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Messaggi di Luglio 2019

Cambiamento climatico, così l’inettitudine dei governi lo accelera

Post n°4477 pubblicato il 15 Luglio 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Ambiente & Veleni | 15 Luglio 2019  


Da tempo su questo blog insisto a fornire informazioni sulla gravità del cambiamento climatico e a mettere in evidenza le omissioni e le sottovalutazioni di chi ci governa. In questo inizio estate gli eventi inconsueti e devastanti sulle rive settentrionali del Mediterraneo (tempeste di grandine, tornado, mareggiate sconvolgenti, venti violentissimi e improvvisi) suonano come un allarme annunciato ma disatteso colpevolmente, nell’ossessione di rendere impenetrabili ad altri esseri umani le nostre sponde, risospingendoli anche con ferocia implacabile verso i territori che già il clima e la guerra avevano reso loro impraticabili.

Ora può toccare a noi, se la minaccia climatica non diventa la priorità del futuro più prossimo e le nostre risorse economiche, culturali e sociali non si riconvertono rapidamente verso la cura della casa comune. In questi stessi giorni, oltre 250 esperti del mondo scientifico italiano hanno scritto ai presidenti della repubblica, del senato, della camera e del consiglio, una lettera dal titolo: Il riscaldamento globale è di origine antropica, chiedendo altresì “una urgente riconversione dell’economia in modo da raggiungere il traguardo di zero emissioni nette di gas serra entro il 2050”.

Senonché, invece di cominciare a precisare le date successive, già da domani, per la eliminazione delle fonti climalteranti (chiusura delle centrali a carbone, eliminazione delle prospezioni e delle estrazioni petrolifere, sostituzione della combustione del gas in impianti di nuova progettazione con sistemi di reti rinnovabili e accumuli distribuiti, riconversione degli impianti industriali e progressiva conversione dei consumi individuali e familiari), i nostri rappresentanti hanno continuato a recitare, nel teatro che i media ci allestiscono a ogni ora, l’insopportabile e unica rappresentazione del braccio di ferro intorno al fantasmagorico “contratto di governo”.

Ma mentre i topi ballano la nave prende acqua anche da falle impreviste. Esaminiamone alcune, che ci aiutano a capire come non si stia invertendo la rotta a tempo debito, né a livello globale, né sul piano nazionale.

1. Per inseguire nuovi profitti con l’estrazione di minerali, gas e petrolio dalle zone più inaccessibili e dalle profondità marine o con l’apertura di nuove rotte di navigazione rese praticabili in seguito allo scioglimento delle lande ghiacciate, la quota di fossili non convenzionali – vale a dire estratti e trasportati con bilanci energetici (ed emissioni) sempre più svantaggiosi – è in costante aumento e viene bruciata a ritmi sempre più elevati.

2. Entro la metà di questo secolo, l’aumento di temperatura, anche se moderato, porterà ad un aumento della domanda di energia, sia a livello globale che nella maggior parte delle regioni. Lo rivela uno studio pubblicato su Nature Communications da ricercatori dell’Università Ca’ Foscari, da Cmcc (Italia) e Boston University (Usa). Addirittura, l’effetto non avrà solo ripercussioni geografiche differenti, ma inciderà maggiormente sui redditi bassi. Dato che i cambiamenti climatici porteranno la domanda globale di energia nel 2050 a un aumento compreso tra l’11% e il 27% se il riscaldamento sarà modesto, e tra il 25% e il 58% se il riscaldamento sarà elevato, la domanda riguarderà in particolare l’elettricità per raffreddare gli ambienti nell’industria e nel settore dei servizi. Di conseguenza le imprese e le famiglie richiederanno meno gas naturale e petrolio per via delle minori esigenze di riscaldamento e, viceversa, più energia elettrica per soddisfare le maggiori esigenze di raffreddamento degli ambienti, con una pressione proporzionalmente più elevata sui meno abbienti.

3. Solo ora sono stati comunicati i dati per cui, in media, dal 2014 ogni anno è “sparita” dal polo sud (Antartide) una superficie di ghiaccio antartico pari a circa due volte e mezza l’Italia. Un fenomeno prima trascurato e che sembrava riservato quasi esclusivamente all’Artico. I negazionisti, che hanno sempre ignorato questa complessità, da oggi hanno un alibi in meno.

4. Secondo le Bloomberg Opinion Sparklines del 10 maggio, WattTime ha annunciato che utilizzerà la tecnologia satellitare per misurare l’inquinamento atmosferico da ogni grande centrale elettrica del mondo e per rendere disponibili questi dati al pubblico. Ciò farà venir meno la possibilità per molte centrali elettriche (comprese le nostre) di tener segreto il loro inquinamento e di ignorare la carbon tax.

5. Come riportato dalla stampa, il 14 giugno 2019 la Commissione Europea ha dato il via libera al capacity market italiano che, come impostato a oggi, prevede incentivi fino a 1,4 miliardi di € all’anno per 15 anni alle centrali a gas, esistenti e nuove. Il governo ha deciso di tirare dritto con il benestare dell’Authority, nonostante siano state sollevate proteste subito messe a tacere.

6. Il Coordinamento Nazionale No Triv il 10 Luglio 2019 ha reso noto Il Decreto Ministeriale 15 febbraio 2019, con cui sono state approvate le “linee guida nazionali per la dismissione mineraria delle piattaforme per la coltivazione di idrocarburi in mare e delle infrastrutture connesse”. A oggi l’elenco non è stato reso pubblico. Se si tiene conto che i costi di smantellamento e di bonifica dei siti sono stimati tra i 15 ed 30 milioni di dollari per singola struttura, si può capire come i proprietari Eni ed Edison di oltre 100 piattaforme in funzione possano contare su un tardivo od omesso smantellamento.

Anche senza dover tirare in ballo Erdogan o Putin o Blair, ci domandiamo: come si può procedere – come se niente fosse – a bucare l’Adriatico, sostituire il gas al carbone nelle centrali di Civitavecchia o Spezia o continuare a connettere tubi alla Puglia (Tap) e allestire centrali di pompaggio nel Parco degli Abruzzi?

Ambiente & Veleni | 15 Luglio 2019

 

 
 
 

Elezioni Grecia, Tsipras paga il suo ‘obbedisco’ alla Troika. E non solo quello

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro | 9 Luglio 2019 

 

Tsipras ha perso il centro e il voto dei cittadini medi, senza un euro in tasca e indignati per il nome concesso alla Macedonia. Il problema della classe dirigente, il ruolo della troika e le speranze di un nuovo ambientalismo

Traditore o salvatore (l’uno)? Raccomandato o speranza (l’altro)? In Grecia, e anche altrove, il dibattito sulle recenti elezioni anticipate che hanno visto il cambio della guardia tra il premier uscente Alexis Tsipras e il liberal-conservatore Kyriakos Mitsotakis si è arenato sulla contrapposizione ideologica tra destra e sinistra, mancando di analizzare invece cause ed effetti politici, contingenze che ancora persistono nel paese, percezioni personali che hanno avuto un preciso peso specifico nelle urne.

Syriza al 31% dimostra che lo zoccolo duro di sinistra e socialista legato al vecchio Pasok che vive nel ricordo di Papandreou è rimasto con il premier. Ma Tsipras ha perso il centro che nel 2014/2015 gli aveva dato fiducia, mentre oggi si è spostato sul versante di Nea Dimokratia, in grado almeno domenica scorsa (oltre che alle Europee e alle amministrative di maggio) di chiudere i fronti interni per offrire l’immagine di una squadra unita e pronta a un compito durissimo.

La principale accusa rivolta a Tsipras è di aver fatto marcia indietro con i creditori internazionali (dopo aver promesso di sconfiggere la troika) coprendosi di cenere e portando a casa un memorandum dalle condizioni peggiori dei precedenti. Il no dei cittadini al referendum del 2015 ma tramutato in un “obbedisco” di Alexis alla troika è stato visto da molti come una pugnalata alle spalle, compresa la rottura personale con l’ex ministro Yanis Varoufakis che, al netto di tesi, controtesi e retroscena, è stato l’unico ad essersi dimesso in questa storia di prestiti infiniti.

Inoltre ha mostrato una classe dirigente spesso modesta che non è stata capace di canalizzare al meglio gli interessi che i player del mondo hanno manifestato in Grecia, come i cinesi di Cosco. Oggi i greci hanno un salario minimo di circa 500 euro ma prezzi “milanesi”, zavorrati dalla super Iva e da tasse davvero insostenibili per un tessuto commerciale all’anno zero come quello ellenico. Di contro il sistema bancario è stato messo in sicurezza, il paese è tornato a finanziarsi sui mercati, la disoccupazione è sempre a livelli record e mostra un trend in calo. Ma la Grecia rimane legata ai suoi creditori fino al 2052.

L’accordo di Prespa sul nome Macedonia concesso a Skopje non è stato secondario nell’economia complessiva del voto, dal momento che mentre Tsipras raggiungeva un punto di contatto con Fyrom e Ue, dall’altro nelle piazze di Atene e Salonicco protestavano in tanti, non solo cattolici ortodossi, nazionalisti o suoi oppositori. Ma anche cittadini di centro o apartitici, indignati per un clamoroso falso storico.

Passaggio che in tempi non sospetti, nel 2008, venne messo nero su bianco da uno dei più prestigiosi archeologi del mondo. Stephen Miller, docente presso l’Università della California, assieme ad altri 200 colleghi scrisse all’allora Presidente americano Barack Obama chiedendo di non avallare il cambio di nome, per ragioni meramente storiche e non ideologiche né di stampo razzista. Osservò che la provincia settentrionale della Grecia è stata chiamata Macedonia per circa 3mila anni; inoltre è noto alla storia che i macedoni erano greci e che, di fatto, Alessandro Magno si considerava un discendente di Achille ed Ercole. E si chiese: “C’è qualche dubbio su questi fatti storici?”.

Il neo premier Kyriakos Mitsotakis, discendente della nota famiglia che ha già dato alla Grecia un premier e un ministro degli Esteri, è accusato di essere il volto vecchio di un paese in ginocchio. Al momento promette in 12 mesi di realizzare il suo programma, fatto di liberalizzazioni e meno tasse puntando in primis a non pagare più le euromulte a Bruxelles per le discariche abusive che proliferano in Grecia. Ai suoi detrattori ricorda che dal 1981 ad oggi per 17 anni ha governato il Pasok e solo per sette Nea Dimokratia. Di fatto oggi oltre al governo ha in mano moltissime amministrazioni locali, tra regioni, prefetture e comuni. Per cui è regista in solitario del proprio destino.

Twitter @FDepalo

Zonaeuro | 9 Luglio 2019

 

 

 
 
 

Oggi il vero marxista è sovranista

Post n°4475 pubblicato il 11 Luglio 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Società | 11 Luglio 2019  

 

Non è possibile risocializzare l’economia, in assenza di un preventivo recupero della sovranità nazionale. Lo Stato nazionale può essere democratico: l’economia globalizzata e senza politica non lo sarà mai. La liberazione dal giogo globalista e dai suoi “vincoli esterni” (modalità Unione Europea), che sovranazionalizzando le decisioni annichiliscono ogni spazio democratico, figura come conditio sine qua non per la ripoliticizzazione dell’economico e per la ridemocratizzazione della realtà socio-politica (con politiche welfaristiche e manovre nazionali orientate alla piena occupazione).

Senza sovranismo politico, non possono esservi democrazia e diritti sociali. Senza populismo, ossia senza movimento dal basso del Servo glebalizzato e uscito dalla passività, non può esservi un sovranismo democratico e socialista.

Contro le anime belle del globalismo dei diritti e della global democracy, occorre ribadire, con il realismo di Antonio Gramsci, che “ogni conquista della civiltà diventa permanente, è storia reale e non episodio superficiale e caduco, in quanto si incarna in una istituzione e trova una forma nello Stato” (Lo Stato e il socialismo, 1919).

Finché ci si limita a immaginare o – à la Toni Negri di Impero – un taumaturgico rovesciamento del globalismo nel comunismo, o una lineare evoluzione della mondializzazione verso la democrazia e l’uguaglianza, l’idea socialista – ancora con le parole del Gramsci di Lo Stato e il socialismo – resta “un mito, una evanescente chimera, un mero arbitrio della fantasia individuale”.

Per attuarsi, il socialismo democratico necessita di una soggettività organizzata in movimento rivoluzionario, coincidente oggi con il Servo nazionale-popolare (momento populista). E, insieme, abbisogna della forma Stato (momento sovranista), come forma in grado di istituzionalizzare le conquiste del movimento e di renderle governo centrato sulla sovranità popolare.

Non si registrano, del resto, forme di socialismo più o meno perfettamente realizzato se non nel quadro di Stati nazionali concreti: dal patria o muerte di Che Guevara al “socialismo in un solo Paese” di area sovietica, passando per le socialdemocrazie scandinave e per i socialismi patriottici “bolivariani” dell’America Latina (Bolivia, Venezuela, ecc.)

Così inteso, il populismo sovranista – variante del marxismo nel nuovo millennio – è il movimento mediante il quale il popolo, abbandonando la condizione di passività subalterna, torna a essere protagonista della propria vicenda storica. Recupera la propria sovranità e il proprio protagonismo conflittuale e rivendicativo, partecipativo e deliberativo: e prende a muoversi, con la propria “volontà collettiva”, direbbe Gramsci, secondo linee concettuali opposte rispetto a quelle del blocco dominante e tutte orbitanti intorno al fuoco prospettico del recupero della sovranità come base della riapertura del conflitto biunivoco tra Servo e Signore e del possibile ritorno alla democrazia e ai diritti sociali.

Per questo, il populismo sovrano, come bene ha mostrato Carlo Formenti in La variante populista, è oggi la sola possibilità di restituire potenza all’elemento democratico.

Senza sovranità “dello” Stato, non può esservi quella sovranità popolare “nello” Stato che coincide, in ultimo, con la democrazia come autodeterminazione del demos: nell’ordine della lotta di classe condotta dall’alto dall’élite globalista liquido-finanziaria, la rimozione delle sovranità “degli” Stati è sempre funzionale alla rimozione delle sovranità popolari “negli” Stati, di modo che le decisioni si spostino dai parlamenti nazionali ai consigli di amministrazione post-nazionali.

Anche da ciò si evince l’inevitabile nesso tra democrazia e spazio nazionale, da una parte, e tra dittatura dell’economico e spazio cosmopolitizzato, dall’altra. La lotta di classe è, oggi, tra l’illimitata apertura finanziaria e l’autonomia nazionale come base della possibile decisione del demos.

Il Signore, che un tempo fu nazionalista, ora è cosmopolita. Il Servo, per parte sua, deve essere sovranista e internazionalista, mai nazionalista in senso regressivo o, alternativamente, cosmopolitico in chiave liberista. Il nazionalismo, in quanto individualismo capitalistico riferito alla nazione, applica il competitivismo del bellum omnium contra omnes al nesso con le altre nazioni: se potesse, le neutralizzerebbe per tutelare il proprio egoismo acquisitivo. Il cosmopolitismo, per parte sua, battaglia contro la dimensione nazionale in nome della openness e della libera circolazione deregolamentata.

L’internazionalismo socialista, infine, valorizza la dimensione nazionale, ma non nazionalista: sa bene che non si può essere internazionali senza essere nazionali, e che non si può essere democratici e socialisti senza rovesciare il nazionalismo imperialista e la sua evoluzione globalizzata, il cosmopolitismo liberista come dominio planetario di un’unica nazione (la monarchia del dollaro) e di una sola maniera di pensare, esistere, parlare e relazionarsi.

Per questo l’internazionalismo socialista, coniugando il populismo sovranista con l’internazionalismo e con la democrazia socialista, si oppone fermamente tanto al nazionalismo imperialista, quanto al cosmopolitismo mercatista. Fa valere l’idea-guida di una costellazione nazionale (e non post-nazionale, à la Habermas) di patrie solidali e comunitarie, socialiste e democratiche, rispettose della propria irriducibile alterità e, insieme, concepite come sorelle e non come competitors nell’arena della guerra di tutti contro tutti.

Società | 11 Luglio 2019

 

 

 

 
 
 

Alaska: temperature record, incendi, visibilita' ridotta, la calamita' dei cambiamenti climatici

Post n°4474 pubblicato il 10 Luglio 2019 da ninograg1
 

Fonte: No all'Italia petrolizzata di Maria Rita D'Orsogna

 

La situazione in Alaska e' drammatica. Specie se si pensa che si parla di uno stato ai confini, e in qualche tratto pure dentro, al circolo polare artico.

Il Giugno 2019 e' stato disastroso e Luglio non promette di meglio.

Ad Anchorage, una delle citta' piu' grandi, la temperatura e' arrivata a 32 gradi, record mai raggiunto qui. I meterologi prevedono una lunga, lunghissima, ondata di caldo ulteriore.  La temperatura media e' di 24 gradi. Quindi siamo ad 8 gradi in piu' della media.
  
Nel circondario vari incendi che hanno mandato in fiamme foresta boreale, permafrost e tundra. Per paura che arrivino ancora piu' incendi in zona, il 4 luglio non ci sono stati fuochi pirotecnici.

Intanto il cielo di Anchorage, e' carico di fumi dagli incendi, specie dal cosidetto Swan Lake fire che arde da un mese. La visibilita' e' scarsa in una vasta area a sud della citta'. Ci sono quasi 500 pompieri a cercare di estinguere questo incendio, con circa 30mila ettari andati in fiamme. Alle persone sensibili e' stato consigliato di restare in casa.  

Ci sono qui 100 incendi attivi in questo momento.

E infine ci sono alti tassi di scioglimento delle nevi che ha portato anomalie e dannni specie alle popolazioni indigene che dipendono dalla pesca e dalla caccia.

In Alaska.

 

 
 
 

Brexit: svolta per il Labour, in un secondo referendum sosterrà il Remain

Post n°4473 pubblicato il 09 Luglio 2019 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 9 Luglio 2019, di Alberto Battaglia

 

Il partito Laburista britannico ha concordato con i sindacati una nuova posizione più decisamente europeista: il leader del Labour, Jeremy Corbyn, ha annunciato che il partito chiederà un referendum per sottoporre al giudizio popolare qualsiasi accordo che il governo conservatore dovesse raggiungere sulla Brexit; incluso lo scenario No Deal.
In tale consultazione i laburisti sosterrebbero la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, cambiando nettamente la linea mantenuta finora: rispettare l’esito del primo referendum sulla Brexit.

Le ambiguità non sono del tutto sparite: infatti, nel caso dovessero aver luogo nuove elezioni prima del recesso ufficiale dall’Ue, il partito laburista ha preso l’impegno di completare la Brexit cercando un accordo con Bruxelles. In tal caso, si tratterebbe di garantire un’uscita sufficientemente morbida, lasciando il Regno Unito all’interno dell’unione doganale (e abbandonando così la possibilità di esercitare una politica commerciale autonoma).
In altre parole, il Labour Party, ha spostato il suo baricentro verso l’ala europeista del partito, impegnandosi a sostenere un’eventuale campagna referendaria a sostegno del Remain. Non bisogna dimenticare, infatti, che il Regno Unito ha il potere di ritirare unilateralmente il processo di uscita dall’Unione Europea. Il problema non è giuridico, ma politico: solo un mandato popolare potrebbe rendere accettabile una retromarcia così clamorosa.

La linea concordata con i sindacati, tuttavia, sembra intrinsecamente contraddittoria. Come ha messo in evidenza il giornale progressista britannico The Guardian, non si capisce perché il partito dovrebbe rigettare un accordo sulla Brexit del governo conservatore in sede referendaria sostenendo il Remain, e allo stesso tempo annunciare che in caso di vittoria elettorale cercherebbe un accordo sulla Brexit. In sintesi: “Una Brexit conservatrice: male. Una Brexit laburista: bene, anche se fosse molto simile al Tory deal, come sembra probabile”, ha commentato Gaby Hinsliff sul quotidiano britannico.

 

 
 
 

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