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ALLA TORRE DI ABELE...

Post n°14 pubblicato il 08 Febbraio 2006 da falco58dgl

Entro nel bar “Norman” piuttosto nervoso. Mancano 25 minuti alle sei. Ordino una camomilla, pensando che la mia ansia nasce dalla città, più che dalla presentazione. Presentare il libro nella mia città, in questa Torino che vivo in modo ambivalente, mi provoca una sensazione strana, che non riesco a mettere a fuoco. Entro in libreria, mancano venti minuti, la sala è deserta. Incrocio Stefano Della Casa, lo riconosco solo perché l’ho visto recentemente in televisione. Da quando si andava a giocare a pallone insieme nei giardini di “piazza Benefica” sono passati quarant’ anni, eppure ricordo quel senso di sottile insoddisfazione che già allora visitava le mie giornate. Saluto Leopoldo Grosso con una vigorosa stretta di mano. Entrano due colleghe e rimango stupito, mormoro “che sorpresa!”. Il treno che arriva da Milano con alcuni amiche è in ritardo, un crocchio di persone staziona fuori dalla libreria. Dico loro “stiamo per iniziare”, come se fossi un addetto all’organizzazione, più che l’autore del romanzo. Scendo un piano di scale e arrivo nella sala delle presentazioni. Mi appare gigantesca, spero in cuor mio che si riempia per un terzo. Parlotto del più e del meno con Stefano, del suo programma “la venticinquesima ora”, tengo d’occhio le persone che arrivano a gruppetti, tormento i fogli scritti con la traccia del mio intervento. Cerco di decifrare un foglio su cui ho scarabocchiato alcuni frasi quasi illeggibili. Alzo la testa, rimango quasi a bocca aperta. La sala è praticamente piena, dalla prima fila all’ultima.

 Le sei e dieci. Do la parola a Leopoldo. Lui esordisce dicendo che ha letto il romanzo in un giorno e mezzo e che è rimasto colpito dalla dimensione dell’”incontro” tra persone, dal fatto che incontri inaspettati determinano cambiamenti sostanziali nella vita dei personaggi. Mi chiede come mai le donne del romanzo sono forti e determinate, mentre gli uomini sembrano essere incerti e precari. Leggo un brano ambientato a Puno, al confine tra Perù e Bolivia, in un silenzio denso, udibile.

"E’ più dura di quanto pensassi. Qui a Puno, sulle rive del lago Titicaca, la prima cosa che mi ha colpito sono gli indigeni che cercano di venderti i loro oggetti di artigianato o ti propongono un tour di due giorni in barca per visitare il lago. Sono tanti, parlano uno spagnolo elementare e povero e ti guardano da distante, ripetendo poche frasi con una cantilena monotona…”

Adesso parla Stefano e afferma che è rimasto incuriosito dalla dimensione generazionale del romanzo, dal suo essere un libro sulla generazione del ‘77. Il romanzo, sostiene, è strutturato come un film “a montaggio alternato”, con storie che si svolgono in parallelo. Rievoca il periodo in cui andavamo a scuola insieme, dai 10 ai 15 anni. Mi sento più sereno mentre prendo la parola e parlo del tempo, dei luoghi e dei personaggi del libro. Chiedo a un amico presente in sala di raggiungermi al tavolo. Leggiamo insieme, alternandoci, il capitolo che narra la presa del municipio di San Cristobal de las Casas da parte dell’esercito insorgente dei zapatisti.

 Lui è bravissimo, legge con passione, alza la voce: "Ma OGGI NOI DICIAMO BASTA! Siamo gli eredi di coloro che hanno forgiato la nostra identità nazionale, siamo milioni di persone che vivono da diseredati e chiamiamo tutti i nostri fratelli a unirsi alla nostra lotta”.

 Gli faccio da contrappunto, con un tono più smorzato: “Vedo José, Guillermo, Isabel, la mia Sylvia, decine di altre persone seguire attente, concentrate, come se aspettassero questo momento da una vita intera, da molte vite che si sono avvicendate come in una staffetta tra le generazioni e che li ha portati fin qui, a condividere questo istante”,

 Parte un applauso, ringrazio i partecipanti con un cenno del capo. Mi sento bene, adesso, leggero e con la mente sgombra, mentre numerose persone si avvicinano al palco col libro tra le mani per chiedere una dedica. Firmo, abbraccio e bacio tutti, anche sconosciuti di 60 anni in giacca e cravatta o giovani studentesse che mi danno del “lei”. Prendo il microfono e dico “chi vuole può continuare la serata alla Roar’s road, anche se lì è vietato parlare di libri”.

 La serata è fresca, ma non gelata, penso avviandomi verso la birreria insieme a gruppi di persone che camminano sotto i portici di via Pietro Micca.

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LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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