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Terra Nera

Post n°20 pubblicato il 19 Marzo 2006 da falco58dgl

Il romanzo di Alemanno, scrittore di Manduria (Taranto), propone un quadro spietato e veridico delle condizioni di vita dei “cafoni” meridionali. Non c’è via di uscita, non c’è salvezza, a meno di essere disposti a tutto, proprio a tutto, pur di sfuggire alla condizione di “servo della gleba”, del bracciante agricolo che deve spaccarsi la schiena per dodici ore al giorno in cambio di un salario da fame.

Il protagonista del romanzo- Nino- è un ragazzo animato da una volontà di potenza assoluta: non indietreggia davanti a niente, né all’omicidio – quando accoltella il padrone colpevole di voler sedurre sua madre-, né alla delazione, per indirizzare i sospetti dell’omicidio su un amico, né al tradimento e agli intrighi per diventare prima “capo”, poi padrone. Si muove attorniato da una schiera di personaggi mossi esclusivamente dalla difesa del proprio potere personale o da una rassegnata accettazione dello stato di cose esistenti. Zio Peppe, astuto e pericoloso imbroglione che vive in una capanna isolata e a cui la gente del paese si rivolge per risolvere problemi e conflitti personali; il padrone dei terreni che accetta di pagare il funerale del padre di Nino in cambio del possesso di sua madre; i cafoni senz’anima disponibili ad accogliere la propria condizione come un elemento naturale in una società in cui le differenze tra padroni e servi sembrano risalire alla notte dei tempi; il medico che si eccita nel visitare l’ adolescente che diventerà la madre del protagonista.

In mezzo a questo panorama fosco, emerge il desiderio di ribellione incarnato dal movimento anarchico. Ma è un’anarchia anacronistica e vista attraverso le lenti del disincanto e dell’ironia, in un momento storico segnato dall’affermazione del socialismo marxista tra i proletari agricoli e industriali. La discussione che avviene tra l’anarchico Bruttacapa, il professore e i braccianti sembra ricalcare moduli propri dell’inizio del ‘900 e Nino ha subito la netta percezione che siano votati alla sconfitta. E infatti sceglie un’altra strada.

Forse quello che mi ha generato un sentimento di ansia durante la lettura è proprio questa dimensione di chiusura alla speranza, il ritratto di una società in cui solo assumendo il ruolo del carnefice, del padrone, si può accedere a una vita degna, come se il binomio signore/ servo esaurisse le possibilità intermedie, gli spazi di mediazione tra queste due categorie estreme.

Nel romanzo, il sesso (o, per riprendere le indicazioni della quarta di copertina, le vicende carnali) occupa un ruolo importante. Non si tratta di una sessualità basata sull’incontro, sulla relazione, ma sul dominio. Il sesso è concepito come possesso del corpo altrui a fronte di una condizione di radicale disparità. Diventa, in questo senso, analogo al possesso di merci e di status, un simbolo di potere e di scambio. Esemplare il passaggio in cui zio Peppe induce una postulante a una fellatio, in cambio di un suo intervento. Ancora più tragico il riferimento ai “cafoni” disponibili a immolare le proprie figlie in cambio di una dilazione nei pagamenti.

Ne viene fuori il ritratto di una terra immobile e fondata su stratificazioni sociali ferree. Dove l’anarchia avrebbe un effetto dirompente, se venisse assunta non come ideologia politica, ma come movimento che sovverte la rigidità mortifera dei ruoli e del ciclo di vita.

Se vogliamo muovere un appunto al libro, il quadro proposto appare eccessivamente netto e manicheo, soprattutto in funzione della sua collocazione storica. Ma lo sviluppo della storia narrata è, nel suo procedere e nel suo approdo finale, impeccabile.

Terra Nera, Giuse Alemanno, Stampa Alternativa, 142 pagine, 7 euro.

 
 
 
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LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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