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Marcella

Post n°93 pubblicato il 07 Febbraio 2007 da falco58dgl
 

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1923, l’esordio.

Un tramestio di passi veloci che scuote il pavimento di legno della stanza. Voci concitate che s’inseguono e rimbalzano accavallandosi le une sulle altre. Una donna grassa che urla ”sta per nascere, vedo la testa”, in un grande ribollire di acqua calda, sangue, confusione, finti svenimenti e malori veri, agitarsi di vicine, porte aperte e rinchiuse, messaggeri che portano novità inconsistenti a un uomo semi accasciato sulla poltrona del salotto. Marcella nasce in un giorno quasi tiepido di febbraio, in una capitale che è stata da poco invasa da migliaia di persone entusiaste e inebriate dalla loro stessa convinzione, che hanno marciato a lungo, occupando i punti nevralgici di quello che era stato, in tempi lontani, il centro di un impero sterminato.

1930, la scuola.

Via Bava Beccaris, un edificio di mattoni rossi e pareti male intonacate. Quaranta scolare sedute ordinatamente davanti a banchi di legno pesante. Calamai enormi da cui s’attinge l’inchiostro autarchico. Una maestra che insegna canzoni di guerra e di vittoria, impettita e rigida come a una sfilata.
“Perché non canti, Marcella?”. “Sono senza voce, signora maestra”, replica una bambina con le trecce e un filo di voce esitante. “Bugiarda, canta anche tu come le altre”.
Lacrime di rabbia, mentre occorre salmodiare rime che parlano di giovinezza e bellezza. 

1938, la legge

“E’ fatto divieto agli ebrei e a tutti coloro i quali abbiano un’ascendenza ebrea di esercitare i pubblichi impieghi, di insegnare, di gestire aziende, di frequentare scuole di ogni grado. Il matrimonio del cittadino di razza ariana con persona appartenente ad altra razza è proibito. E’ di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica. L’appartenenza alla razza ebraica deve essere denunciata e annotata nei registri civili e della popolazione”.
Marcella aveva ereditato dalla madre- scomparsa precocemente agli albori della sua memoria- un cognome prestigioso e antico, orgoglio e vanto di una delle dodici tribù che fondarono Israele, Levi.
Sentiva dentro di sé una doppia appartenenza, quasi una duplice fila di stimmate che l’allontanavano dagli altri ragazzi.
“Sono ebrea”, pensava trasognata, mentre infilava a passi svelti le scale del liceo “Torquato Tasso” e prendeva posto in uno degli ultimi banchi, confinata tra il muro e le chiacchiere astiose e pettegole delle sue compagne.
Si sentiva diversa, ma non ne soffriva troppo. Era orgogliosa, Marcella, fiera della sua identità.
 Avrebbe solo voluto scambiare qualche parola in più, spezzare quel silenzio ostentato che alludeva a lei, senza nominarla direttamente.

 1940, l’avventura

A 17 anni, Marcella si trova in guerra. Realtà astratta e incomprensibile, se giocata lontano da casa propria. La coglie da piccoli cambiamenti. Generi alimentari che iniziano a scarseggiare, maggiore vigilanza nelle strade, le esercitazioni nei rifugiantiaerei, la radio oscurata. Ne è quasi felice, assurdamente. Tutto quel movimento di coscritti, l’annuncio di una vittoria rapida e sicura, la frenesia contenuta che percorre la città, le danno l’impressione di una grande, tragica festa, organizzata da un padrone invisibile e potente.
E poi ha conosciuto Giacomo e lotta per non innamorarsene. Più si sforza di tenerlo lontano, più viene catapultata verso di lui dal suo stesso slancio. Marcella e’ stupita dal cambiamento di prospettiva, dal contrarsi e dal dilatarsi del tempo quando lo vede e stanno insieme. Giacomo possiede uno spirito sottile, capace di riflettere sulle cose che tutti trascurano e danno per scontate. Odia la guerra con tutta la sua energia, la definisce “un inutile macello”, ma non sembra preoccupato dall’idea di venire reclutato il prossimo anno.

1943, la fame.

Occhi incavati, a frugare nella madia della cucina, ripetendo una ricerca rituale dall’esito scontato. Fughe notturne verso scantinati protetti, con la speranza che il sibilo perforante cessi di colpo.
La ricerca di cibo come un lavoro, il lavoro per mantenersi in vita. C’è chi traffica, c’è chi ruba e chi si rivolge a parenti con amicizie importanti, pur di strappare qualche razione in più. Marcella s’arrangia come può. Il padre non esce più di casa, assorto nella sua rovina. Giacomo è partito per il fronte russo da otto mesi e non manda notizie da almeno dieci settimane.
Ma sopra ogni cosa, la fame. Martellante, continua, s’alimenta di se stessa e non scolora mai in debolezza rassegnata. No, lotta per uscire e imporsi. Marcella mangia l’indispensabile per sentirla sempre, ovunque.
 La fame.

1944, l’epilogo

“Dove mi stanno portando?”. Ammucchiata insieme a decine di persone su camion tedeschi, Marcella non è neanche troppo spaventata. Avverte un filo d’angoscia, che si dilata e si restringe insieme  al procedere dei mezzi sulla strada dissestata.
Ha saputo da alcuni fratelli di fede dei campi di concentramento, ma le notizie sono così inverosimili che stenta a crederci. I resoconti su mucchi di cadaveri, camere a gas e denti strappati le appaiono farneticazioni di persone che hanno perso il lume della ragione.
Arrivano su un ampio spiazzo e vengono disposti in tre file da soldati rabbiosi e urlanti.
“Siamo centinaia”, pensa Marcella con un senso di soffocamento crescente.
Un fremito simile a un’onda di terrore percorre le persone radunate. Qualcuno piange e si dispera, altri mantengono un silenzio attonito.
A gruppi di dieci vengono portati lungo una parete traforata da buchi di proiettili.
Solo allora Marcella capisce e decide di anticipare il suo destino.
Si mette a correre veloce, urlando frasi inarticolate e zigzagando, libera come un uccello.
Passano cinque secondi e una scarica di mitragliatore interrompe il suo volo.

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LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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