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Ni una màs (neanche una in più)

Post n°429 pubblicato il 06 Marzo 2011 da falco58dgl
 

 

ciudad juarez

466 donne ammazzate  e mutilate nel 2010, più di 1.200 dal 1993, un tasso di omicidi senza pari al mondo, 130 persone uccise ogni centomila abitanti, 10 cadaveri in media al giorno. Una strage così feroce e vasta che è stato coniato il neologismo di “femminicidio”. Non stiamo parlando di Baghdad nel periodo dell’offensiva americana, né della Somalia ridotta in frantumi dalla guerra per bande e neanche dei massacri attuali in Libia. Tutto ciò è successo in una cittadina di un milione e mezzo di abitanti al confine tra lo stato messicano di Chihuahua e lo stato americano del Texas, una città che sorge su un altopiano desertico, crocevia di un traffico di sostanze stupefacenti che genera ricavi  per 60 miliardi di dollari l’anno, una città che ha un nome nobile e una quotidianità d’inferno, Ciudad Juarez. 

Il massacro delle donne a Ciudad Juarez è, per certi versi, ancora un mistero insoluto: le teorie prevalenti sono quelle di un’industria del sesso legata agli “snuff movies” (film in cui la vittima viene violentata, torturata e uccisa di fronte alla macchina da presa) o le lotte tra i cartelli della droga per acquisire una posizione egemone nel mercato della cocaina e delle metanfetamine. Non è da escludere neanche come fattore scatenante la drammatica composizione sociale di Ciudad Juarez, dove vivono centinaia di migliaia di emarginati che tentano di raggiungere clandestinamente il sud degli Stati Uniti.

 La dinamica degli omicidi è macabramente ben riconoscibile: le donne sono sequestrate, ma non vengono  assassinate il giorno del loro sequestro, sono tenute in ostaggio, violentate e torturate prima di essere uccise. Le donne provengono in genere da famiglie povere e sono a maggioranza impiegate nelle maquiladoras (imprese possedute o controllate da soggetti stranieri, in cui si assemblano componenti per l’esportazione).

Questi crimini, a oggi, sono totalmente impuniti; una coltre di omertà  circonda gli omicidi e coinvolge magistrati, giudici, politici e poliziotti, molti dei quali legati al narcotraffico e alla mafia locale. In molti casi, gli assassini sono stati derubricati a “crimini passionali” e “violenze domestiche”, mentre la passività delle forze di polizia suggerisce l’ipotesi che alcuni agenti siano coinvolti direttamente nei crimini che dovrebbero investigare.
Contro questo abominio, alcune donne hanno fondato un’organizzazione denominata “Nuestras hijas de regreso a casa”. (le nostre figlie di ritorno a casa) e hanno lanciato la campagna “Ni una màs” (non una di più), contro la violenza sulle donne in tutto il mondo e, specificamente, in Messico.

Marisela Ortiz Rivera, la fondatrice dell’organizzazione, ha giocato un ruolo fondamentale per denunciare il massacro perpetrato contro le donne di Ciudad Juarez e nel sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale, accusando la corruzione dello stato di Chihuahua e il comportamento omissivo delle autorità. Da quattro anni vive scortata, mentre il massacro non solo non diminuisce, ma si estende ad altri stati della repubblica Messicana.

Ieri, a Torino (città che ha concesso a Marisela Ortiz la cittadinanza onoraria) si è celebrata una manifestazione per ricordare la strage delle giovani donne a Ciudad Juarez. Più di cento donne si sono sdraiate per terra davanti alla Mole, per rappresentare il massacro, mentre una voce pronunciava i nomi delle vittime.

Nel cuore e nelle voci dei partecipanti un solo slogan, “Ni una màs”.

Ora e sempre.

W.

ni una mas

 

 
 
 
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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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