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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.
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Memorie di un viaggio in Corsica.
(Baia di Porto, Corsica)
Dopo venti chilometri di curve, Giorgio si sente male. Scende dalla macchina, guarda fisso un panorama di montagne granitiche e valli scoscese, si sostiene con un braccio sul palo di un cartello stradale e vomita un liquido rossastro. Poi ritorna in macchina e io lo accolgo con me sul sedile anteriore, abbracciandolo.
Continuiamo il nostro viaggio su una stradina stretta, una curva dietro l'altra, e un panorama che diventa sempre più aspro e maestoso. Le formazioni di granito rosso e il fiume che serpeggia giù in fondo fanno pensare a ere geologiche remote, a scontri titanici tra masse di terra increspate dal loro stesso urto, erose dal vento e abbandonate laggiù da un disegno capriccioso.
Arriviamo in cima al colle e scendiamo tutti giù dalla vettura. Un paesaggio alpino, fatto di chalet di legno e pietra e foreste di larici, fa da contrappunto alla calura e alle pietre infuocate che abbiamo lasciato giù di sotto.
Guardo Marisa con uno sguardo interrogativo. Mi scocca di rimando un'occhiata fredda. Da quando siamo partiti, alterniamo di continuo tensioni e momenti di calma. diverbi aspri e tenerezze. Solo Alex sembra immune da questo clima mutevole e tormentato. Ci voltiamo e lo vediamo in cima a una parete di roccia che ride e incita Giorgio a raggiungerlo.
Dal passo al mare ci sono solo trenta chilometri. Millequattrocento metri di dislivello La foresta d'Aytone appare come due secoli fa, alberi altissimi e frondosi su un terreno muschioso. In fondo, il profilo violento delle montagne, da cui partono cadute e dirupi simili a tagli netti inferti con una lametta.
Curve ampie, curve strette, tante curve.
Alla fine un cartello, "Portu". Giriamo a destra e ci troviamo all'improvviso nell'abitato del paese. Qualche albergo, poche case ricoperte di edera, dai balconi fioriti, bar e negozi. Non vedo il mare.
Poi Giorgio urla "guarda" e rimaniamo a fissare il golfo che si protende verso il cuore del mediterraneo come una conchiglia montagnosa. In mezzo un mare blu cobalto appena mosso.
Mormoro stupidamente "Cristo". Poi rimango in silenzio.
Rimaniamo a guardare il profilo della baia e le montagne che sembrano voler precipitare verso l'acqua. A sinistra la prospettiva è chiusa dalle Calanche e da una lingua di terra lunghissima che non riesco ad individuare. A destra il golfo s'estende fino alla Girolata e Scandola. Più di venti chilometri di picchi, contrafforti, insenature.
Andiamo alla ricerca di un albergo. Sulla piazza centrale non si trova una camera. Torniamo indietro da dove siamo arrivati. Vedo un cartello che dice "La marina". Entro e chiedo a una signora anziana che siede dietro un bancone, quasi scusandomi : "E' vero che non ha nessuna camera per quattro persone?".
Lei mi guarda e mi riponde in un Italiano corretto "Ne ho una. Tre italiani sono andati via proprio questa mattina". Mi conduce verso un ampio locale, un letto matrimoniale e due letti singoli, un bagno e un mobile indecifrabile che si rivelerà un frigo-cucina. "Questo marcia sempre", mi fa. Poi soggiunge "venga a vedere" e quasi mi spinge verso il balcone.
Rimango a guardare due pinnacoli di roccia rossastra che si stagliano su un massiccio montuoso impressionante. Sotto, un fiume di acque marine, placido e pulito. Alberi alti e rarefatti tra il fiume ed il monte.
Ritorno alla vettura quasi correndo. Saluto Marisa e i bambini con un gesto della mano. "Ho fatto", dico. "C'è la piscina?", mi chiedono in coro Alex e Giorgio. "Sì, venite a vedere".
Urla di giubilo, rese ancora più acute dal viaggio e dall'immobilità forzata.
"Prima portiamo le cose in camera". Ci carichiamo come ciuchi. Lasciamo le nostre valigie sul pavimento. Corriamo tutti quanti verso la piscina.
Marisa ed io ci sediamo su un lettino. Alex e Giorgio si tuffano a ripetizione. Sembra che abbiano fretta di uscire dall'acqua per potersi ributtare, in un gioco dal ritmo frenetico.
Per la prima volta da giorni mi sento sereno mentre guardo le asperità rocciose che dominano il paesaggio.
IL MIO ROMANZO
CLAUDIO MARTINI
"DIECIMILA E CENTO GIORNI"
BESA EDITRICE
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LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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