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Post n°4638 pubblicato il 11 Maggio 2021 da ninograg1
Fonte: Il Fatto Quotidiano Loretta Napoleoni Economia Occulta - 9 Maggio 2021
Passato il momento di euforia, analizziamo quanto avvenuto dettagliatamente per accorgerci che il colpo di scena è un altro: dietro le parole di Biden non c’è una strategia che mira a compensare gli squilibri tra mondo ricco e mondo meno ricco o mondo povero in materia di vaccini, ma la solita propaganda politica, la stessa aria fritta che la pandemia ha tristemente smascherato. E spieghiamolo. In primis, nessuna nazione era preparata per la pandemia anche se dallo scoppio della Sars virologi, medici e scienziati esortavano i governi ad avere un piano d’azione di emergenza contagio. Ancor meno preparata era l’Organizzazione mondiale della sanità, che come tutte le istituzioni internazionali è obsoleta perché è stata creata a misura di un mondo che non esiste più da almeno 30 anni. In secondo luogo, la carenza di vaccini non è dovuta ai brevetti ma allo scompenso tra domanda e offerta, non ci sono fabbriche né tecnici a sufficienza per produrre i vaccini a un ritmo più elevato di quello attuale, né abbiamo sufficienti materie prime per farlo. Siamo al massimo della capacità mondiale. L’idea che si possano fabbricare i vaccini dovunque e che il processo possa essere svolto da chiunque abolendo i brevetti è una favola perché l’ostacolo è industriale e strutturale. Liberalizzare i brevetti significherebbe aumentare la concorrenza su un mercato mondiale che non ha capacità addizionale e quindi far gravitare i costi di produzione. E qui è bene fare una riflessione. La proprietà intellettuale proprio perché intangibile appare meno significativa di quella, ad esempio, artistica, ma tutta l’industria della biotecnologia ruota intorno ai brevetti, l’investimento, a volte massiccio, dietro la ricerca scientifica, ricerca che può durare decenni, è motivato dai brevetti. Senza questo investimento moriremo di influenza e di tante altre malattie come i nostri antenati. Ed è giusto che una volta ottenuto il risultato che si sperava di ottenere, chi ha investito nella ricerca riceva una ricompensa. I brevetti farmaceutici, si noti bene, non durano in eterno. La domanda da porsi è perché questo sforzo finanziario non lo fa lo stato? Perché la ricerca scientifica in settori come i vaccini, di interesse nazionale, non è condotta dalla stato? Non solo lo stato è praticamente assente, sospendere i brevetti avrebbe serie ripercussioni sulla ricerca scientifica e sulla contraffazione dei vaccini. I brevetti garantiscono l’autenticità del prodotto. Basti menzionare che la tecnologia usata per i vaccini, mRNA, è ancora in via di sperimentazione per curare altre malattie come quelle cardiache ed il cancro, aprire le porte a tutti permetterebbe il saccheggio intellettuale e scoraggerebbe investitori futuri in ricerche sperimentali simili perché’ creerebbe un precedente storico. In terzo luogo, se davvero l’intenzione è vaccinare tutti il mondo e la capacità di produzione è la massimo allora perché il ricco occidente una volta vaccinato se stesso non paga e invia i vaccini a chi non li ha? Ma per prendere una decisione di questo tipo bisogna assumersi la responsabilità di distribuire i vaccini e nessun governo ha intenzione di farlo per tanti motivi, tra cui la possibilità di esporsi a fallimenti logistici, vedi cosa è successo in Europa. Meglio dichiarare di essere d’accordo a sospendere i vaccini e passare la patata bollente agli avvocati. E già perché nel mondo libero e capitalista dove lo stato non investe nella ricerca, i brevetti sono protetti da recinti legati spesso invalicabili. Biden, che ha quasi ottant’anni, lo sa benissimo. Questo film, infatti, il mondo lo ha già visto. Alla fine degli anni Novanta abbiamo assistito allo scontro sui costosi trattamenti per l’Hiv tra Big Pharma e diversi Paesi tra cui Brasile e Sud Africa. Le nazioni che lottavano per contenere l’epidemia volevano produrre farmaci generici per l’Hiv, ma le aziende che li avevano sviluppati li hanno accusati di voler violare gli accordi sui brevetti, la battaglia legale è durata anni impedendo la produzione di cure a basso costo. In realtà la dichiarazione di Biden ha menzionato i tempi lunghi di negoziazione necessari per accordarsi sulla sospensione di brevetti, un controsenso dal momento che il problema della pandemia e dei contagi è pressante, o si risolve adesso o ci penserà l’immunità di gregge. Morale: l’esortazione a sospendere i vaccini ha trovato l’approvazione dei potenti del mondo, non solo Biden è d’accordo anche Putin si è detto favorevole alla proposta. Peccato che non servirà a nulla, non solo perché se mai si riuscisse a metterla in essere ciò avverrebbe quando la pandemia sarà un triste ricordo del passato, ma soprattutto perché non aumenterebbe la produzione di vaccini, con molta probabilità ne farebbe invece aumentare i costi di produzione.
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Post n°4637 pubblicato il 28 Aprile 2021 da ninograg1
Tag: ambiente, blog, economia, emissioni CO2, governo Draghi, inquinamento, lobby, politica, recovery fund, veleni Fonte: Il Fatto Quotidiano Rossano Ercolini Presidente di Zero Waste Italy e Zero Waste Europe Ambiente & Veleni - 26 Aprile 2021 Al netto delle diatribe fuorvianti di stampo elettoralistico (che c’entra lo stop al coprifuoco per il Covid con il Pnrr?) la versione Draghi del Recovery Plan spodesta l’economia circolare – che già con Conte non era posta al top ma almeno segnava la “missione numero due” – che perde oltre il 30% degli investimenti; mentre incorona la Carbon Capture and Storage o Sequestration (Ccs) tanto cara all’industria degli idrocarburi di Eni e Snam. Infatti nella vulgata semplificatrice veicolata da tv e mass media, è l’idrogeno blu ad essere assunto a cavallo di battaglia del ministro Cingolani: che significa rivolgersi all’industria “hard to abate” e cioè a quella definita “sporca” (idrocarburi, acciaio, cemento ecc). Ma che cos’è il Ccs? Esso, attraverso differenti tecnologie (post combustione, ossicombustione e post combustione che include processi di gassificazione e di produzione di syngas anche da rifiuti soprattutto plastici) consente di catturare il biossido di carbonio emesso dagli impianti alimentati a combustibili fossili sottraendoli alla quota rilasciata in atmosfera. Esso prevede lo stoccaggio nel sottosuolo in formazioni geologiche. In pratica sembrerebbe un via libera ai progetti di Ravenna dove si prevede lo stoccaggio in mare della CO2 catturata e dell’Ilva di Taranto. Ovviamente, poiché pensar male è un peccato ma in questa “Italietta” non ci si sbaglia, i frequenti richiami al riciclo chimico delle plastiche eterogenee per produrre idrogeno e/o metanolo ci inducono a ritenere questo versante associabile al peana per il Ccs. Segni particolari di questa scelta: è costosissimo, poco testato (il modello è l’impianto norvegese di Mongstad in mare aperto – esistono solo 60 impianti del genere nel mondo) e potenzialmente pericoloso perché esposto ai rischi di terremoti che per esempio nel Mar Adriatico non mancano. Beneficiari: gli inquinatori. Ed ecco spiegato il via libera alle trivellazioni voluto da Cingolani. Se questa è la transizione ecologica, Dio ce ne scampi e liberi! Non a caso la versione “dragoniana” del Pnrr è ancora più per compartimenti stagni della precedente e imposta dall’alto nel segno di un insopportabile approccio tecnocratico tipico del vecchio e devastante pensiero unico e lineare. E dire che Renzi che ora sta zitto come un topo aveva tuonato contro “troppo ristrette cabine di regia”! Evidentemente il rilancio di trivelle e dell’industria sporca del petrolio lo galvanizza, visti i suoi legami profondi con la ‘democrazia’ dell’Arabia Saudita! Ma noi non staremo a guardare: se necessario torneremo in piazza! Siamo consapevoli che a pochi giorni dalla Giornata Mondiale della Terra non saremo in grado di cambiare la politica ridotta a “comitati di affari” nel segno di una insopportabile oligarchia abile nell’inquinare non solo l’ambiente ma anche la comunicazione. Certo fa un po’ effetto vedere la raffazzonata maggioranza del Governo Draghi non batter ciglio a partire dai 5 Stelle che si accontentano del Superbonus. C’è bisogno di un “Vaffa”? Terra-Terra è il nostro grido ed è sempre più necessaria la promozione di un soggetto politico ecologista “fuori dai giochi”, che sia in grado di proporre una governance all’altezza dei tempi!
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Post n°4636 pubblicato il 19 Aprile 2021 da ninograg1
Fonte: Il Fatto Quotidiano Ivan Cavicchi Società - 17 Aprile 2021
Che cosa è un rischio? È la probabilità che qualcosa possa accadere. E che cosa è la probabilità? È un rischio che valutando certe circostanze ci si può attendere. Ieri il premier Mario Draghi ha annunciato un allentamento delle restrizioni quindi l’avvio delle riaperture a partire dal 26 aprile dicendo che si tratta di un “rischio ragionato”. Ma se calcoliamo effettivamente come stanno andando nel nostro Paese le performance della pandemia (solo ieri 15943 nuovi casi 429 decessi) anche tenendo conto delle evoluzioni positive dei vari indici di misurazione, quello che Draghi chiama “rischio ragionato” in realtà è un certo grado di rischio inevitabile e accertabile come tale. Cioè Draghi non ragiona con il rischio zero ma con un rischio che, punto più punto in meno, resta comunque un rischio reale. Il che vuol dire che la sua decisione di riaprire costituisce con assoluta certezza una maggiore probabilità di ripresa della pandemia. Che è come buttare benzina sul fuoco. Questa decisione, giusta o sbagliata che sia, stabilisce una discontinuità epistemica importante, nel senso che le scelte politiche di Draghi che sino ad ora sono state suggerite dalle evidenze scientifiche ora dipendono sempre più da quelle che potremmo definire “rilevanze politiche”. Innegabili rilevanze politiche sia chiaro. Infatti, la sua decisione, a dire il vero, sembra rispondere più alla piazza esasperata e alle pressioni della destra che non alla scienza. Questo per me è un segno di preoccupazione. Draghi certamente è il grande banchiere che tutti conosciamo, ma essere un grande banchiere non vuol dire essere automaticamente un grande politico. Il banchiere segue le regole economiche come un astrofisico segue le leggi dell’universo, ma il politico naviga a vista, accetta l’estemporaneo, la sfida della complessità dell’imprevisto, si confronta con le situazioni e decide senza evidenze davvero ragionando a 360 gradi. Il banchiere è attento ai significati finanziari dei fatti, un politico è attento al senso del mondo in cui avvengono i fatti. Ho paura che sia più facile governare la Bce che non una pandemia. Ieri nella conferenza stampa del premier non solo mi ha colpito il concetto discutibile di rischio ragionato, ma anche che Draghi in quella circostanza, per difendere giustamente il ministro Roberto Speranza dall’attacco sconsiderato della destra che vorrebbe sfiduciarlo, ha ribadito pubblicamente la sua stima personale verso di lui. Un politico sicuramente avrebbe difeso Speranza per difendere il proprio governo, ma sulla stima personale considerando i contesti sarebbe stato più cauto. Con la faccenda di Ranieri Guerra quindi con l’inchiesta di Bergamo è possibile che Speranza sia prima o poi chiamato in ballo come ministro, e poi l’attività di un ministro della Salute – specie in questa pandemia – non è mai al riparo delle critiche, al contrario come è il caso di Speranza, in molti ambiti, è oggetto di significative perplessità. Per cui un politico non può escludere la possibilità teorica, specie in circostanze difficili e complicate che un ministro si riveli poco adeguato al suo incarico e debba cambiarlo. In questi casi sarebbe dura rimangiarsi la stima dichiarata. In conclusione, mi pare rispetto alla pandemia sia cambiata da parte di Draghi quella che gli esperti definiscono “la percezione del rischio”, quella che in genere fino ad ora ha orientato le sue scelte politiche. Per uno come lui allontanarsi dalle evidenze scientifiche è molto pericoloso. Non solo, ma allontanarsi dalle evidenze scientifiche affidandosi ad un ministro che non mi sembra in grado di sostenere i rischi ragionati di Draghi e le sue aperture con adeguati interventi di politica sanitaria, mi sembra un rischio nel rischio. Per cui mi dispiace dirlo ma temo il peggio. Per me non si tratta di un rischio ragionato ma esattamente il contrario.
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Post n°4635 pubblicato il 11 Aprile 2021 da ninograg1
Fonte: Il Fatto Quotidiano Mondo - 11 Aprile 2021 Loretta Napoleoni Era prevedibile che l’accordo stipulato tra l’Unione Europea e il Regno Unito riguardo al confine irlandese riattivasse nell’Irlanda del Nord le tensioni politiche tra unionisti e filo-repubblicani. Ma nessuno aveva previsto una ripresa tanto rapida e feroce della violenza politica. A 100 giorni dalla Brexit nelle città dell’Irlanda del Nord tornano gli scontri tra cattolici e protestanti e le immagini di gruppi di ragazzini incappucciati e adulti che bruciano gli autobus, che si scontrano con le forze dell’ordine e si tirano le molotov sopra i muri divisori tra un quartiere e l’altro fanno presagire la fine di un periodo di pace che sembrava aver per sempre relegato la violenza dell’Ira e dei gruppi paramilitari degli Orange, i Loyalist, nel passato remoto dell’isola. La genesi della rinascita della violenza politica nell’Irlanda del Nord va ricercata nei trattati stipulati da un governo britannico disattento, che ha voluto raggiungere un compromesso a tutti i costi, e dalla burocrazia governativa di Bruxelles, che in materia politica è decisamente poco professionale perché fondamentalmente autoreferenziale. La lista degli errori della Von der Leyen è lunga e continuerà ad esserlo fino alla fine del suo mandato, senza alcuna conseguenza tangibile per lei o il suo entourage perché non è stata eletta e quindi non potrà mai esserlo di nuovo. Eppure, l’ostinazione ad imporre un confine ‘duro’, con controlli e verifiche sui movimenti di merci e persone tra l’Unione Europea e il Regno Unito, sta avendo un impatto politico tremendo sulla popolazione dell’Irlanda del Nord, della Repubblica Irlandese e del Regno Unito. Per tutta la durata delle negoziazioni Londra si è rifiutata di accettare le richieste di Bruxelles di erigere un confine in Irlanda. Lo scopo era prevenire il ritorno della violenza settaria che tra il 1960 ed il 1998, quando venne firmato il Good Friday agreement, aveva mietuto tremila vittime. L’accordo firmato in extremis a ridosso della Brexit da Londra e Bruxelles prevede così lo spostamento del confine nel mare d’Irlanda, quindi all’interno del Regno Unito: ciò significa che de facto l’Irlanda del Nord rimane parte dell’Unione Europea e del Regno Unito allo stesso tempo, con l’obbligo però di non diventare una porta secondaria di accesso tra i due. Tutto ciò ha creato distorsioni economiche prevedibili che hanno confermato i timori di molti: che l’Irlanda del Nord venisse tagliata fuori dall’unione britannica, costretta a gestire i flussi di merci come se de facto fosse nell’Unione Europea. Già a gennaio giravano le immagini dei supermercati di Belfast o Londonderry vuoti: molte spedizioni dal Regno Unito si sono infatti arrestate a causa delle lunghissime pratiche burocratiche introdotte per attraversare il confine e dell’incertezza su come svolgerle. Gli importatori irlandesi hanno denunciato l’aumento dei costi dei prodotti britannici dovuti alle spese doganali, una situazione surreale. Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la minaccia da parte dell’Unione Europea di ignorare parte dell’accordo, onde evitare che i vaccini europei raggiungessero il Regno Unito attraverso l’Irlanda del Nord. L’idea, anche remota, che si erigesse un confine all’interno dell’Irlanda ha scatenato le ire delle forze Loyalist, già preoccupate che il confine nel mare del Nord facesse gravitare l’Irlanda del Nord sempre più verso la Repubblica Irlandese, fomentando la spinta a diventarne parte. Non è bastata la dichiarazione della Von der Leyen che tale minaccia era stata un errore del suo ufficio a placare gli animi. Insufficienti sono state anche le rassicurazioni di Londra riguardo alla possibilità di posporre la ratificazione dell’accordo riguardo al confine nel mare d’Irlanda al 2024, quando le forze politiche dell’Irlanda del Nord potranno esprimersi a riguardo. Naturalmente Bruxelles non ne vuole sapere e ha minacciato altre ritorsioni. A 100 giorni dalla Brexit il pensiero che nell’Irlanda del Nord torni la violenza politica degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta fa paura, e ci si augura che sia Boris Johnson che Ursula Von der Leyen non vogliano passare alla storia come coloro che ne hanno riacceso la miccia. |
Post n°4634 pubblicato il 09 Aprile 2021 da ninograg1
Fonte: Il Fatto Quotidiano di F. Q. | 9 Aprile 2021 Dalla Turchia continuano gli attacchi nei confronti di Mario Draghi, dopo che il presidente del Consiglio, nel corso della conferenza stampa di giovedì, ha definito il capo dello Stato turco, Recep Tayyip Erdoğan, “un dittatore con cui si deve cooperare”. A parlare è il vicepresidente turco Fuat Oktay che, senza giri di parole, ricorda al premier il passato fascista del Paese: “Se vuole vedere cosa sia una dittatura – ha dichiarato – deve guardare alla storia recente” del suo Paese “e lo vedrà molto chiaramente”. E mentre da Ankara chiede che il presidente del Consiglio ritiri le proprie affermazioni e si scusi, l’Europa si defila, e sembra voler lasciare che a risolvere il caso diplomatico che si è innescato siano solo Roma e Ankara, al fine di non compromettere i rapporti con Bruxelles, fondamentali per diversi dossier, su tutti la gestione dei flussi migratori. L’Ue si defila dalla polemica Draghi-Erdoğan: “Non sta a noi giudicare le persone”. “No comment” della Germania Così, la Commissione Ue con uno dei suoi portavoce, nel corso del consueto midday briefing a Palazzo Berlaymont, ha dichiarato che “la Turchia è un Paese che ha un Parlamento eletto e un presidente eletto, verso il quale nutriamo una serie di preoccupazioni e con il quale cooperiamo in molti settori. Si tratta di un quadro complesso, ma non spetta all’Ue qualificare un sistema o una persona“. E ha poi aggiunto che le preoccupazioni nutrite dall’Ue verso Ankara “riguardano la libertà di espressione, i diritti fondamentali, la situazione del sistema giudiziario”. Una posizione abbastanza tiepida, visto che è stato proprio il capo della commissione stessa a subire quello che in molti hanno letto come un affronto diretto a una leader donna. D’altra parte, nemmeno da Berlino, principale sponsor degli accordi con Ankara ma anche governo amico di Draghi, arrivano prese di posizione. In due occasioni, la portavoce del governo federale, Ulrike Demmer, ha infatti preferito ricorrere al ‘no comment’ per evitare di urtare la sensibilità delle parti in causa. Sia quando le è stato chiesto di commentare le parole di Draghi (“non commentiamo affermazioni di capi di Stato e di governo”) che quando è stata invitata a dare un parere sul protocollo adottato nel corso della visita di von der Leyen e Michel ad Ankara (“non commento questioni protocollari. Bisogna rivolgersi alla Commissione europea e al segretariato del Consiglio europeo, che si sono già espressi”). Una posizione difficile da tenere, quella tedesca: se da una parte stiamo parlando del Paese più importante tra quelli membri dell’Unione europea e che più volte si è esposto a sostegno dei diritti umani, ultimo caso la vicenda Navalny, dall’altro Berlino è anche il principale sponsor degli accordi con la Turchia. Questo perché Ankara, ormai dal 2015, tiene la mano sul rubinetto dei flussi migratori lungo la rotta balcanica, continuando a minacciare di inviare al confine con la Grecia i circa 4 milioni di rifugiati siriani ospitati secondo gli accordi raggiunti proprio con Bruxelles. Migranti che arriverebbero in massa anche e soprattutto in Germania, Paese che più di tutti ha aperto le porte ai rifugiati mediorientali. Inoltre, si deve ricordare che la comunità turca in Germania è molto numerosa e uno scontro con il presidente Erdoğan rischierebbe di generare anche tensioni interne. Gli unici a prendere posizione a sostegno di Draghi a bruxelles sono gli eurodeputati che compongono la commissione per la difesa dei diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere, secondo cui la “misoginia del presidente turco e l’inerzia del presidente del Consiglio europeo Charles Michel” devono essere sottolineate. Evelyn Regner dei Socialisti, presidente della commissione, ha parlato di “mancanza di rispetto” che “va oltre la persona e l’istituzione” e che “dimostra ancora una volta quanto vada fatto per sostenere le donne in posizione di leadership”. Non meno duri gli altri componenti, a partire dalla vicepresidente Eugenia Rodríguez Palop (Gue/Ngl) convinta che “il disprezzo mostrato verso la presidente von der Leyen, rimasta senza sedia, sia un esempio della campagna contro i diritti delle donne in Turchia”. A farle eco la terza vicepresidente Elissavet Vozemberg (Ppe) che ha parlato di “comportamento inaccettabile e denigratorio di Erdoğan nei confronti della presidente della Commissione”. Robert Biedron (Socialisti), quarto vicepresidente, ha criticato la “totale mancanza di rispetto di Erdoğan non solo verso l’uguaglianza di genere, ma anche nei confronti del protocollo diplomatico”. L’eurodeputato Frances Fitzgerald (Ppe) ha invece parlato di “sessismo quotidiano ai livelli più alti della politica e della diplomazia”, mentre Maria Noichl (S&D) ha sottolineato la “chiara responsabilità anche da parte di Charles Michel”. Il vicepresidente turco: “Vogliamo le scuse di Draghi” |
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