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Ombra e San Pietroburgo

Post n°128 pubblicato il 18 Aprile 2007 da falco58dgl
 

Dedicato a "Midnight shadow", mia amica di penna,  al ritorno da una vacanza di studio a San Pietroburgo

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Ombra  contempla  un quaderno a righe, uno di quelli che la accompagnano da una vita, da quando aveva forse 12 anni e vi scriveva sopra  i pensieri e le suggestioni del momento. Cerca di ordinare le sensazioni delle settimane passate  a San Pietroburgo, di  trovare un punto che faccia da leva alla sua narrazione, rimane a rosicchiare  la penna, dà un’occhiata   dalla finestra di casa. Fa caldo, è un bollente pomeriggio di Agosto. Persino le folate di vento  sembrano generare arsura, mentre a San Pietroburgo  il clima era tiepido e soleggiato, intervallato da piogge rinfrescanti e una luce diafana avvolgeva la città fino alle undici di sera e oltre. Fissa la penna con un’aria di sfida, decide che inizierà a scrivere comunque e attacca:

Sotto i portici trovo moj brat po dushe. Mio fratello nell'anima. Non ci eravamo mica dati appuntamento, ma questo e' uno di quei posti strani in cui gli incontri si moltiplicano fortuiti tanto da farti pensare che esista un intrico di fili fitto e più ordinato di quel che si riesca a immaginare”.

Si ferma, fa troppo caldo per continuare. Si reca in cucina e si serve un bicchiere di tè gelato che si costringe a bere a piccoli sorsi.  Mentre  si disseta,  pensa che in Russia, nell’est Europa, si sente un po’ diversa,  anche se non saprebbe definire bene in cosa consiste la differenza. Forse  è  l’idioma o i volti delle persone oppure i paesaggi e le consuetudini diverse o magari l’insieme di queste cose, ma avverte un senso di maggiore leggerezza, di desiderio di  comunicare, di condividere, di scambiare, di conoscere e di darsi. Succede sempre così, pensa, ogni volta  che ci si allontana dal proprio luogo di vita abituale verso una meta vicina ai propri desideri. 

In fondo, se fosse andata qui in Italia da un dentista a farsi estrarre una radice dolente, non ci avrebbe scritto su neanche un pensiero da tre righe; lì, invece, diventa qualcosa da narrare, tra fiotti di sangue, vodka bevuta  per allontanare il dolore pulsante,  dentisti dalle ascelle sudate e anestesia che  rende più faticoso articolare una spiegazione ai passeggeri del taxi collettivo, forse convinti che lei sia stata coinvolta in una rissa per opera di qualche malintenzionato. 

Le viene in mente, all’improvviso, che ha disegnato  quasi tutta la struttura della seconda parte del racconto,  si sente contenta, sta per rimettersi a scrivere, ma avverte che manca qualcosa. C’è qualcosa che sfugge, tra  le pieghe di questo pomeriggio afoso e lento, qualcosa che vorrebbe riuscire a decifrare e si sottrae allo sguardo.

 Molla il bicchiere di tè mezzo vuoto, stappa una  birra,  la beve direttamente dalla bottiglia, a sorsi rapidi. Adesso si sente meglio, ritrova in bocca un sapore famigliare, quasi l’equivalente liquido di  un “fratello dell’anima”. Si dirige in bagno, si spoglia, si butta sotto il getto  di una doccia fredda. Rimane a lungo sotto l’acqua, offrendo la schiena, il collo, i capelli al getto che vorrebbe gelato, come il golfo di Finlandia all’inizio della primavera.  Esce,  non si asciuga, lascia che le gocce d’acqua  evaporino da sole al contatto con l’aria immobile.

Pensa che, in fondo, c’è qualcosa che unisce i luoghi in cui ha vissuto, che ha amato, che ha percorso nei suoi 33 anni di vita, anche se nell’est si sente un po’ diversa. Il collante sono io, si dice, o meglio è il mio modo di vedere i paesi, di passare attraverso l’esistenza, di guardarla attraverso prospettive e scorci laterali, ricordando dettagli, frammenti quotidiani, elementi ordinari del vivere. 

Attacca a scrivere, senza neanche rivestirsi.

Io passo nella vita per traverso, sfioro ciò che tutti conoscono e riescono a ricordare, mentre mi immergo nell'insignificante, e ricordo le emozioni, le risate, i pianti e le incazzature. I passanti, ricordo, quasi a poterli identificare. Dei luoghi della mia vita mi restano addosso frammenti che dispongo intorno a me sulle pareti, nell'illusione di trovarmi sempre in un altrove. E nella memoria si intreccia quel che e' stato e quel che ho solo sognato, ciò che ho vissuto e ciò che ho immaginato” .

Rilegge quello che ha scritto, si sente insieme felice e triste, come se avesse finalmente messo su carta una sua verità, una convinzione profonda che la espone e la rivela ai suoi stessi occhi, ancor prima che a quelli dei lettori. Sente venir su una sensazione strana, quasi di commozione, simile a un cubetto di ghiaccio che si scioglie e rifluisce sulla pelle  facendola rabbrividire.

 Questa sera si esce, si va in giro, pensa, mentre va alla ricerca della prima vodka del giorno.

Writer

http://www.writer-racconti.org/

 
Rispondi al commento:
Midnight_Shadow
Midnight_Shadow il 19/04/07 alle 19:03 via WEB
Infatti. Ma siccome l'altra volta su un tuo racconto avevo immaginato soltanto dei cambiamenti rispetto alla versione nota, ho preferito starmi zitta ;)
 
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LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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