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Fino alla fine del mondo
Post n°218 pubblicato il 19 Dicembre 2007 da falco58dgl
Il 1999 fu l'anno in cui il satellite nucleare indiano impazzì, nessuno sapeva dove sarebbe potuto cadere. Si librava, appena al di sopra dello strato dell'ozono, come un micidiale uccello rapace. Il mondo intero era in allarme, ma Claire, in quel periodo, viveva un suo incubo privato. Sognava tutte le notti un volo silenzioso, su una terra sconosciuta. Al principio la sensazione di volo era piacevole, ma poi diventava una sensazione di caduta, e successivamente di panico. E si svegliava di soprassalto. Nell'autunno del 1999 a Claire Tourneur capitava di svegliarsi in strani posti… ("Fino alla fine del mondo", Wim Wenders, 1991)
“Fino alla fine del mondo”, qualcosa più di un film. Un desiderio, un progetto di futuro, una visione dei rapporti e del pianeta alle soglie del millennio morente. Una vicenda che parte da Venezia, una Venezia onirica piena di megaschermi, ampi saloni colmi di persone, bambini che non dormono mai, palazzi immemori del corso del tempo e si snoda tra il sud della Francia, Parigi, Berlino, Lisbona, Mosca, la ferrovia transiberiana fino a Pechino, Tokio, una locanda dispersa in un punto imprecisato del Giappone, davanti a colline verdeggianti e alberi ignoti, una San Francisco feroce e indifferente, fino ad approdare alla fine della terra, il continente australiano, con i suoi deserti rossi e le sue estensioni orizzontali senza limiti. La fine del mondo, metafora di una geografia estrema e di un pericolo che grava sull’umanità, quel satellite nucleare simile a un uccello rapace che minaccia di contaminare con la sua carica radioattiva il mondo intero e che verrà distrutto da una testata atomica pochi giorni prima del passaggio all’anno 2000, rendendo attuali le ansie millenariste e i timori di apocalisse che corrodono l’anima dell’ umanità. “Fino alla fine del mondo”, un film sui ricordi e sulla cecità, un protagonista che gira il pianeta intero, inseguito da una donna e da un paio di detective che lo cercano per riscuotere una taglia, per registrare testimonianze di parenti che potranno essere viste, mediante un congegno avveniristico, dalla madre che ha perso il dono della vista. Ma quella macchina permette anche di visualizzare i propri sogni e vedere i propri sogni provoca una dipendenza micidiale, simile a quella dell’eroina, come se gli uomini e le donne di oggi non riuscissero a vivere nel presente, ma avessero bisogno di attingere vitalità ed energia da un’altra realtà, più essenziale e primitiva, quella delle pulsioni, liberate da rapidi movimenti oculari, dei desideri segreti, remoti, tenuti nascosti nelle zone protette dell’inconscio (come nel rapporto tra realtà virtuale e “real life”, il capovolgimento che alcuni riescono ad operare, rendendo la realtà un epifenomeno delle interazioni di rete). I protagonisti vogliono addormentarsi per sognare e vogliono risvegliarsi per poter osservare rapiti le proprie creazioni, le proprie immagini oniriche, come un sogno capace di sognare solo se stesso, che si alimenta da sé, autosufficiente. Il rapporto con la terra e la scrittura come antidoti alla dipendenza, come modi di risvegliarsi, di ripercorrere la propria strada, di controllare il mondo invece che esserne dominati. “Fino alla fine del mondo”, una pellicola che ho visto la prima volta nel 1992 e rivisto un paio di settimane fa nella sua versione integrale, quattro ore e quaranta di volti, città, di spostamenti, emozioni, tecnologie, in parte ormai obsolete, in parte ancora futuribili, ricerca di senso, di amore, di condivisione, di assoluto, di superamento delle differenze individuali, di riconoscimento della diversità. Qualcosa più di un film. Writer |
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LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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