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BELLAS ARTES (seconda parte)

Post n°35 pubblicato il 08 Agosto 2006 da falco58dgl
 

Chissà se in quel tempo l’aria della notte portava l’odore dei vulcani e della antica laguna di Tenochtitlan, come ha scritto Fuentes, oppure se la capitale era già uno sterminato cantiere di cemento e ferro.   Da allora  sono passati sessant’anni, tre generazioni, una guerra mondiale, una guerra fredda, il Partito Revolucionario Institucional  è diventato una macchina di corruzione diffusa e consenso manipolato. Il paese è mutato, mi dico, ha ripetuto troppe volte le stesse formule fino a svuotarle di significato, la ribellione culturale e sociale si è estinta, sommersa dalla penetrazione di valori e prodotti di  un’altra America, le città vengono prese d’assalto da contadini che s’inurbano,  affollano all’inverosimile  las ciudades perdidas, simili a  metastasi diffuse a raggiera intorno  agli spazi urbani.

 Chissà cosa voleva questa donna, penso, quali fantasie inseguiva, quali desideri  di esplorazione e comunione hanno animato i suoi giorni,  come s’innamorava e sceglieva gli uomini che si sono avvicendati nella sua vita. Le sue opere mi consegnano alcune risposte parziali. Rivelano un carattere attento, curioso, uno sguardo che cerca di guardare dietro la superficie delle cose. Vedo una fotografia di rose che paiono dipinte e due fiori sospesi su due gambi lunghissimi affiancati, a disegnare quasi lo spazio di un pube vegetale. Una ragnatela di fili della luce si libera in aria e punta dritta verso un cielo nuvoloso in un tripudio di sfumature di grigio. E poi i volti, le mani, i piedi di uomini che lavorano,  di bambini davanti a uno stand di giocattoli. Le donne dell’istmo nei loro vestiti tradizionali mentre si recano al mercato di Tehuantepec, ombra e luce tra le mura massicce del convento di Tepotzotlan.

Rivedo le forme, i colori, la tessitura di questo territorio che amo di un amore ambivalente. Non è poi cambiato tanto, mi dico, l’essenza è rimasta identica a se stessa. Ritrovo nei volti, nelle espressioni del viso, nei gesti, il carattere di questo popolo, di questo paese che mi ospita da più di due anni..

 Mi muovo verso un’altra sala e rimango abbagliato dal quadro “las dos Fridas”  della Kahlo. Si rappresenta nei suoi quadri –e in questo in particolare- più brutta di quanto fosse in realtà, con un’espressione sofferente e altera, lo sguardo dolente, il cuore in evidenza che esce dal torace e che la lega mediante una vena al cuore del suo doppio, all’altra Frida  tradita e abbandonata. Una lieve peluria ricopre il suo labbro superiore. Tina, invece, la ritrae  vestita in modo tipico, nel suo costume da tehuana, con i capelli divisi a metà, annodati in lunghe trecce e  diverse collane che tracciano cerchi concentrici intorno al suo petto,  insieme a un enorme Diego Rivera, un gigante che guarda sorridendo verso  una ragazzina. Si conoscevano, erano amiche. Tina sembra più solare, più fiduciosa nel futuro, nella sua capacità di viverlo, cavalcarlo, di proiettare i suoi desideri su uno spazio-tempo reale, concreto, fatto di persone  che vogliono vivere un’esperienza diversa, qui e ora, non in un momento imprecisato dell’avvenire; Frida pare più ripiegata su se stessa, segnata dall’esperienza del dolore e della perdita, ma tenace nella sua voglia di vivere e amare.

Otto giorni prima di morire Frida scrisse “viva la vida!”, mentre stava terminando il suo ultimo quadro. Me la immagino nella sua casa di Coyoacan, circondata da angurie, manghi, guanabanas e papaye, mentre impasta sulla tela i colori della sua terra.

Sono contento che le abbiano messe insieme, che abbiano fuso le loro esperienze di vita in questo spazio provvisorio, pieno di presenze distratte e conviviali.

Tina è morta nel ’42,  quasi quarant’anni prima  che  dirigessi i miei passi verso questo paese di altopiani. Frida l’ha seguita dodici anni dopo, pochi mesi dopo la mia nascita, ma ciò che hanno ritratto in foto e  su tela  sono vivi, sono reali, sfidano l’usura del tempo.

 Mi aggiro per le sale, provo a tornare indietro all’improvviso, come se volessi estrarre dai quadri, dalle foto, significati che possono essere colti solo di sorpresa, in un loro momento di distrazione e abbandono. Do uno sguardo sgomento al quadro in cui Frida si dipinge  con uno squarcio nel petto, da cui affiora la colonna vertebrale rotta, chiodi conficcati nel seno e nelle braccia, il corpo tenuto insieme da fasce bianche che assomigliano a bende, gli occhi pieni di lacrime, uno sfondo di terra erosa, frastagliata e colma di crateri. Accanto, a fare da contrappunto, l’immagine di un sorridente Vidali che guarda verso la macchina fotografica.

Do un’occhiata all’orologio, sono le ventuno e  trenta.   Il museo si vuota, i custodi iniziano a fare gesti  che indicano la chiusura imminente. Mi ritrovo fuori, una serata fresca e umida, il selciato sembra bagnato da una pioggia invisibile. Penso che a quell’ora la metropolitana è quasi vuota, cammino con le mani in tasca  verso la stazione, mentre il viso di Tina stinge dolcemente  sulla strada di Bucarelli.        

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(in seguito a uno spiacevole episodio
avvenuto su un blog della community)

 

LA RECENSIONE

usumacinta

DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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