Creato da falco58dgl il 26/09/2005

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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

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I miei luoghi

Ho regalato a Cate, Cloudbreak e Bruno14 una copia del mio libro di narrativa, "Sguardi", un insieme di visioni sui luoghi e sulla sofferenza quotidiana.

Questo testo è l'incipit del mio libro.

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I miei luoghi, i miei.

Spazi. Posti della memoria e della mente.

Città, paesi, valli, nazioni, continenti, ambienti.

Scanditi dal ricordo, rincorsi, rivisti, vissuti, fantasticati, visitati un numero imprecisato di volte.

Il primo, l’utero materno, da cui sono stato strappato con un forcipe che mi ha frantumato il braccio destro in tre punti, leso la fronte e impedito di morire di asfissia.

Da lì è iniziata una deriva, un abbandono che il passo del tempo ha solo reso più stabile.  Sentirsi estraneo, straniero, senza radici, fuori posto, fuori luogo.

Il secondo, la casa paterna e materna di Taranto, affondata nella dimenticanza. Un martello di gomma smarrito, un ponte girevole, gli escrementi di cavallo per strada.

 Il terzo, Torino, città maledetta, scenario della mia rabbiosa insofferenza.

Torino, crudele e noiosa, irritante e formale, un posto buono per morire  d’inedia. Torino, la scuola, la piazza, il quartiere, quattro calci a un pallone.

Le montagne intorno. Le valli, verdi e bianche, una frazione di poche case e una chiesa chiamata “La Calma”.

E ho già, Dio mio, dieci anni.

Il quarto, la città Eterna. Apertura illusoria al mondo, tra l’isola Tiberina  e Via San Girolamo detta della Carità. Grumi di ribellione che bagnano vecchie pietre. Un girovagare assorto e impetuoso. Il perimetro di una fabbrica di birra che convive con una facoltà.

La scoperta del sesso, sul filo dei vent’anni.

Il quinto ha un nome che sembra un dolce insulto, Arezzo. Mura medioevali, strade contorte, il veleno delle chiacchiere. Fulgida campagna intorno. Un lavoro perso per  l’incapacità di alzarsi presto la mattina.

Il tempo accelera, scocca il primo quarto di secolo.

 Il sesto non è un luogo, ma una pluralità di condizioni, un’idea. L’America. Una porzione d’America, collocata tra il Rio Bravo e le foreste dello Yucatan. Si compone di numerosi punti disseminati su un vasto territorio. Troppo numerosi per nominarli. Qui esplode la mia gioia inconsapevole  e  realizzo chimere. Tra tutti i luoghi è il più pericoloso, poiché è il più vicino ai miei desideri. Me ne stacco a fatica, varcata la soglia dei trent’anni.

Il settimo è di nuovo la città maledetta. Ma è  diventata un’altra città, i giochi sono ormai consumati, mentre m’appresto a congedarmi dalla mia giovinezza.

S’arresta il movimento eccentrico, torno nel luogo che ho, fra tutti, più detestato. Lavoro, formalizzo un vincolo, aspetto novità che non arrivano.

Tutti gli altri luoghi sono varianti, ritorni, viaggi, prospettive diverse dello stesso fiume. Le capitali d’Europa, la val Germanasca, la val Pellice, alcune isole minori del mediterraneo, i confini tra nord e centro America, tutto questo è ormai solo un segno di lontananza.

Rivisito i miei posti, e ogni volta -siano essi metropoli o case e montagne piene del mio affetto-, sento un piccolo, percettibile dolore. Rivedere è celebrare un funerale differito, misurare un segno meno, cogliere distanze che si muovono in senso opposto ai tuoi impulsi.

I miei luoghi m’appartengono, fanno parte di me. Ma io non sono in loro. Io passeggio inquieto sulla scorza del mondo, mentre mi avvicino lentamente ai cinquant’anni.

Scrivo per ricordare.

I miei luoghi.

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"DIECIMILA E CENTO GIORNI"
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I MIEI LUOGHI

I miei luoghi m’appartengono, fanno parte di me. Ma io non sono in loro.
Io passeggio inquieto sulla scorza del mondo, mentre mi avvicino
lentamente ai cinquant’anni
.

Scrivo per ricordare.

I miei luoghi

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(in seguito a uno spiacevole episodio
avvenuto su un blog della community)

 

LA RECENSIONE

usumacinta

DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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