nel socialismo europei emergevano tendenze che cercavano di andare oltre Bad Godesberg. Tale era l’impostazione della socialdemocrazia svedese di Olof Palme che con il “Piano Meidner” prospettava l’idea di un graduale e progressivo superamento del capitalismo e quella del PS francese che con le “Tesi sull’autogestione” si muoveva più o meno nella stessa prospettiva (tesi simili erano comunque presenti in diversi partiti socialdemocratici).
In realtà Berlinguer, da un lato nella sua impostazione programmatica mutuava molto dalla socialdemocrazia classica anni 50-60, dall’altro ribadiva che l’URSS era un “paese socialista con tratti illiberali” riconoscendo al collettivismo burocratico sovietico lo status di socialismo (qui c’è l’elemento di frizione più forte con il socialismo europeo).
Il PSI di allora si trovò, molto più del PCI, in sintonia con il socialisti francesi ed i socialdemocratici svedesi. In particolar modo la sinistra di Lombardi. C’è da sottolineare che il PSI (fino alla fine degli anni70) si identificava con le correnti di sinistra del socialismo europeo e non accettò mai del tutto il programma di Bad Godesberg. Il riformismo espresso dal socialismo italiano degli anni 60 e 70 era quello delle “riforme di struttura” che dovevano modificare gli assetti e gli equilibri di potere nella società e nell’economia nella prospettiva di un superamento graduale del capitalismo verso il socialismo democratico. Per la verità anche la socialdemocrazia di “Bad Godesberg” proponeva riforme rivolte a modificare gli assetti di potere ma esse si inquadravano in un compromesso sociale con il capitalismo che accettava il suo orizzonte come invalicabile. Certo oggi la distinzione può apparire sottile e capziosa, tanto più che la socialdemocrazia europea ha realizzato riforme sociali e democratiche di grandissimo rilievo. Ma è difficile avviare un processo riformatore senza una spinta forte a trascendere il sistema, ad accettare esso come un limite invalicabile. La forza di molte socialdemocrazie è stata la presenza di una forte sinistra interna che ha svolto una funzione propulsiva. Ma di questo parleremo alla fine.
Il “Progetto Socialista” presentato al Congresso di Torino si collocava nella prospettiva di trascendere il capitalismo nel lungo periodo ed era molto in sintonia con la ricerca dei socialismi francese e svedese. Mentre il “programma a medio termine del PCI” (dello stesso periodo) si muoveva più nell’ambito della socialdemocrazia classica. Entrambi i progetti rimasero lettera morta, in quanto negli anni 80 l’inizio della controffensiva liberista e capitalista costrinse la sinistra ad un ripiegamento ideologico. Negli anni 90 lo stesso programma di Bad Godesberg fu considerato statalista e massimalista da una pseudo-sinistra liberaloide che aveva smarrito se stessa.
Ma la ricerca autonomista dei socialisti della fine anni 70 mirava anche a contestare la visione organicista della democrazia che emergeva dalla strategia del compromesso storico: vale a dire la riproposizione di una ricomposizione unitaria della società italiana tramite un accordo unitario tra i grandi partiti di massa. Secondo i socialisti, ed in particolare secondo la sinistra lombardiana, tale modello non era in grado di rappresentare e governare una società attraversata da fermenti e tensioni nuove, sempre più plurale ed articolata. Il modello di democrazia conflittuale che si basa sulla regolazione del conflitto tra posizioni e progetti alternativi era più in grado di rappresentare l’evoluzione della società e si accordava con una concezione autogestionaria e libertaria del socialismo.
Il confronto politico e culturale tra socialisti e comunisti di quegli anni fu di livello molto elevato (soprattutto se lo confrontiamo con il dibattito politico odierno), ma, negli anni 80 esso degenerò da parte del PSI in una politica di contrapposizione frontale con il PCI (in parte, ma solo in parte, determinata dall’arroccamento settario ed integralista dell’ultimo Berlinguer). Il periodo storico avrebbe bisogno di una analisi più approfondita. Schematizzando il ragionamento, Craxi cercò di ricavare il massimo di potere contrattuale per il PSI finalizzato ad una sua forte crescita elettorale, dopo il fallimento del compromesso storico che fu duramente pagato dal PCI in termini politici ed elettorali. Craxi pensava che solo il riequilibrio elettorale fra i due partiti della sinistra avrebbe creato le condizioni per una alternativa alla DC. L’anomalia italiana di un PCI più forte del PSI di fatto aveva creato le condizioni per la centralità democristiana e la mancanza di alternativa nel sistema politico. Quindi per costruire l’alternativa o il PCI si evolveva e si riunificava con il PSI in una grande forza laburista o si dovevano riequilibrare i rapporti fra i due partiti.
Ora, però, Craxi, perseguì questo riequilibrio senza badare alla coerenza tra mezzi e fini. Per cui alla fine gli uni entrarono in contraddizione con gli altri e con la stessa natura del PSI. I processi degenerativi nel PSI degli anni 80 hanno tale radice politica.
Giorgio Ruffolo ha affermato che Craxi ed il craxismo sono, in un certo modo, due fenomeni distinti. Nel senso che Craxi personalmente restò sempre un socialista convinto nella sua cultura politica. Non ha senso considerare Craxi un antesignano di Blair o di Schroeder o comunque delle derive moderate e liberali di una parte del socialismo europeo degli anni 80 (lo è stato molto più D’Alema che Craxi). Basta del resto leggere quello che lui ha scritto fino alla fine. Craxi è stato un oppositore delle privatizzazioni, ha sempre creduto nell’intervento pubblico all’interno di una economia mista. Non ha mai nascosto le sue critiche di un processo di globalizzazione che se pur agli inizi manifestava una tendenza ad accrescere disuguaglianze e squilibri. E poi in politica estera Craxi è stato un fautore di un ruolo autonomo dell’Europa all’interno dell’Alleanza Atalantica: l’opposto di Blair. In realtà quello che si è poi definito craxismo per certi aspetti non rifletteva il pensiero vero di Craxi.
Come tale il craxismo è stato un grave fenomeno degenerativo del socialismo italiano. Lo è stato nel modo di dirigere il partito (e qui Craxi ha una grave responsabilità personale): nella personalizzazione della leadership, nel conformismo dilagante, nell’aver favorito l’ingresso di sarti e soubrettes, in una propensione per il Kitch (vedi il tempio al Congresso del 1987) e soprattutto nell’aver provocato una competizione negativa sia a livello nazionale che locale tra capi e capetti (i craxini) sulla spregiudicatezza nel modo di conquistare il consenso (per cui al finanziamento illecito al partito si è mescolato il finanziamento ai gruppi, alle cordate e gli arricchimenti personali.) Lo è stato per la deriva ideologica (ma qui Craxi non c’entra) verso una visione asettica ed acritica della modernizzazione (Martelli e De Michelis) – ma tale visione non è stata ereditata dalla maggioranza DS?
Ma il PCI negli anni 80 fu incapace di costruire una alternativa praticabile al craxismo. Dopo la morte di Berlinguer il partito andò alla ricerca di una via d’uscita dalla sua profonda crisi identitaria che non trovò fino al 1989. In realtà Berlinguer tentò di fornire un collante identitario al partito sulla “questione morale”. L’analisi di Berlinguer sul processo degenerativo dei partiti che da strumenti di organizzazione della democrazia si trasformavano in macchine di potere sempre più soffocanti e pervasive era sostanzialmente corretta; così come il dato inoppugnabile che il carrierismo prendeva il posto della tensione ideale. Ma Berlinguer non individuò le cause di tali processi degenerativi. Essi stavano proprio in quella concezione organicista e consociativa della democrazia di cui abbiamo parlato prima. Ora il meccanismo consociativo che esclude l’alternanza connesso ad organizzazioni partitiche fortemente pervasive costruisce un sistema chiuso che punta a rendere la politica autoreferenziale ed a distaccare i partiti dal compito primario di organizzare il consenso e contribuire alla formazione di orientamenti politici nazionali. Qui scatta l’elemento degenerativo che provoca l’emergere della questione morale. C’è da sottolineare che fu proprio il PSI che, alla fine degli anni 70, contestò (come abbiamo visto) la democrazia consociativa e la concezione organicista della politica (implicita nel Compromesso Storico), apparve, alla vigilia di Tangentopoli,come il più tenace difensore della partitocrazia.
Ma torniamo al PCI. La questione morale e la “diversità comunista” non potevano certo sostituire una strategia politica organica: proprio mentre le distinzioni ideologiche tra PSI e PCI si assottigliavano. Una parte del PCI si rese conto che il partito non era oramai più comunista ma di fatto socialdemocratico e si doveva prendere coscienza di ciò tramite il definitivo superamento della scissione di Livorno e la riunificazione con il PSI. Un’altra parte insisteva sulla diversità e sulla critica al PSI per la questione morale. Quest’ultima posizione in realtà favorì proprio quelli, all’interno del PSI (De Michelis, Amato) che in nome del governismo, ostacolavano il riavvicinamento dei due partiti storici della sinistra.
Una posizione che mette al centro la questione morale e la diversità quale identità distintiva di un partito, impedisce al partito stesso di costruire una strategia di largo respiro da offrire a tutta la sinistra. In più alcune interpretazioni del pensiero di Berlinguer appaiono come anticipatrici di tendenze antipolitiche e giustizialiste. Una simpatia per Di Pietro di alcuni settori della sinistra si spiega con tali radici. In realtà la questione morale non si affronta se non si individuano le sue cause politiche e diviene solo un argomento propagandistico in mano a mestatori e professionisti dell’indignazione (Santoro, Travaglio).
Nell’89, pertanto, avviene quello che abbiamo detto all’inizio: i due partiti della sinistra non riescono a superare i propri limiti. Il contestuale fallimento dei rispettivi progetti politici (quello di Craxi e quello di Berlinguer) non vengono rimpiazzati da nessuna nuova idea feconda.
Il PSI fu travolto da Tangentopoli. Abbiamo visto ed analizzato i processi degenerativi che si erano prodotti nel partito e non si possono fare sconti a tal proposito. Ma era interesse della sinistra e dell’intera democrazia repubblicana che non sparisse una forza genuinamente socialista dal panorama politico. Il PSI (come anche gli altri partiti) aveva bisogno di una profonda riforma interna che lo liberasse dalla zavorra accumulata negli anni 80 – un processo che non poteva essere indolore e mettesse in discussione leadership, strategie segnando una netta discontinuità.
Ma la distruzione, ed ancor più la demonizzazione della stessa memoria storica socialista, ha rappresentato un punto di non ritorno per la sinistra italiana.
Il PDS, lungi dal far propri i valori più profondi del socialismo italiano, ha dato vita ad una subcultura novista di un eclettismo impressionante in cui si mescolavano suggestioni liberaldemocratiche e nostalgie comuniste, ha cavalcato il giustizialismo per salvare se stesso dall’ondata antipartitica che se pur esprimeva in parte una sincera protesta contro le degenerazioni della politica veniva alimentata all’unisono dai poteri forti che controllavano la stampa e dai professionisti dell’indignazione.
Crollato il PSI e non essendo stato in grado di assorbirne la cultura il PDS cerca di legittimarsi quale forza di governo stringendo rapporti forti con i settori più importanti ed internazionalizzati del capitalismo italiano e sul piano politico con una alleanza di ciò che era rimasto della DC (in particolare, ma non solo, della corrente De Mita). L’Ulivo e Prodi sono frutto di questa scelta politica, necessaria in quella fase per contrastare il populismo della nuova destra berlusconiana.
Non ci interessa tanto fare la cronaca di quel periodo quanto di valutare le conseguenze che la strategia del PDS (poi DS) hanno determinato sulla sinistra.
L’eclettismo ideologico e la rescissione dei rapporti con la cultura socialista (compreso quella che era pur parte importante dello stesso PCI) hanno posto di fatto i DS all’ala destra del PSE per la politica economica e sociale, sostenendo privatizzazioni selvagge da neofiti del liberismo senza i necessari contrappesi della democrazia economica e di una adeguata politica industriale, promuovendo riforme del mercato del lavoro (Pacchetto Treu) che introducono elementi esasperati di flessibilità (lavori atipici) senza regolarli adeguatamente e senza promuovere i necessari diritti.
Di qui il progressivo sradicamento sociale della sinistra che resta sempre più priva di un robusto radicamento nel mondo del lavoro il quale viene attratto dalle sirene di una destra populista. Di certo lo sradicamento sociale non viene compensato da una sinistra antagonista (PRC) che ha una vocazione minoritaria e comunque attrae più spezzoni di movimenti che non certo fasce importanti di lavoratori e ceti popolari.
Nei DS c’è chi avverte la preoccupazione del rischio di progressiva marginalizzazione della sinistra e si tenta con la “Cosa 2” di rilanciare l’idea di una sinistra di governo radicata nel PSE ed in grado di recuperare l’area socialista. Ma il processo resta intenzionale: muore sul nascere sia perché avversato da un pezzo importante dei DS (Veltroni ed i suoi seguaci) sia perché D’Alema opportunisticamente lo utilizza come trampolino per conquistare Palazzo Chigi, lasciando la segretaria in mano a chi non crede affatto al progetto. In realtà solo la vecchia anima socialdemocratica del PCI (Napolitano, Macaluso) ed alcuni importanti dirigenti (Angius, Salvi) credono fino in fondo nell’esigenza di costruire un partito socialdemocratico.
Dal fallimento della Cosa 2 la sinistra è andata progressivamente perdendo i non molti consensi che aveva (i DS scendono dal 21,7 del 1996, al 16,3 del 2001 al 17,4 del 2006). La deriva che porta al PD diviene inarrestabile.
Ma è difficile comprendere il declino della sinistra se non si tiene conto della profonda crisi della democrazia italiana prodotta da una transizione politica senza fine.
Dal 1994 l’Italia è un regime post-democratico: il maggioritario, l’ondata antipolitica e qualunquista succeduta a Tangentopoli, l’incapacità della sinistra di riformarsi in senso europeo, portano un plutocrate megalomane che costruisce con le sue ricchezze un partito personale, alla guida del paese. E’ una svolta epocale (in senso regressivo). Berlusconi è il vero fondatore della post-democrazia chiamata II Repubblica, nel senso che su di lui regge tutto l’impianto su cui si fonda il sistema di relazioni politiche. E’ Berlusconi che fonda il linguaggio politico da marketing e costringe gli avversari a seguirlo; tutto il sistema si regge sulla contrapposizione Berlusconismo-antiberlusconismo. Agli storici del futuro potrà apparire strano come un paese come l’Italia sia potuta impazzire politicamente a tal punto.
Purtroppo è stata l’incapacità della sinistra perché priva di un pensiero forte a contrastare il processo di depoliticizzazione della società ad aver aiutato il Cavaliere.
Il maggioritario ha finito per indebolire ulteriormente il ruolo e la funzione dei partiti a favore della personalizzazione e di nuove forme di notabilato politico. Le varie elezioni dirette (sindaci, presidenti regioni) hanno ulteriormente agito in tal senso. A ciò occorre aggiungere la profonda e devastante crisi della cultura politica, il successo che a sinistra ha avuto il pensiero debole e de-costruzionista, la profonda de-moralizzazione (per usare un termine di Ruffolo) della società italiana (emergere di egoismo aggressivo, perdita di senso e significato delle cose) aggravata da una vera e propria regressione culturale al cui centro c’è un sistema televisivo produttore della peggiore immondizia. Questo avviene in una società in cui le disuguaglianze sono accresciute in modo esponenziale, dove della povera gente non si occupa quasi più nessuno.
Ma la post-democrazia produce anche corruzione ed immoralità dilagante, rispetto alla quale impallidiscono gli anni 80.
Berlinguer quando denunziò la questione morale, si riferiva, come abbiamo visto, alla gestione dei partiti. I partiti, pur essendo degenerati, riuscivano in qualche modo a controllare e regolare l’illegalità e l’immoralità politica.
In un sistema post-democratico dove i partiti sono in realtà aggregati di notabili e di capi-bastone, molti sono partiti personali, la gestione della cosa pubblica passa per un sistema di intermediazione fondato sull’ occupazione da parte di clan e bande rivali e trasversali dello spazio pubblico. L’incremento delle indennità, dei costi ingiustificati della politica, produce sempre più carrieristi ignoranti ed arroganti.
In tal modo la sinistra si è autodistrutta . Ma è evidente, dalle cose che abbiamo, detto che tale autodistruzione viene da lontano.
Oggi la sinistra vive un momento difficile in tutta Europa. Ho già detto altrove che la crisi sistemica del capitalismo attualmente in corso ha colto la sinistra sbandata e senza progetto. Sia la sinistra socialdemocratica una parte della quale nell’ultimo quindicennio ha subito forti derive moderate e si è rassegnata all’egemonia del capitalismo liberista, sia la galassia eterogenea della sinistra radicale europea che non è stata capace di andare oltre la pura testimonianza o una sterile protesta.
A ben vedere questa crisi chiude un ciclo apertosi agli inizi degli anni 80. Un ciclo che ha visto la sinistra sulla difensiva.
Poco prima dell’apertura di questo ciclo un pezzo del socialismo europeo aveva, come abbiamo detto, aperto una riflessione su di un socialismo democratico oltre il capitalismo. Una riflessione che interessò la socialdemocrazia svedese, i socialisti francesi, la sinistra socialista italiana.
Elemento unificante di tale riflessione era immaginare il superamento dei limiti della socialdemocrazia classica per un superamento del capitalismo nella democrazia e nella libertà (e quindi contestando radicalmente il comunismo realizzato).
Forse oggi è questa riflessione che va ripresa da parte della sinistra sia europea che italiana. La crisi cambia profondamente i connotati delle nostre società. Nulla sarà come prima, questo dobbiamo saperlo. Oggi c’è una risposta da destra alla crisi che immagina una società meno libera, meno democratica, xenofoba ed aggressiva, con una visione caritatevole del welfare: l’imbarbarimento istituzionalizzato.
La risposta della sinistra non può che consistere in un nuovo socialismo democratico e libertario che riprenda il sentiero interrotto della fine degli anni 70.

Può darsi che all’inizio del millennio si riproponga la alternativa di Rosa Luxemburg tra socialismo e barbarie.

 Giuseppe Giudice

 
 
 
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