Creato da falco58dgl il 26/09/2005

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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

« AgostoDa "La fermata" »

Sogni e risvegli

“Ho realizzato il mio sogno;  non ci credo, mi pare un sogno; il mio sogno è diventato realtà, il cinema è sogno…”. Un intero universo  di persone addormentate, strettamente abbracciate ai loro movimenti oculari rapidi, che si esprimono con un vocabolario di duecento parole e che esercitano il diritto alla parola come un esercito di sonnambuli che cammina in bilico su un cornicione a strapiombo tra una  realtà impoverita, un alfabeto prosciugato  e  la prostituzione del linguaggio.
I miei sogni, invece, sono escrescenze di paure primordiali, di pulsioni dimezzate, di ripetizioni appena simbolizzate, di ossessioni che reiterano motivi ricorrenti. Non hanno bellezza, non hanno un’autonomia estetica, come qualche letterato sostiene.
 

Due colpi alla porta, urlo “chi è?”, una voce risponde “apri”. Apro e vedo una persona in piedi e un’altra sdraiata per terra, che non distinguo con chiarezza. Passa una frazione di secondo e un colpo di fucile risuona come una cannonata e mi spezza una gamba. Cado a terra di schianto, mentre la persona accucciata si è alzata ed è diventata all’improvviso un’ombra gigantesca che protende verso di me un fucile a canne mozze. Urlo “perché”? Sento una voce che grida parole sconnesse con un timbro da giudizio universale, mentre il fucile sta per sparare di nuovo contro il mio petto e uccidermi. Mi sveglio con una sensazione di lucido allarme, arrabbiato più con me stesso  che ho dato forma a quelle immagini angoscianti che con gli aggressori onirici.

Un’altra notte sogno di stare in compagnia di un gruppo di persone che chiacchierano tra di loro. Una persona si rivolge a me e mi dice “c’è una persona che ha sete”. Metto a fuoco lo sguardo e vede una donna alta non più di quindici centimetri, in piedi su un ripiano, i piedi immersi in una pozza gialla che assomiglia a pipì. Le porgo un bicchiere d’acqua grande come la metà del suo corpo, chiedendomi come farà a bere. Lo inclino con cautela verso la sua bocca e lei, con tre sorsi mostruosi, deglutisce una quantità di liquido pari quasi al suo peso.

Mi sveglio inquieto e pensieroso e vado al lavoro con un senso di oppressione come se avessi dimenticato qualcosa di essenziale, un’epigrafe in un linguaggio sconosciuto che mi si è rivelata davanti agli occhi per una frazione di secondo prima di tornare nell’oscurità consueta.

Il sogno non ha nulla da spartire con un progetto realizzato, con il successo o con una vittoria. E’ fatto di ideogrammi che si combinano in modo capriccioso, mettono in rilievo zone nascoste e, spesso, inaccettabili della nostra psiche. Non è un caso se ne dimentichiamo uno gran parte, come se avessimo timore di trovarci faccia a faccia  con un fantasma o forse, più sottilmente, con la paura che il fantasma riveli il volto del capoufficio, del vicino detestato, di un amore finito male, di un giorno di apatia e depressione, di un desiderio di morte.

Per questo detesto i volti che s’aprono in sorrisi di circostanza e le espressioni stereotipate che tirano in ballo i sogni quando occorre descrivere qualcosa di grande, di bello, di significativo, di trascendente. E’ osceno, come un giornalista che domanda al congiunto di un assassinato se perdona gli uccisori del marito, del figlio, della madre. Mi verrebbe voglia di prendere il microfono e di spaccarlo in testa a  chi formula un interrogativo di questo tipo, dettato da un imperativo commerciale  e non da un interesse verso la persona sofferente.

Sogno, perdono, partecipazione, federalismo, istituzioni, bisogni, sostegno alle famiglie in difficoltà, un intera gamma di espressioni marce che si usano come in un gioco di simulazione per alludere al contrario, per creare un insieme di stereotipi che ottundono il cervello, che ci immergono in una realtà fittizia, in un universo di significati perduti.

Non voglio sognare, desidero stare ben sveglio e dire a chiare lettere cosa non sopporto di questo presente fatto di frasi fatte e manovre che restringono la libertà concreta di ciascuno di noi.

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LA RECENSIONE

usumacinta

DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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