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Il ballottaggio per il sindaco di Roma

Post n°266 pubblicato il 23 Aprile 2008 da falco58dgl
 

Questo blog generalmente non si occupa di attualità politica. Ma, nel caso delle elezioni comunali di Roma, ho deciso di fare un’eccezione.

 

Rutelli non mi è mai stato eccessivamente simpatico. Mi appare  pomposo, solenne, quando parla pare guardarsi compiaciuto allo specchio, non mi ha convinto la sua conversione moderata e ossequiosa alle indicazioni del Vaticano, ma, se vivessi a Roma, voterei senza esitazioni per lui al ballottaggio delle elezioni comunali. Vedere come sindaco di Roma un ex fascista mi sembrerebbe uno sfregio alla “Città eterna”.

Le elezioni del 13 e 14 aprile hanno visto una vittoria netta della destra (niente centrodestra, proprio destra-destra), una destra che non ha uguali in Europa, che vede coalizzate due formazioni autonomiste, una delle quali fortemente inquinata dal razzismo e da una virulenta polemica verso i “diversi” e una cartello elettorale (P.D.L) che contiene  un partito post fascista e un partito di proprietà del più grande monopolista  televisivo d’Italia e d’Europa. In Europa non c’è niente di simile: i conservatori inglesi, la democrazia cristiana Spagnola, i democristiani e i liberali tedeschi appaiono come formazioni progressiste al confronto con il cosiddetto “popolo della libertà” e della Lega nord. Quasi un italiano su due ha votato per loro, segno di una mutazione profonda dell’elettorato che sente arrivare una crisi economica violenta, la quale erode  il potere d’acquisto dei salari, getta molte famiglie nella categoria delle nuove povertà, rende precario il futuro di chi si affaccia sul mercato del lavoro. I temi della sicurezza e dell’immigrazione – pur rilevanti e fondamentali- sono stati agitati dalla destra come uno spauracchio strumentale per i ceti a basso reddito, che vedono la loro posizione minacciata dall’arrivo di mano d’opera a basso costo, ricattabile e strutturalmente precaria e, in qualche caso, dedita ad attività marginali e illecite.

Bene, su tutto questo è stato scritto parecchio – ho trovato molto acuta l’analisi di Mino Fuccillo, giornalista di “Repubblica”, che attribuisce il successo della destra alla paura degli italiani di misurarsi con il cambiamento reale che la condizione attuale impone, quindi alla ricerca di un “salvatore”-, ma sulle elezioni di Roma voglio spendere qualche parola.

Alemanno non è un politico qualunque, è stato segretario generale del fronte della gioventù, organizzazione giovanile del M.S.I, ai tempi di Almirante. E’ stato in carcere nel 1989 per aver guidato una manifestazione con i giovani del FdG. Manifestazione che riuscì a bloccare il corteo del Presidente americano Bush (padre) per protestare contro la celebrazione  dell’intervento alleato  del 1943- 1945 che liberò l’Italia dal Fascismo.

Storace e la Santanché hanno dato indicazioni di voto per lui. E non c’è da stupirsene, visto che condividono- anche se da partiti diversi- lo stesso orizzonte di idee e di valori.

Non voglio una capitale  amministrata da persone che credono che l’immigrazione vada risolta con le espulsioni di massa e il controllo militare del territorio (è opportuno ricordare che la legge che regola i flussi migratori è ancora la Bossi- Fini) o che vogliono limitare i programmi culturali della città. Non voglio una capitale gestita da una burocrazia assenteista (Alemanno, quando era consigliere comunale, ha partecipato solo a 23 sedute su  108 sedute complessive, una su cinque, eppure rivendica nel suo programma la lotta contro l’assenteismo nell’amministrazione della città). Non voglio un programma che propone la costruzione di due nuovi stadi per la Roma e per la Lazio, senza indicarne la copertura finanziaria e che annuncia “tolleranza zero” ed “espulsioni di chiunque violi le regole”.

Soprattutto non voglio che la capitale del paese venga gestita da chi, fino a poco tempo fa, riteneva una sciagura la guerra di liberazione e il ripristino della democrazia in Italia.

Se vai a votare domenica per il ballottaggio, pensaci.

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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