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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.
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Nuweiba
Post n°201 pubblicato il 12 Novembre 2007 da falco58dgl
Memorie di un viaggio in Sinai... La jeep s’inerpica su una strada larga e dissestata, quasi un’autostrada di polvere in mezzo al deserto. Promontori di terra ocra dai finestrini. Terra rossa e cielo cobalto. Pietre bianche e brune, un albero stento ogni due chilometri. Una casupola irreale su uno slargo del terreno. Viaggiamo da più di tre ore e le risate hanno ceduto il posto a un silenzio affaticato e alla ricerca di una posizione comoda per le gambe, spossate dall’immobilità forzata. Un posto militare. Soldati che controllano svogliatamente passaporti e visti. “Come mai questo controllo, se non abbiamo varcato nessuna frontiera”? “Il Sinai è terra di confine, è stato occupato da Israele nel ’67 e restituito all’Egitto nel ’75, in seguito agli accordi di Camp David”, spiega la guida in un ottimo italiano. Proseguiamo. Un microscopica oasi fatta di tre case e una ventina di palme appare all’improvviso e scompare inghiottita dal tornante successivo. La pista sembra scomparire. Davanti a noi solo una serie di buche e avvallamenti nel terreno che costringono le “Land Rover” a procedere caracollando, mentre ci reggiamo forte per evitare di sbattere l’uno contro gli altri. Un ultimo strappo e siamo arrivati. Il canyon si rivela come un anfiteatro di rilievi montuosi dalle tonalità cangianti disposti a semicerchio. Un sentiero di pietra scende giù serpeggiando. Ci incamminiamo dietro la guida che ci mostra i differenti colori delle pareti. “Il rosso è il rame, il giallo è lo zolfo, il verde e il nero è ferro, il bianco sono fosfati”, ci dice indicandoci le striature orizzontali che attraversano le gole del canyon. Ci ritroviamo in un cunicolo strettissimo, a volte di soli sessanta centimetri di larghezza, sovrastato da pareti di decine di metri di altezza. Leggo con raccapriccio una scritta sulla roccia che sembra tracciata con un gesso, “forza Roma” e penso che l’imbecillità umana non ha confini. “Sarà questa la globalizzazione?”, mormora uno dei miei compagni di viaggio. “Sì, quella dei fessi”, rispondo sibilando. Intanto il percorso diventa accidentato, come se una mente capricciosa avesse voluto costringere i visitatori a fare acrobazie per penetrare il segreto delle montagne. Dobbiamo passare attraverso una fenditura nella roccia che termina in uno scivolo verticale di due metri, il buco della rinascita per la sua somiglianza con una vulva femminile, da cui usciamo a fatica; occorre aiutarsi con le mani e con la schiena nei punti più impervi. Alla fine, il canyon si allarga e posso salutare un beduino seduto per terra all’ombra dell’unico albero della zona con un “salam aleikum”. Si cammina spediti ora e lo sguardo può indugiare sui profili del “canyon colorato” e riconoscerne le sedimentazioni stratificate nel tempo. I ragazzi che viaggiano con noi (due giovani di Milano e due ragazze di Trento) hanno ripreso a ridere, mentre percorriamo il fondovalle in una calda giornata di fine dicembre e ci apprestiamo a risalire dall’altro capo del canyon. La pietraia è abbacinante, non posso fare a meno di pensare all’estate quando la temperatura raggiunge i cinquanta gradi e l’aria è tremolante di un caldo secco che procura vertigini. Siamo in cima adesso e guardiamo verso le montagne che abbiamo attraversato. Silenzio, solo una mano che indica una linea davanti a noi, tracciando un lieve movimento. Mi accendo una sigaretta, prima di rientrare nella jeep che ci porterà verso il mare, le spiagge di Nuweiba e il profilo scabro delle coste dell’Arabia, dall’altro lato del golfo di Aqaba, porta immaginaria dell’Oriente. |
IL MIO ROMANZO
CLAUDIO MARTINI
"DIECIMILA E CENTO GIORNI"
BESA EDITRICE
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avvenuto su un blog della community)
LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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