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Terremoti, il rischio sismico in Appennino non aumenta né si riduce dopo la scoperta del magma

Post n°4144 pubblicato il 12 Gennaio 2018 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto quotidiano  Scienza | 12 gennaio 2018

di Aldo Piombino *

Il 29 dicembre 2013 un terremoto di magnitudo 5 si è verificato nella zona del Matese (Appennino sannita), seguito da circa 350 repliche. A gennaio 2014, dopo una settimana circa di calma piatta, si è verificata una ripresa dell’attività con un secondo evento di magnitudo 4.2. Questa sequenza presentava delle cose un po’ anomale:
– la sismicità era concentrata a profondità tra 10 e 25 km, quando la normale sismicità della catena è generalmente intorno ai 10 km, se non meno;
– gli ipocentri delle repliche sono migrati verso l’alto e si sono diffusi verso sud-est in pochi minuti;
– gli ipocentri raffigurano due ammassi simili a dita che circondano una zona asismica lunga circa 1,5 km, larga e spessa 2,5 km, con una forma simile a una diga;
– la sismicità dopo il secondo choc principale è rimasta confinata nel secondo lobo;
– il tutto era compatibile con un processo di rottura simile a quello osservato nella sismicità indotta dall’iniezione di fluidi.

Una sequenza del genere è quindi più simile ad una sequenza tipica di aree vulcaniche, dove la sismicità è generalmente associata a fessure piene di fluidi. Meritava dunque uno studio approfondito, a 360°.

Gli studi sulla sequenza sismica e la geochimica delle acque che sono stati presentati nel lavoro di cui si parla in questi giorni, condotto da un team di ricercatori Ingv e del Dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università di Perugia e pubblicato su Science Advances [qui l’articolo], hanno accertato senza ombra di dubbio che questa sequenza sismica è stata originata dalla iniezione di magma a circa 20 km di profondità. Per i particolari vi rimando ad un post sul mio blog Scienzeedintorni.

Ma questa scoperta indica qualche rischio vulcanico in più? Teoricamente sì, ma non per “oggi o domani”: questo magma (o un suo simile) potrebbe prima o poi arrivare in superficie, come è successo appunto nelle aree dell’Appennino caratterizzate da piccole manifestazioni vulcaniche diffuse in superficie o rinvenute nelle perforazioni a scopo di ricerca di idrocarburi tra l’Umbria e la Basilicata. Ma non è certo l’apporto di lave che c’è stato alla fine del 2013 quello in grado di modificare il quadro e la cosa avviene qualche volta ogni milione di anni, quindi è un rischio più teorico che reale.

Anche l’incremento del rischio sismico è abbastanza inesistente. In Appennino i terremoti fanno danni e vittime soprattutto a causa della pessima edilizia e perché si generano anche a meno di 10 km di profondità. Inoltre la magnitudo dipende molto dalla lunghezza del tratto di faglia che si rompe.

Queste intrusioni interessano zone più profonde: già questo diminuisce gli effetti superficiali di un eventuale terremoto. Ma soprattutto è difficile che si possano attivare piani di faglia così estesi da dare terremoti molto forti, anche se con lo stato dell’edilizia che c’è in Italia il rischio che eventi di questa entità e profondità possano provocare dei danni purtroppo esiste eccome.

Insomma, l’aggiunta del rischio sismico dovuto a questa nuova classe di terremoti risulta nell’Appennino assolutamente risibile rispetto a quello già dimostrato in epoca storica: basta guardare allo stesso Matese e confrontare l’evento del 2013 con i grandi terremoti che hanno interessato l’area negli anni 1349, 1456, 1688 e 1805.

Quello che è invece interessante di questo lavoro è la dimostrazione che l’intrusione di corpi magmatici può provocare eventi sismici anche in aree non direttamente interessate da attività vulcanica superficiale. Se fino ad oggi la sismicità delle catene montuose veniva interpretata come legata a cambiamenti di forze che le deformano e/o a cambiamenti nella pressione dei fluidi lungo le superfici di faglia, oggi le prospettive cambiano specialmente dove il rischio sismico tradizionale è poco elevato, soprattutto in catene mature che presentano una minima attività sismica residua. Ci sono inoltre possibili sviluppi nella ricerca sui magmi stessi: in tutte le catene derivate nella storia della Terra da vecchi scontri fra continenti troviamo delle rocce magmatiche (soprattutto intrusioni raffreddate a pochi km di profondità e oggi affioranti per l’erosione di quanto ci stava sopra) originatesi a scontro finito o quasi.

È dunque possibile che alla fine dell’attività tettonica questa energia vulcanica possa diventare protagonista e innescare eventi sismici importanti.

Un’ultima nota sulla sequenza sismica che oggi si sta svolgendo, sempre in Molise, centrata nella zona di Vastogirardi. Non appare legata allo stesso motivo, almeno dal punto di vista sismico, perché:
– gli epicentri sono diffusi senza particolari discontinuità;
– si tratta di una sismicità molto superficiale e quindi se ci fosse una risalita di magmi le temperature delle sorgenti sarebbero aumentate vistosamente, in modo visibile, anche senza strumentazione.

* geologo e blogger scientifico

Scienza | 12 gennaio 2018

 

 
 
 
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