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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.
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GIOVANNA
I
Quando incontro Giovanna per la prima volta ho quasi ventun anni. E sono ancora vergine. Una fastidiosa fimosi, unita a paure profonde e inconfessate, ostacola i miei desideri. Sono un giovane uomo tutto sbilanciato, a cominciare dal mio aspetto fisico. Ho la netta sensazione, vedendomi allo specchio, che le due metà che compongono il mio corpo, che le due parti del mio volto sono giustapposte in modo casuale e arbitrario, quasi incollate da una mano estranea. Lo squilibrio in realtà è emotivo, lo capisco da me. Il corpo ne costituisce solo un riflesso imperfetto. Avverto grandi ambizioni e limiti più pesanti di pietre che convivono insieme con difficoltà. Avrei voglia di cambiare l’universo, il mio universo, eppure non riesco neanche a vivere una vita ordinaria, fatta di modeste, tenaci abitudini. II
La incontro all’università. Parliamo insieme. Mi dice che sta uscendo da una vicenda dolorosa e brutta, di quelle che lasciano strascichi e fanno sorgere rancori. Le chiedo dove vive, mi risponde mettendomi in mano un foglio a quadretti con un indirizzo scarabocchiato. III
Ci rivediamo tre giorni dopo e dopo aver parlato a lungo insieme la bacio, senza pensarci, per precedere il mio timore. Per una manciata di secondi non vedo niente, solo l’odore della sua pelle e le nostre bocche che s’inseguono con furia. Poi si stacca da me, quasi con rabbia. IV Squilla il campanello, apro la porta. Giovanna mi fissa di sbieco. Entra in casa ancora prima che io la saluti. “Mi posso fermare?”. Andiamo a letto insieme senza neanche toccarci. Proviamo a dormire su un letto a una piazza. Dobbiamo mettercela tutta per evitare che i nostri corpi entrino a contatto. V Non riesco a fare l’amore con Giovanna. Mi sento così emozionato e balbettante che il mio pene non si rizza del tutto. Non riesco a penetrarla. Il suo corpo s’inarca sotto il mio, ma qualcosa cui non riesco a dare parole mi frena. Continuiamo quel balletto incompiuto a lungo, poi lei mi dice in un soffio delicato “Lascia perdere, Igor. Lo faremo un’altra volta”. Mi carezza il viso, mi bacia il collo. VI Ce l’ho fatta. Sono entrato dentro di lei. Ma non sono felice. Mi sento strano, una sensazione di irrealtà mi attraversa, ho l’impressione di aver smarrito ogni punto di riferimento abituale. E’ troppo facile, mi perdo in quello spazio sconosciuto e vuoto. Giovanna asseconda il mio movimento prima timido, poi più risoluto. Mi muovo sempre più rapido per ritrovarla, temo di averla smarrita, dimenticata. Dopo l’orgasmo giacciamo a lungo avviluppati senza parlare, ma la sento distante, quasi infastidita. VII Da quel momento la nostra vicenda incomincia a complicarsi, a diventare difficile. Non so bene, ma credo che la mia perduta verginità, il ritrovare i gesti consueti dell’amore sia un ostacolo, una barriera, più che un momento di gioia comune. VIII Facciamo a volte l’amore come due disperati che vedono incombere su di loro una rovina imminente. Poi nulla per una o due settimane. La paura di perderla mi annulla, mi rende simile a un idiota. IX X Piango per una settimana, a intervalli che rendono il mio pianto più acre e sincero. Ho un gran desiderio di farmi del male, di provare dolore fisico, o almeno di dormire. Passo invece le notti a inseguire pensieri che si sfilacciano prima di averli afferrati. Vorrei distruggere anche lei, la parte di lei che mi ha rifiutato. Writer |
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"DIECIMILA E CENTO GIORNI"
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LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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