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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

« Frammenti di ViaggioOaxaca: una lotta sconosciuta »

Cría cuervos

Post n°111 pubblicato il 12 Marzo 2007 da falco58dgl
 

“All’alba del lunedì la città si svegliò dal suo letargo di secoli con una tiepida e tenera brezza di morto grande e putrefatta grandezza.”

Gabriel García Marquez

immagine                                  (Ruth Schloss, "Corvi")

Mi fanno ribrezzo quelle propaggini nude del corpo che si offrono senza pudore, che scrutano l’interlocutore e che richiedono altri sguardi, come se fossero mantidi voraci impegnate a divorare se stesse. Meduse viscide e lisce che trasmettono intenzioni e significati. Riesco a sopportare solo le persone che portano lenti scure e pesanti. E’ come se vedessero un paesaggio senza essere visti, come se guardassero da un periscopio invisibile che s’innalza da profondità sottomarine.

Detesto anche le mani nude, simili a ragni che si muovono senza requie, tracciando segni nell’aria, accompagnando le parole, come se i suoni che escono dalla bocca avessero bisogno di aiuto per essere trasmessi, non ce la facessero da soli a raggiungere i propri destinatari.

I piedi mi provocano schifo. Le dita bitorzolute, le unghia lunghe, le vene in rilievo, i calli, l’ampiezza della pianta che deve sostenere il peso di corpi grassi e indolenti, il loro colore bianco rosato, quell’odore di carne che inizia a puzzare, a marcire, tutto ciò va coperto, spogliato dalla sua forma animale, nascosto dentro grossi stivali o anfibi che hanno il difetto di essere modellati su quelle forme spregevoli.

Non riesco a trovare parole idonee per esprimere la mia ripugnanza per la pancia, soprattutto quella che pende dal corpo come un insieme di pieghe sovrapposte. Ma anche i ventri magri, tenuti piatti da ore di esercizio o da cure estetiche che incidono il corpo e lo modellano, mi appaiono come miseri tessuti che foderano uno scheletro scelto, non a caso, come rappresentazione della morte.

Non voglio neanche menzionare l’ombelico, orrida cavità che ricorda la nascita dell’essere umano, quel legame di necessaria simbiosi che mantiene in vita, e che richiama la natura animale della specie.

Ma il massimo dello schifo è rappresentato dai genitali, escrescenze oscene e disgustose, pieghe e rilievi putridi di carne che suppurano umori vischiosi e odori di muffe marce, contaminati da urina, smegma e sangue mestruale. Esibirli in pubblico è un atto di tradimento, nel significato proprio del termine, un “consegnare” la propria miseria agli sguardi altrui, compiacersi della propria oscena nudità. Occorrerebbero vesti ampie e larghe e almeno due capi di biancheria intima (“intima”, termine osceno anch’esso, come se gli indumenti che ricoprono il sesso fossero contaminati dalla sua esplicita impurità) ruvidi e sovrapposti, per nascondere quel simbolo primordiale della sconcezza che alberga in esseri così imperfetti.

Adesso andate. Spiegate le ali, cingete d’assedio le città dove albergano gli umani, fiaccate a beccate le loro finestre e entrate a nugoli nelle loro case.

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avvenuto su un blog della community)

 

LA RECENSIONE

usumacinta

DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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