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Tepoztlan

Post n°132 pubblicato il 25 Aprile 2007 da falco58dgl
 

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-   Non mi sembra granché questo villaggio, Gigi.
-   Guardalo meglio, possiede un fascino segreto.
-   Ma cosa ci trovi di bello, scusa?
-   E’ un luogo magnetico, e poi il mese scorso  abbiamo fatto una festa in una bellissima  casa con piscina.
-   Quelle le trovi anche a Chieri.
-   Sì, ma non con questa vegetazione.

Mi aggiravo, insieme a Gigi, nell’abitato di Tepoztlàn, stato di Morelos, non lontano dalla sterminata agglomerazione in cui vivevamo. La capitale, anzi, era fin troppo vicina,  a un’ora e mezzo di autobus. I fine settimana, dall’autostrada Città del Messico–Cuernavaca, si riversavano in paese migliaia di chilangos così vengono chiamati con disprezzo  gli abitanti del Distretto Federale dai residenti delle altre regioni -  che sciamano sui prati e le montagne portandosi a spalla rumorosissime mangiacassette stereo, decine di birre e chili di pollo inzuppati nel  mole negro. Il paese sembrava sporco e trasandato. Era Maggio, il mese che precede la stagione umida. I naturali canaletti che scorrevano ai margini delle stradine di ciottoli emettevano un odore acre, di materia in decomposizione. La collina che sovrasta il villaggio sembrava persa nella caligine pomeridiana.­

 Tepoztlàn, luogo polveroso e magico. Strade sterrate, vegetazione esuberante, asini carichi di legna, chiese barocche, case circondate da nochebuenas e buganvillee, una miscela di razze, persone, sopravvissuti a tempi, movimenti, rivoluzioni, rivolte individuali, cambiamenti esistenziali, invecchiamenti.

 Viveva nel borgo una vasta comunità di  “alternativi” – stranieri e indigeni -, persone accomunate dal loro passato di ex. Ex militanti politici, ex femministe, ex esuli dai regimi dittatoriali dell’America Latina, ex normali che avevano trovato una dimensione di vita lieve e comoda (almeno così mi apparve). Si visitavano senza sosta, formando gruppi sempre un po’ diversi e mettevano insieme il loro tempo, le loro case, la disponibilità a giocare e mezza dozzina di idiomi. Decisi di passare due mesi in paese e scoprii anche il rovescio della medaglia. Anche tra gli “alternativi” esistevano gerarchie: chi aveva i soldi era più centrale, mentre i poveracci si agitavano per essere visibili; chi disponeva di una bella casa godeva di un tasso di socialità maggiore; i visitatori esterni, anche se accolti con apparente calore, venivano tenuti ai margini. Ma le feste erano una bellezza.

 Dai, Marco, questa sera tutti a casa di Gunther. Una casa, spaziosa e piena di luce, circondata su tre lati da un vasto giardino. Cinquanta persone stravaccate nel prato. Cubalibre e  cumbia, mentre il ritmo sale d’intensità. Funghi nerastri che girano con discrezione. Ricordi confusi nell’ebbrezza montante. “La vida te da sorpresas, sorpresas  te da la vida, ”. Una cucina ampia. Un tavolo e quattro sedie. Una donna su una sedia che si toglie i vestiti, poco a poco. Il corpo è coperto da collane, da gioielli posti sui fianchi, dai capelli. Sguardi di desiderio, mentre il rito preispanico e profano  si compie.  ahi mamà, yo no sé lo que quiere el negro”. Voglia di affondare la labbra nella pelle, di baciare carne e metallo con labbra screpolate di arsura.

    Writer

http://www.writer-racconti.org/

 
Rispondi al commento:
Lola76
Lola76 il 26/04/07 alle 23:43 via WEB
ehilà, blog del giorno...o della notte ;-)
 
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(in seguito a uno spiacevole episodio
avvenuto su un blog della community)

 

LA RECENSIONE

usumacinta

DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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