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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

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Analisi -e qualche altra informazione-

Post n°181 pubblicato il 24 Settembre 2007 da falco58dgl
 

Proprio oggi mi è arrivata una mail che contiene la proclamazione dei vincitori del premio Nabokov. Per la narrativa, è stato prescelto il libro  di     Romano M. Levante, “Rolando e i suoi fratelli L'America” – Andromeda Editrice, a cui faccio i miei complimenti. Con i blogger di Lecce ci vedremo in un’altra occasione. Nel frattempo, sono successe altre cose interessanti: sono stato segnalato nel premio letterario “Parole sparse”, sono stato selezionato tra i finalisti del Premio Carver. Un premio interessante, arrivato alla sesta edizione, punto di riferimento per l'editoria media e piccola,  che ha premiato in passato ottimi testi.

 

Vi mando un racconto che narra di una donna  e della sua analisi.

 

 

Ho un nodo allo stomaco che non riesco a sciogliere. Ansia che  mi blocca i  pensieri e  rende torpide le decisioni. Sono andata via da lui da poche  ore e già mi manca. Non so dire di preciso cosa  manchi, forse l'idea che non gli  sono più necessaria, che lui ce la fa bene senza di me. Rivedo la sua immagine  e mi sento stringere lo stomaco. Ripenso al sorriso  che gli  accende il volto e vorrei correre da lui. Ma è difficile, è  difficile. E non  perché lui sia già impegnato.
E' difficile perché non ho chiarezza su i miei propri desideri. Non so come  trasformarli in azioni.

Non so perché io l'ami così tanto. Pensare di non vederlo più  mi provoca un  dolore simile all'astinenza da nicotina, solo più intenso.  Penso che, se  non cambio e non faccio luce in me, lo perdo. Penso che se lo inseguo, lui  si allontana. Penso che comunque lo sto perdendo. E mi sforzo di far passare le ore, le conto, sento crescere la paura.
In attesa di un suo cenno.

***

Prima ero diversa.
Mi proteggevo con l'indifferenza. Mi sentivo cuocere a fuoco lento facendo  cose che non mi piacevano troppo. Agivo con svogliatezza, m'illuminavo di  desideri repentini ed effimeri che non reggevano un esame  più concreto. Volevo fuggir via verso luoghi lontani, desideravo collocarmi in un "altrove"  seducente perché non precisato, e intanto mi svegliavo tardi, passavo le  notti  a leggere romanzi  e trascinavo un disagio diffuso e sottile.
Quando l'ho incontrato, i miei desideri hanno trovato forma e collocazione. Li ho sentiti esplodere e vibrare dentro di me. Ne ho avuto paura e mi sono  difesa. Difendendomi ho reso il nostro rapporto difficile. Le difficoltà hanno acuito la voglia. E così via, in una girandola di sensazioni circolari  che mi facevano rimbalzare da un punto all'altro, che ha alimentato impulsi  contraddittori e ambivalenti, che mi provocavano nuove incertezze, nuovi slanci e vecchie paure.

***

 A volte penso che tutto questo sia  solo una manifestazione del timore  di  trovarsi di fronte a se stessi e alla propria incapacità di vivere.
Decentrarsi. Non considerarsi indispensabili. Vivere con leggerezza. Vorrei  farlo, lo vorrei davvero. Ma non ci riesco. Mi sento plumbea e pesante come  un pomeriggio piovoso a Milano.
Ho terrore che le persone che amo mi abbandonino. L'ho detto al mio analista pochi giorni fa. E' come se temessi di perdere la vita insieme agli affetti.
E, per evitare che ciò accada, spesso sono io a rompere, ad allontanarmi,  mutilando una parte che mi appartiene.
A volte mi sento una persona immatura e infantile. Una ragazzina mal  cresciuta. Incapace di prendere decisioni, rimettendole continuamente in  discussione, lacerata da conflitti che non riesco a sanare. Non voglio  suscitare pietà, no. Ma vorrei che le persone che mi sono care mi  accarezzassero e mi facessero tenerezze nel momento in cui ne ho bisogno.  Proprio in quel momento. Ho chiesto al mio analista se non fosse una  manifestazione di inguaribile narcisismo. Ma mi ha detto semplicemente " Continui. Non selezioni. Segua il filo dei suoi pensieri. Lei è in grado di rispondere a questa domanda".

***

Ho deciso di concentrarmi su di me. Non voglio proteggermi  dietro persone o eventi. Devo trovare risposte, sentire. Voglio sentire, riappropriarmi di sensazioni remote e nascoste, quasi cancellate ed espulse dai ricordi. Non voglio più vivere situazioni che mi annullano.
Quando mi guardo allo specchio, la prima cosa che colgo è il mio sguardo  ansioso e la piega amara della bocca. Non sono brutta, almeno così dice  Massimo, ma viene fuori dal mio volto  un senso di scontentezza che sembra solido e che allontana gli altri da me.
Vorrei capire perché propongo un'immagine così poco seducente, così  ostile. Perché non riesco a ridere, ad abbandonarmi, a dire sciocchezze.
Con mia madre il rapporto è stato  sempre molto teso. Percepivo in lei una  rabbia dissimulata di cui io ero l'oggetto. E mi sono sentita sempre inadeguata e piena di risentimenti di cui mi vergognavo e che hanno alimentato feroci sensi di colpa. Papà era una pasta d'uomo. Mite, gentile,  affabile. Ma lontano, terribilmente distante.  E succube. Per questo, pur  amandolo, lo detestavo.

***

Proprio oggi in seduta mi sono messa a piangere. Non so perché, ma ho  sentito venire su un groppo che non riuscivo a contenere. Parlavo di Massimo  e del nostro amore, della paura che lui mi lasciasse. Rammentavo  una  situazione in cui, dopo aver fatto l'amore, ci siamo rivestiti. Lui si è  infilato  i pantaloni, la camicia ed ha cercato di annodarsi la cravatta.
L'ho aiutato e, nel farlo, l'ho fissato negli occhi. Mi guardava calmo e,  alla fine, ha mormorato "grazie, amore mio". E io mi sono sentita  sciogliere.
Ho pianto a lungo, mescolando dolore e sollievo. Quando sembrava che mi  stessi calmando, riprendevo a singhiozzare forte. Avrei voluto che il  dottore mi tenesse per mano e mi accarezzasse il volto. Ma sentivo che era  lì, che partecipava e che non mi lasciava sola.

***

Ho deciso di concedermi con Massimo un periodo di riflessione. Voglio  vederci chiaro. Sono stanca di soffrire pensando che, prima o poi, lui se ne  andrà.
Sono stufa di tutto questo dolore che mi assale a cicli,  mi devasta e mi  lascia con i dubbi di sempre.
In realtà non lo amo più tanto. M'appare egoista, scostante e poco  affettuoso. Indifferente alle mie esigenze.
Stare lontano da lui, almeno per un po', mi farà bene.
L'ho detto al dottore. E mi è sembrato di cogliere una variazione nel suo  respiro.
Gli ho chiesto "vuole dire qualcosa?"

E lui mi ha risposto "anch'io sono passato attraverso la sua stessa  situazione. Per quello che vale, sono con lei".

***

Ho lasciato Massimo. Stranamente, senza troppi rimpianti.  Mi sento un po' meglio. Come se fossi entrata in una condizione di  convalescenza.
A volte mi sembra di aver socchiuso una finestra che era rimasta a lungo  sprangata e devo faticare ad abituarmi alla luce.

Sono contenta che ci sia un uomo dietro al  lettino che m'ascolta e mi aiuta  a dipanare i miei fantasmi.

Gli voglio molto, molto bene, forse lo amo, anche se so che non sarà mai mio.

Writer

 
Rispondi al commento:
zapata71
zapata71 il 25/09/07 alle 21:07 via WEB
Premessa: non sono un nick fasullo! Ci siamo appena sfiorati io e te, falco, quindi ci conosciamo poco poco: da questo poco, comunque, mi par di capire ke non sei un pazzo, e la tua penna sa scrivere più che bene. Resta a me oscuro il motivo per cui, non solo nel tuo blog, tanta gente riesca a farsi del male, a volere il male altrui, mi kiedo .. ma non ve ne sono abbastanza di brutture nel nostro quotidiano vivere? Buona serata gente, buona serata ...
 
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(in seguito a uno spiacevole episodio
avvenuto su un blog della community)

 

LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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