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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

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Solitudine

Post n°200 pubblicato il 08 Novembre 2007 da falco58dgl
 

    Pubblico sul blog uno dei racconti a cui sono più legato. Fa parte di "Sguardi", il mio primo libro di racconti. Narra la vicenda di un uomo anziano alle prese con un progetto impossibile... buona lettura.                      (Van Gogh, "Alle soglie dell'eternità" )                                                               

“Sono solo come Franz Kafka”. Tra tutte le frasi lette nelle migliaia di libri che compongono la mia biblioteca questa è quella che più m’impressiona e mi fa rabbrividire. L’idea che il genio non protegga dalla solitudine, anzi la favorisca in modi oscuri e allusivi,  serva a esaltarla e a renderla più aspra, mi colpisce come una verità dolorosa e irrimediabile, m’indica un obiettivo rovesciato, un diapason  che vibra al contrario.

In me non c’è nulla di geniale, tranne una fantastica aspirazione che il tempo ha reso sempre più vana. Ma, ormai da molto tempo, sono solo. Solo. Chiuso tra quattro pareti (chissà perché si dice sempre “quattro”, come se le pareti di una stanza fossero sempre identiche fra loro, come se ogni luogo non avesse diritto ad avere la propria storia intessuta nei muri), sepolto in una casa troppo grande e piena di ricordi che mi si ripresentano come  spaventapasseri logori e bucherellati.

Non mi fa paura avvicinarmi alla vecchiaia, il declino fisico che pure avverto attraverso segni ricorrenti e fastidiosi, l’approssimarsi della morte. No, a questo sono abituato. Il tempo prepara, scioglie i timori in una progressione sfumata, fatta di attimi che si accavallano e si comprimono l’uno nell’altro, rendendo remoti gli eventi passati e paludoso il presente. Non desidero  essere circondato da persone. I rapporti umani mi irritano, ne colgo subito l’aspetto vacuo, sterile, strumentale ed effimero. No, la mia paura della solitudine è il terrore di trovarsi di fronte a se stessi, consegnato a un dialogo esclusivo con un individuo che conosco troppo bene nei suoi limiti e troppo poco nei suoi slanci.

Dalla mia casa, dalle finestre del mio studio vedo un panorama urbano confortante nella sua decadenza. Edifici di cinque piani disposti a quadrato con cortili ampi nel mezzo, comignoli fumanti d’inverno, spianate di cemento accaldato e alberi bassi d’estate. I quadrati sono replicati fino ad abbracciare una superficie vasta, simili ad arnie costruite simmetricamente da un esercito di api laboriose.  Costruzioni che risalgono all’inizio del secolo, case che mescolano il liberty con il neoclassico, imitazione di una Parigi minore, decorose ma senza alcuna vivacità, senza vita.

 Non vedo quasi mai bambini giocare, ma forse è meglio così. M’infastidiscono le strida di questi embrioni di uomo e di donna, intenti a dare forma e voce ai loro impulsi momentanei. Nella mia solitudine odierna incide anche la ferma opposizione all’idea di una discendenza, di figli che prolunghino il tuo nome tradendolo e travisandolo. Karin ha tentato per anni di strapparmi un figlio dalle viscere ma, quando si è resa conto dell’inutilità della battaglia, mi ha abbandonato senza rimpianti.

Neanch’io ho sofferto molto. Le volevo bene e avvertivo una silenziosa complicità di ordine intellettuale che  rendeva la sua presenza funzionale al mio progetto di vita, ma quando è andata via, dopo un momento di stupita perplessità, mi sono abituato in fretta alla nuova condizione.

Ero giovane, allora. Portavo i miei quarantadue anni  come chi carica una valigia leggera o uno zaino poco voluminoso, dividendomi tra la facoltà di Filosofia e i miei progetti  di scrittura. Ricordo l’edificio di mattoni rossi, la cattedra posta sopra una breve scalinata di gradini a equilibrare l’altezza dell’anfiteatro dove gli studenti si sedevano compunti ad ascoltare e prendere appunti. E rammento anche il rigore con cui presentavo le lezioni, illustrando la filosofia Hegeliana, il pensiero di Kant e di Schopenhauer. Tracciavo ghirigori geometrici  collegati tra di loro da frecce e sottolineature, in un periodo in cui il gesso e la voce  erano  gli unici strumenti didattici in uso. Rispondevo secco e perentorio alle poche domande che mi venivano poste, come conviene a un docente che voglia mantenere intatto il prestigio della sua funzione.

Poi, tornando a casa, dopo aver consumato un pranzo frugale e aver esaurito i miei doveri universitari, m’immergevo nel progetto che ho accarezzato per tanto tempo e che ancora adesso mi visita come un rimpianto.

Progetto ambizioso, sterminato, esplicitamente irrealizzabile. Ridisegnare la storia del mondo. Tracciare una versione apocrifa dell’evoluzione del pianeta, dal cinquemila avanti Cristo fino ai nostri giorni.

Mi ero imposto un vincolo tuttavia, che rendeva l’operazione ancora più disperata. Non superare le mille pagine di testo, condensare, sostituire, cesellare, lavorare di fino. Simile a una stanza, a un cervello umano capace d’immagazzinare una quantità finita di oggetti o di pensieri, il mio libro si sarebbe spogliato di ogni orpello e avrebbe raccolto le pagine più fulgide di quella civilizzazione inventata. Ogni pagina in più sarebbe stata compensata da una pagina in meno, strappata e distrutta , scelta accuratamente tra quelle meno essenziali.

Ho incominciato a dipanare la mia narrazione da Atlantide, la cui esistenza era suggerita da documenti fino ad allora ignoti, ma non apertamente contraffatti.   Le ramificazioni di questa civiltà primordiale ma luminosa,  si sono disperse  tra l’alto Egitto, la Mesopotamia e il sud del Messico. Sono in pochi a sapere che la civilizzazione egizia ebbe inizio in realtà nella zona di confine con l’attuale Sudan e che, duemila anni prima dell’avvento dei Maya, dallo Yucatan fino al Costarica fiorì un popolo di straordinaria raffinatezza, di cui si è perso persino il nome.

Simile a un albero, i tre tronconi di Atlantide hanno gemmato nuovi popoli, nuove consuetudini e stili di vita che ho raccolto, trascritto e documentato minuziosamente. Un testo apocrifo, pensavo, deve avere maggiore solidità e pregnanza di una testimonianza autentica, deve possedere una coerenza interna che avvinca e seduca, che trascini  e convinca della propria verità il lettore.

I rapporti tra Oriente e occidente mi hanno permesso un’interpretazione ardita. Ogni persona di media cultura sa che l’occidente è stato plasmato, inventato e istituito dai popoli d’Asia. Così fu anche per gli antichi Greci e Romani. Nella biblioteca di Berlino ho trovato una testimonianza straordinaria che lega  i popoli dell’Asia minore alla  Grecia continentale, cinquecento anni prima della guerra di Troia. Fu così facile costruire una mitologia  che da Atlantide arrivasse a Roma, seguendo un itinerario sinuoso, il cui centro è situato tra il Tigri e l’Eufrate. 

Ho ritrovato lena e forza con la disgregazione dell’impero romano e l’alto medioevo, periodo in cui ogni leggenda è plausibile e la magia si contamina con  l’irrazionalità dei culti, l’avvento dei dominatori barbarici e con l’ambiguità delle fonti documentali. Ma  mi sono dovuto arrendere di fronte a Gütenberg e all’invenzione della stampa che ha crocifisso la mia fantasia, relegandola alla condizione di un vaneggiamento confuso, la costruzione di un universo posticcio e grottesco.

Può essere che questa sia una giustificazione arbitraria, mossa dal senso di colpa  e dall’impossibilità del compito. Forse  mi sono solo  stancato di inseguire le mie fantasie e non ho il coraggio di ammetterlo.

Non sono mai riuscito a oltrepassare la pagina 672, nell’anno di grazia 1476. L’idea di essermi arrestato esattamente cinquecento  anni fa non lenisce la frustrazione e il mio risentimento.

Da quell’istante ho avvertito una sensazione di crescente disagio, analoga a un dolore sordo e nascosto che si manifesta  in modo insidioso. Passavo ore intere a braccia conserte, senza appigli o rifugi che potessero deviare la mia pena. In questi ultimi dieci anni – tanti ne sono trascorsi dal fallimento del mio piano- ho vissuto una paralisi progressiva della volontà, mi sono rinchiuso in uno spazio vuoto e  liscio, simile a un campo bruciato, inaridito.

 Il telefono è diventato un soprammobile, non ricevo posta da tempo. Ignoro e vengo ignorato. Mi proteggo così dai pericoli di un desiderio tardivo. Esco di rado, limitando gli scambi allo stretto necessario. Ho preso accordi con il negozio sotto casa, mi portano su la spesa due volte alla settimana. Congedo il ragazzo con un cenno del capo e un biglietto di dieci franchi. Una donna provvede alle pulizie dell’appartamento.

Sono attratto dalla mia solitudine come un pezzo di legno da un gorgo in  cui finirà per scomparire.   A volte m’assale un bisogno di compagnia così immotivato che mi viene da sorridere. Lo scaccio come un pensiero molesto e sconveniente, come un desiderio indecente rivolto a una bambina.

Ho settant’anni  e la mia solitudine pesa, pesa come un macigno, anche se faccio fatica  anche soltanto a pronunciare queste parole. La debolezza  dura poco, per fortuna. M’affaccio alla finestra del mio studio e vedo la vita passare nella sua  infinita indifferenza.

E  provo uno strano sollievo.

 Writer

 
Rispondi al commento:
pinguina_felice
pinguina_felice il 09/11/07 alle 10:10 via WEB
Bello...il protagonista si mette in punizione in pratica, segue una specie di autodistruzione in seguita ad un fallimento! Ricorda l'atteggiamento di forte disperazione del protagonista di "Cronaca della luna sul monte", che però fugge dalla realtà trasformandosi in tigre!Mi piace!
 
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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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