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Messaggi di Gennaio 2019

L'analisi di Heiner Flassbeck - Le gravi responsabilità del dogmatismo economico dei recenti governi tedeschi in Europa

Post n°4380 pubblicato il 30 Gennaio 2019 da ninograg1
 

Fonte: Informazione Consapevole

Flassbeck è un economista tedesco e in passato è stato anche segretario di stato presso il Ministero Federale della Finanza

Di Heiner Flassbeck

I soliti resoconti sulla Brexit grondanti Schadenfreude, tuttavia, sono solo un'altra faccia della profonda ignoranza tedesca nei confronti delle preoccupazioni europee. Continuo a pensare che sia giusta l'analisi che individua le principali ragioni del voto britannico nel fallimento dell'Europa e dell'eurozona sui temi economici e in particolare nell'egemonia tedesca esercitata sin dall'inizio della crisi dell'euro. Se la crescita economica dopo il 2009 fosse stata anche solo la metà di quello degli Stati Uniti, e se alla Grecia fosse stato riservato un trattamento ragionevole e al tempo stesso umano, nulla lascia pensare che si sarebbe comunque arrivati alla Brexit.

Ritengo inoltre che un secondo referendum possa essere l'unica onesta via d'uscita da questa situazione complessa. All'epoca del voto sulla Brexit il popolo britannico ha deciso in una situazione di "errore oggettivo" perché nessuno gli aveva spiegato cosa sarebbe realmente accaduto in caso di uscita e quali condizioni potevano essere realisticamente negoziabili con il resto d'Europa. Ora che è stato redatto un progetto di accordo, in ogni caso è molto più facile farsene un'idea ragionata. L'argomento secondo il quale un altro referendum sarebbe una ferita per la società britannica è poco convincente. Un nuovo referendum sarebbe invece l'unico modo per riportare la società britannica su un percorso costruttivo, indipendentemente da come finirà.

Il vero fallimento

Ma le posizioni sull'UE presenti nel dibattito tedesco, fra di loro contrapposte, non riescono a individuare la vera posta in gioco. L'UE non può essere né santificata - indipendentemente da come appare e da come si comporta -, né lo scioglimento dell'Unione europea da solo può risolvere tutti i problemi. Albrecht Müller sulle Nachdenkseiten giustamente sottolinea che gli abusi neo-liberisti in Germania vengono perpetrati in maniera completamente indipendente dall'UE. Di solito non si dà sufficientemente evidenza al fatto che in Europa sotto la "leadership" tedesca le cose vadano oggettivamente molto male e che questo fatto sia tutt'altro che una coincidenza.

Il riferimento ai trattati europei e in particolare al trattato di Maastricht, firmato da tutti gli Stati membri, non aiuta a chiarire la questione. I trattati europei sono lo sbocco naturale del neoliberismo tedesco, spinto dalla CDU e dalla FDP dopo il "cambiamento spirituale e morale" nei primi anni '80. La maggior parte dei partner europei ha firmato i trattati europei nella speranza che alla fine "nulla venga servito cosi' caldo come è stato cotto". Bisogna andare incontro ai tedeschi per indurli, almeno formalmente, ad aderire all'unione monetaria, o meglio queste erano le aspettative prima della firma del Trattato di Maastricht. Piu' avanti poi, in qualche modo, si riuscirà ad includere la Germania in un quadro di interpretazione piu' pragmatica dei trattati.

Ed era un'aspettativa del tutto realistica data l'interpretazione flessibile che oggi viene data del ruolo della politica monetaria - e le critiche che ad essa vengono mosse. La BCE in maniera relativamente elegante si è sottratta all'ingessatura tedesca sul divieto di finanziamento agli stati attraverso una sua interpretazione della politica monetaria, che nel frattempo, su insistenza della Corte costituzionale tedesca, è stata piu' volte confermata anche dalla Corte di Giustizia Europea. Il Quantitative Easing era ed è una misura che si muove nella zona grigia dei trattati, chiaramente ragionevole, ma che dalla Germania è sempre stato attaccato con forza.

Quando si parla di politica monetaria, bisogna anche tenere presente che solo vent'anni fa in Germania, persino nominare la banca centrale in una dichiarazione politica era considerato un tabù politico. Oggi invece, ogni principe della provincia bavarese può criticare violentemente la BCE senza che a nessuno al Ministero delle Finanze o alla Cancelleria venga in mente di chiedere piu' moderazione alle parti nel criticare un'istituzione politicamente indipendente. Anche questo è un pezzo di normalità europea che si allontana in maniera positiva dal dogmatismo tedesco.

La vera disgrazia europea è avvenuta proprio nel momento in cui, dopo la crisi finanziaria globale, la grande, ma non ancora cosi' potente Germania è diventato il principale paese creditore e investitore. E a tal fine è stata decisiva la posizione di avanzo commerciale con l'estero dei tedeschi, ottenuta nei primi dieci anni dell'euro grazie al suo dumping salariale. Poiché per quei paesi che stavano perdendo l'accesso ai mercati finanziari la Germania restava la nazione creditrice più importante, il paese è finito in una posizione di potere che non era affatto in grado di gestire.

E poiché la Germania in termini economici sta andando ancora relativamente bene, negli ultimi anni è emersa una tipica mentalità da professorone tedesco che sta appesantendo l'Europa più di ogni altra cosa. Da un lato non c'è la volontà di prendere atto della  difficile situazione in cui si trovano gli altri paesi. E quando questa viene presa in considerazione, allora ti viene immediatamente detto che gli altri non hanno fatto i "compiti a casa". Proprio a nessuno in Germania viene in mente che fra nazioni civili non è affatto comune che ci sia un paese che distribuisce i compiti da fare agli altri paesi?

Ma il dogmatismo tedesco non avrebbe mai potuto giocare un ruolo decisivo nella crisi se la BCE avesse agito come una normale banca centrale. Se avesse trattato gli stati membri dell'unione monetaria come degli stati che hanno delle difficoltà sul mercato dei capitali, come del resto avrebbe dovuto fare la propria banca centrale. Tuttavia ha scelto di non farlo, mal giudicando i propri compiti, e li ha trattati allo stesso modo in cui il Fondo Monetario Internazionale tratta gli stati in crisi - inclusa la condizionalità neoliberista che ha aperto porte e portoni al dogmatismo tedesco.

Fonte e articolo completo: macroskop

TRADUZIONE DI VOCI DALLA GERMANIA
 
 
 

Signoraggio bancario: cos’è e perché se ne parla tanto

Post n°4379 pubblicato il 28 Gennaio 2019 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 28 Gennaio 2019, di Alessandra Caparello

 

Ha suscitato un mare di polemiche la prima puntata sul signoraggio bancario di Povera Patria il nuovo programma su Raidue, fortemente voluto dal nuovo direttore di rete Carlo Freccero e presentato nei giorni scorsi come programma di informazione alternativa.

La prima puntata andata in onda venerdì scorso in seconda serata è stata dedicata al periodo del signoraggio bancario, scatenando una vera e propria rivolta social. Quella del signoraggio bancario è considerata una teoria complottista che prevede in sostanza che l’attività delle banche centrali danneggi i cittadini comuni, anziché fare i loro interessi.

Per signoraggio si intende l’insieme dei redditi derivanti dall’emissione di moneta e per le Banche centrali, il reddito da signoraggio viene definito come il flusso di interessi generato dalle attività detenute in contropartita delle banconote in circolazione o, in generale, della base monetaria.

Servizio sul signoraggio bancario della Rai, “un orrore”

“Su quali libri di testo e articoli di economia vi siete basati per questo orrore?”, “Cioè ma davvero questa roba è andata in onda sulla Rai?” sono alcuni dei commenti degli utenti sui social che contestano fortemente la trasmissione. Nel video mandato in onda si spiega a grandi linee cosa sia il signoraggio.

L’Italia è una delle nazioni più ricche al mondo eppure ha un debito pubblico di oltre 2300 miliardi di euro. Com’è possibile? Al di là di sprechi, ruberie e spese allegre una risposta sta nella parola signoraggio (…) il guadagno del signore che stampa la nostra moneta, in sostanza la differenza tra quanto incassato per il valore e il costo per produrla.

L’esempio riportato per spiegare il signoraggio bancario è: “se stampare un biglietto da 100 costa 1, il guadagno è di 99. Poi si ripercorre brevemente la storia del signoraggio in Italia, suddividendola in tre fasi: “la prima, fino al 1981, quella in cui il signore è lo Stato, cioè noi tutti, e attraverso la banca centrale che è di sua proprietà stampa moneta e la presta a sé stesso per offrire servizi e costruire ponti, gallerie e strade”.

Sempre la banca centrale è obbligata ad acquistare i titoli che il Paese non riesce a piazzare sul mercato (…) Il signoraggio diventa così un lievito del nostro debito pubblico (…) L’adozione dell’euro e la nascita della Bce completano l’espropriazione“.

L’autore del servizio sul signoraggio bancario si difende

Diversi economisti hanno criticato il servizio. Su La Repubblica un articolo a firma di Flavio Bini riporta i vari presunti errori del servizio tra cui quello a detta del giornalista, più clamoroso, la mancata citazione del tema dell’inflazione.

Nella prima fase, quando cioè la Banca d’Italia poteva “stampare moneta” liberamente, per ripianare disavanzi pubblici causati da un eccesso di spesa rispetto alle entrate, l’effetto è stato quello di aumentare l’inflazione. È aumentata cioè la massa monetaria in circolazione e con essa sono aumentati i prezzi, con l’effetto di ridurre il potere di acquisto delle famiglie. Nel 1981 quando venne deciso il “divorzio” sopra citato, l’inflazione (già alta a livello mondiale) viaggiava intorno al 18%. È scorretto dunque ripercorrere i benefici della prima fase, la possibilità di avere una sorta di salvadanaio illimitato e basso costo per finanziare la spesa, senza considerare le conseguenze negative.

L’autore del video andato in onda su Rai 2, Alessandro Giuli, ha ammesso di aver usato toni eccessivamente duri nei confronti dell’euro, ma ha difeso il suo servizio che esprime “un suo punto di vista” che è libero di dare.

I creatori della scheda sul signoraggio bancario si sono difesi anche sottolineando che l’ospite in sala, il professore di Economia e ministro Paolo Savona, non ha mosso alcuna critica contro il filmato. La puntata ha visto altri ospiti d’eccellenza, tra cui il ministro degli Interni Matteo Salvini e il giornalista Aldo Cazzullo, che ha intervistato il cardinale Gualtiero Bassetti

 

 
 
 

Soros: “guerra fredda tra Usa e Cina rischia di diventare calda”

Post n°4378 pubblicato il 26 Gennaio 2019 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 25 Gennaio 2019, di Mariangela Tessa

 

Stati Uniti e Cina sono bloccati una una guerra fredda, che rischia di trasformarsi presto in una guerra calda. La pensa così il miliardario George Soros che, ieri, durante una cena a Davos, dove è in corso il World Economic Forum , ha puntato il contro il presidente Usa Donald Trump, giudicando “semplicistico” il suo approccio alle relazioni con la Cina.

“Una politica efficace nei confronti della Cina non può essere ridotta a uno slogan, deve essere molto più sofisticata”, ha affermato Soros, aggiungendo che “purtroppo il presidente Trump sembra seguire un altro corso: fare concessioni alla Cina e dichiarare la vittoria, rinnovando i suoi attacchi contro gli alleati degli Stati Uniti. Tutto questo potrebbe minare l’obiettivo politico degli Stati Uniti di arginare gli abusi e gli eccessi della Cina”, ha affermato.

Soros, un importante donatore del partito democratico e critico del presidente Donald Trump, ha quindi aggiunto:

“La realtà è che siamo in una guerra fredda che minaccia di trasformarsi in una guerra calda”, sottolineando così i pericoli impliciti delle tensioni commerciali tra i due paesi.

Il finanziere Usa non risparmia colpi per il presidente cinese Xi Jinping, paragonato al Grande Fratello. Parlando della Cina, il finanziere ha sottolineato che la Cina non è il solo regime autoritario al mondo, ma di sicuro il più forte, il più ricco e più pericoloso visto che usa la tecnologia per il controllo sociale.

“Questo rende Xi Jinping il più pericoloso oppositore delle società aperte”.

 

 
 
 

Come la Francia usa il CFA per garantire parte del debito

Post n°4377 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 22 gennaio 2019, di Francesco Puppato

Il tema è vecchio e noto, ma proprio in questi giorni sta tornando alla ribalta.

Vuoi per l’evolversi degli scenari in Francia, vuoi per un crescente euroscetticismo, negli ultimi tempi si fa un gran parlare della questione legata al CFA, ovvero il Franco Centrafricano (Comunità Finanziaria Africana).

Ancora circa sette anni fa ne parlava l’economista Alberto Bagnai, ponendo l’attenzione su questioni inerenti alla sovranità monetaria. Ad oggi, la domanda è: se la questione del CFA relativa alla sovranità monetaria dei Paesi africani che adottano questa moneta spaventa tanto, perché non ci preoccupiamo allo stesso modo dell’euro?

Recentemente, alla trasmissione “Che tempo che fa”, Alessandro Di Battista ha dichiarato in merito alla questione:

“Attualmente la Francia, vicino Lione, stampa la moneta utilizzata in 14 paesi africani, tutti i paesi della zona subsahariana. I quali, non soltanto hanno una moneta stampata dalla Francia, ma per mantenere il tasso fisso, prima con il franco francese e oggi con l’euro, sono costretti a versare circa il 50 per cento dei loro denari in un conto corrente gestito dal tesoro francese…ma soprattutto la Francia, attraverso questo controllo geopolitico di quell’area dove vivono 200 milioni di persone che utilizzano le banconote di una moneta stampata in Francia, gestisce la sovranità di questi paesi impedendo la loro legittima indipendenza, sovranità fiscale, monetaria e valutaria, e la possibilità di fare politiche economiche espansive”.

In realtà a emettere la moneta non è la banca centrale francese, come spiega il sito LaVoce.info in un esauriente fact checking che smentisce parte dell’argomentazione critica di Di Battista (che confine il posto di dove si stampa denaro da quello dove si emette), bensì le singole banche centrali africane. A stampare la moneta sono anche due fabbriche francesi, ma questo non significa nulla. Stampare è questione di tecnologia, ma non dà alcun “potere” decisionale monetario.

Il sistema di cambi fissi è garantito dalla Banca centrale francese, che in cambio del servizio offerto chiede che gli Stati africani depositino il 50% delle riserve valutarie in monta estera presso il tesoro Francese (riserve quindi e non dei “denari” come sostiene Di Battista), in un conto di trading che corrisponde interessi e che è aperto a loro nome. Si stima che il valore di queste riserve sia pari a 10 miliardi di euro circa.

“Ogni politica di tasso di cambio fisso – spiega La Voce.info – richiede una riserva di valuta estera (in questo caso, l’euro) a garanzia. E le riserve in valuta estera si possono tenere soltanto in banche commerciali dell’area valutaria di riferimento oppure nella sua banca centrale”.

Prima di Di Battista, anche il sito Scenarieconomici.it – che ha una linea editoriale euro scettica e che ha ospitato spesso commenti del ministro del governo attuale Paolo Savona – aveva trattato l’argomento, sostenendo più precisamente che il funzionamento del CFA segue l’esempio sottostante:

  • Mandate l’euro per la scuola in Senegal;

  • L’euro va a Parigi;

  • Parigi trattiene l’euro, lo cambia in franco CFA, ma solo la metà viene mandata in Africa;

  • Queste riserve in euro depositate in Francia sono investiti in Titoli di Stato francesi.

Un video con dichiarazioni di professori universitari, che può essere definito un mini documentario, è facilmente reperibile al link e ne spiega in maniera sintetica ma chiara il funzionamento, mettendo in evidenza le criticità e i problemi della situazione. Detto questo, non si può parlare di imposta coloniale, come fanno alcuni.

I Paesi africani che fanno parte della cosiddetta “zone franc” e che utilizzano il CFA sono 14: Camerun Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo. I primi sei Paesi hanno il Franco CFA CEMAC (Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale), gli altri otto hanno il Franco CFA UEMOA (Unione economica e monetaria occidentale africana).

Wikipedia riporta che gli accordi che vincolano i due istituti centrali con le autorità francesi sono identici. Sono in vigore da quando sono stati firmati due trattati tra il 1959 e il 1962 (dopo la conquista dell’indipendenza da parte dei paesi africani sopra citati) e prevedono le seguenti clausole:

  • Un tipo di cambio fissato alla divisa europea;

  • Piena convertibilità delle valute con l’euro garantita dal Tesoro francese;

  • Fondo comune di riserva di moneta estera a cui partecipano tutti i paesi del CFA (almeno il 65% delle posizioni in riserva depositate presso il Tesoro francese, a garanzia del cambio monetario);

  • In contropartita alla convertibilità era prevista la partecipazione delle autorità francesi nella definizione della politica monetaria della zona CFA.

Questo sistema permette chiaramente una grande fiducia nella stabilità della moneta del paese africano dell’area. Per gli investitori, infatti, il legame con l’euro viene considerato come una garanzia monetaria.

Il franco CFA ha sempre mantenuto la parità rispetto al franco francese, salvo in casi particolari; dopo l’introduzione dell’euro, il valore del franco CFA è stato agganciato alla nuova valuta. Gli Stati africani sono loro per primi d’accordo nel mantenere il sistema di cambio fisso, che contribuisce a scongiurare inflazioni galoppanti nei paesi più vulnerabili, garantendo un’economia più solida.

14 paesi africani contribuiscono a sostenere il debito francese

La divisa straniera che viene convertita in franco CFA viene mandata alle banche centrali africane, ma il 50% deve restare in Francia come garanzia. La Francia trattiene la metà delle riserve in valuta estera: 10 miliardi che contribuiscono in parte a finanziare il debito pubblico. Di fatto i paesi africani contribuiscono a sostenere il debito francese.

In cambio ottengono una moneta forte, che tuttavia non sempre offre una situazione ideale per alcuni paesi che invece forse preferirebbero svalutare e investire maggiormente. Il franco CFA è una moneta forte, soltanto che dietro c’è spesso una moneta debole. È una divisa sopravvalutata del 10-15%. Inoltre le banche di questi paesi di solito preferiscono non prestare troppo  denaro, per evitare un incremento dell’inflazione, che metterebbe a rischio la salvaguardia del tasso di cambio fisso.

Sebbene sia la Banca di Francia e non la Banca centrale europea a continuare a garantire la convertibilità del franco CFA, la parità con l’euro obbliga le Banche centrale dell’area CFA a sottostare alla politica monetaria della Bce. I paesi africani dell’area “franco” sono costretti  a mantenere l’inflazione sotto il 2 % per la UEMOA e sotto il 3 % per la Cemac, subendo le conseguenze di una moneta forte,  talvolta poco adatta al contesto regionale che ne limita gli investimenti pubblici.

Questa tematica ha dunque notevoli impatti sull’economia, ovviamente, che a sua volta impatta sulla qualità della vita. Second Chiara Barison di Tfm.tv “questo fattore è uno dei motivi per cui tanti senegalesi decidono di avventurarsi in progetti migratori regolari o irregolari”.

Insomma, tanta carne al fuoco che davvero varrebbe la pena fosse affrontata con la giusta serietà, senza considerare il già enorme ritardo. La questione CFA non è solo africana ma anche europea e sembra davvero ridicolo che l’Ue si impunti testardamente quando si tratta di discutere sullo “zero virgola…” del deficit italiano, ma permetta operazioni distorte del genere.

 

 
 
 

Oxfam, stanno tornando i faraoni. Ce lo dice l’ultimo rapporto sulla distribuzione della ricchezza

Post n°4376 pubblicato il 22 Gennaio 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby | 22 Gennaio 2019 

 

La prima volta che mi imbattei nel Rapporto sulla distribuzione della ricchezza che Oxfam rende noto alla vigilia del supervertice di Davos i miliardari necessari a “pesare” tanto quanto la metà della popolazione mondiale erano alcune centinaia. Mi parve un dato così sconvolgente che presi a concludere ogni mio contributo nella radio in cui allora lavoravo con un “ricordatevi di Oxfam”. Uno squilibrio che da solo, scrissi, mi sembrava sufficiente a spiegare tutte le contorsioni e distorsioni politiche e sociali del nostro mondo, dall’ondata populista, che allora faceva le sue prime apparizioni, ai fenomeni migratori di massa.

Negli anni che da allora sono passati il tema della diseguaglianza e della concentrazione di ricchezza è diventato dominante nel dibattito intellettuale, economico e politico. Tutti o tanti fra quelli che contano hanno comprato e magari qualcuno anche letto i libri di Atkinson, Piketty, Milanovic. Altri, invece, si sono accaniti contro i criteri adottati dalla Ong inglese per calcolare il patrimonio nel tentativo di rimpicciolire l’immagine di zii Paperoni che si tuffano nel deposito. Energumeni da tastiera che magari villeggiano all’ombra dei petrodollari si sono entusiasmati per gli scandali che l’hanno colpita, ostentando la stessa logica per cui se in America sta nevicando allora è falso che in Australia ci siano 50 gradi. Ma alla fine nessuno è riuscito a cancellare il fatto, ormai assodato, che la piramide dei redditi è formata da una base amplissima e bassissima su cui svetta una guglia incredibilmente alta e sottile. E nemmeno a incidere anche minimamente sul fenomeno.

Anno dopo anno il numero dei miliardari necessari a bilanciare i tre miliardi e settecento milioni di esseri umani normali è diminuito fino a scendere agli attuali 26. Gli altri nababbi rimasti indietro non se la passano tanto male, visto che i 2200 più ricchi hanno visto crescere il loro patrimonio complessivo di 900 miliardi di dollari nel solo 2018. Scherzando possiamo dire che l’azione di contrasto più rilevante del decennio potrebbero essere i termini del divorzio di Jeff Bezos. Esattamente come nella questione del global warming, il quantitativo di dati e commenti è inversamente proporzionale ai risultati concreti nell’affrontare il problema. Anzi sul tema della ricchezza i fatti agiscono in direzione ostinata e contraria.

Dalla riforma fiscale di Trump a quella di Macron, dalla flat tax per ricchi stranieri di Renzi a quella finora solo pensata di Salvini e Borghi, dalla competizione al ribasso tra Stati di cui parlava Il Fatto Quotidiano domenica scorsa alla spregiudicatezza con cui vengono sfruttate da aziende e individui privi di qualsivoglia senso della misura, le élite continuano a favorire il ritorno a condizioni faraoniche. Chiedendosi perplesse, poi, come mai chi è restato plebe affamata e chi ha perso anche l’ultimo vagone della redistribuzione sia così arrabbiato, inferocito e privo di buoni sentimenti. Davvero, chissà perché?

Economia & Lobby | 22 Gennaio 2019

 

 

 
 
 

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