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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.
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La città assomiglia a un quadro livido, espressionista. Nuvole scure che incombono su un traffico caotico, luci di fari, bagliori di metallo in movimento, stridio di clacson nel giorno che svanisce. Il circolo di cemento del metro Insurgentes, percorso da fiumi di persone che camminano rapidamente, trascinano pacchi e buste, stazionano, s’intersecano, fanno la fila davanti alle biglietterie, entrano in ristoranti dai nomi americani, osservano clown tristi che ridono di se stessi.
Diciotto e trenta, cala il tramonto su Città del Messico. Entro nella metropolitana, facendo uno slalom tra la folla, inserisco il mio biglietto, scendo le scale, mi ritrovo ad attendere il convoglio su un banchina formicolante di uomini, donne, bambini. Spingo per accedere al vagone, mi ricavo uno spazio di quaranta centimetri sul fondo della vettura, guardo davanti a me il percorso della linea uno che passa attraverso mezzo millennio di storia: Insurgentes Cuahutemoc, Balderas, Isabel la Catolica, Scendo lottando per non essere ricacciato indietro da chi vuole entrare in quel ventre mobile che continua la sua corsa verso l’aeroporto. Cammino fino a raggiungere la linea per Indios Verdes. Solo due fermate, ancora. Juarez, Hidalgo. Esco quasi di corsa, faccio i gradini due a due, riemergo all’aria aperta, scorgo l’Alameda Central e il palazzo neoclassico del museo di Bellas Artes, Mi fermo un attimo a guardare il parco pieno di alberi, panchine, venditori di tamales, chicles e cacahuates.
Mi avvicino all’ingresso, consegno l’invito a un uomo in giacca e cravatta, inizio a salire l’ampia scalinata centrale dominata da due giganteschi murales di Siqueiros, così iperrealistici da sembrare quasi astratti. Entro nella sala, piena di persone vestite elegantemente, che sembrano convenute lì per celebrare un matrimonio o un evento privato e non l’apertura dell’esposizione dei quadri di Frida Kahlo e delle fotografie di Tina Modotti, afferro un calice di spumante da un vassoio che un cameriere cerca di proteggere dall’assalto degli invitati e mi fermo a occhi spalancati davanti a una foto scattata alla Modotti da giovane. Mi sembra bellissima, un ovale perfetto e uno sguardo profondo e lucente. Sul suo viso mi pare di scorgere una traccia di tutti i luoghi in cui è vissuta: il Friuli, la California, il Messico. Colgo un’espressione fiera, tipica di una persona attaccata alle proprie convinzioni, che le vive con passione e intelligenza. C’è un’epigrafe, in fondo alla foto che la ritrae di tre quarti, con un cappello in testa, una frase scritta da lei in una lettera privata “Sono sempre in lotta per piegare la vita al mio temperamento e ai miei bisogni”.
Leggo che è arrivata in Messico nel 1923, all’età di venticinque anni, in un periodo in cui i fermenti della rivoluzione non si erano ancora burocratizzati, quando Siqueiros, Orozco e Diego Rivera dipingevano su pareti immense le loro allegorie di una società di uguali.
(FINE PRIMA PARTE)
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LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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