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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

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MILLENOVECENTOSETTANTASETTE

Post n°32 pubblicato il 30 Giugno 2006 da falco58dgl

Iris ha due occhi blu intenso. Uno è mobile, l’altro sembra guardare fisso. Una cicatrice -piccola ma netta- le attraversa la guancia. I seni sono piccoli, tondi, alti. E’ sottile, slanciata, il corpo androgino. Porta un casco di capelli biondi, ha il volto di una bambina corrucciata. La trovo bella, di una bellezza strana, conturbante.
Si fa incontrare alle assemblee del movimento dove prendo la parola, come se passasse lì per caso. Mi sorride, mi dice qualcosa che non afferro, va via. Tutt’intorno almeno cinquemila persone che urlano, si scontrano, si rubano la parola, si spingono via dal tavolo della presidenza, danno indicazioni contrastanti, mimano il gesto di sparare all’indirizzo di polizie vecchie e nuove.
Domani il movimento scende in piazza, dopo quindici giorni di occupazione e la cacciata del sindacato dall’università. Si sbraita di servizio d’ordine, si parla di “autodifesa”, di “criminalizzazione da parte delle forze repressive”, di “solidarietà con i compagni in galera”, si va via senza che nulla sia stato deciso.
Ritrovo Iris alla fermata dell’autobus mentre sta salendo sulla circolare che la porta a casa. Le chiedo se vuole mangiare un piatto di pasta da me, rimane con la gamba a mezz’aria, ridiscende senza voltarsi, dandomi la schiena.
Sono così sorpreso da quel movimento- meccanico e sciolto allo stesso tempo- che mi do del cretino. Chissà da quanto voleva che glielo proponessi. Sento anche un pizzico di paura, come chi sa di andare verso una meta desiderata e pericolosa.
Sto da un po’ di tempo con Marina. Lei si serve di me per far ingelosire il suo fidanzato che vive a Perugia. Scopa con me per recuperare lui. Non m’importa tanto, in quel frenetico ed incasinato marzo del ’77, tutti stanno con tutti, c’è un movimento perenne di persone che salgono, scendono, s’incontrano, si siedono, si agitano, corrono, si dimenano, dormono in letti altrui.
Andiamo a casa, non è lontano. Saliamo cinque piani di scale, la faccio entrare, metto su l’acqua della pasta ed intanto mi sintonizzo su “Radio Città Futura” che parla dei contrasti in seno al movimento, dell’ala dura dell’autonomia che vuole trasformare il corteo in un teatro di scontri, mentre il resto dei collettivi e delle organizzazioni vuole scendere in piazza con forza, ma senza innescare episodi di guerriglia.
“Sei preoccupata?”, le chiedo. “Non tanto, al massimo scappiamo”.
Mi sorride con un’espressione indefinibile, che mescola grazia e sfrontatezza.
La guardo e penso che quella fottuta pentola ci mette un sacco di tempo a mandare l’acqua in ebollizione.

Al corteo sono diviso tra il timore di prendere un candelotto lacrimogeno in faccia ed il ricordo di quello che è successo nel pomeriggio del giorno prima, quando Iris mi regalato un piacere sconosciuto. C’è uno spiegamento di polizia che fa paura. Migliaia di celerini in assetto di guerra, a ranghi compatti, dappertutto. Ma neanche i manifestanti scherzano. Vedo rigonfiamenti sospetti sotto i giacconi e mi auguro che siano soltanto bastoni. Si sussurra che il collettivo
di architettura, da solo, ha preparato 120 molotov. Mi ritrovo, chissà come, a delimitare un tratto di corteo con una spranga di ferro che qualcuno mi ha dato.
Mano-spranga-mano, così occorrono meno persone per fare il servizio d’ordine.
Ma è una fatica sprecata. Dal corteo si staccano gruppi di persone che devastano un hotel, bruciano decine di automobili, mentre il cielo diventa livido e la pioggia si mescola con i bagliori degli incendi ed il fumo dei lacrimogeni.
Iris mi prende per mano, lasciamo il nostro spezzone ed andiamo avanti.
Siamo una marea, ma si sentono distintamente raffiche di colpi di arma da fuoco, a sinistra, a destra, in lontananza, sempre più vicino.Il corteo si spezza in diversi tronconi, ognuno dei quali sembra percorso da correnti contraddittorie.
Gente che corre in direzioni diverse, che ritma slogan, che impreca, che urla “via via”, non si sa se alla polizia o ai guastatori.
A Piazza del Popolo non si entra, il corteo sembra essere una mandria di bufali inseguita dall’odore del fuoco che sbanda e devia. Una parte piega verso il ponte, alcuni tornano indietro, qualcuno prosegue sul lungotevere verso quello che sembra essere uno stretto collo di bottiglia. Spari di mitraglietta bucano il frastuono infernale.
“Andiamocene”, urlo. Butto la spranga, mi slaccio la fascia rossa dal braccio, prendo Iris per mano, m’infilo in un dedalo di stradine costeggiato da vetture fumanti e schegge di vetro, ci facciamo largo miracolosamente in mezzo ad una moltitudine che sembra aver smarrito direzione e senso e corre alla cieca bagnata fino al midollo e semisoffocata. Arriviamo in un viale ampio e riusciamo a prendere un tram che pare aver ignorato il divieto di circolazione.
Ci guardiamo in volto. “Che giornata di merda, cazzo”, sibilo.
Lei incolla il suo corpo al mio e mi dà un bacio a piene labbra.

Torniamo a casa e sento una sensazione d’irrealtà che mi pervade.
Il quartiere è buio e tranquillo, ma la radio parla di centinaia di arresti, della città in stato di emergenza, di feriti e di saccheggi.
Ci spogliamo, tiro fuori degli asciugamani grandi, ci asciughiamo, ci avvolgiamo nelle lenzuola per recuperare un po’ di calore.
Non ho voglia di fare l’amore, ho le gambe pesanti, i polmoni gonfi di vapori acri, le braccia esauste. Restiamo così, come candidi fantasmi appoggiati uno all’altro a godere del silenzio.
Solo alle tre del mattino penetro Iris come se volessi fecondarla, come se volessi vederla, sei mesi dopo, al congresso di Bologna con una pancia prominente che sbuca dai suoi jeans e modifica il suo profilo androgino.

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(in seguito a uno spiacevole episodio
avvenuto su un blog della community)

 

LA RECENSIONE

usumacinta

DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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