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Messaggi di Settembre 2019

Clima, concentrarsi sulla diagnosi non basta. Occorre agire sulla terapia

Post n°4508 pubblicato il 30 Settembre 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Ambiente & Veleni - 30 Settembre 2019 Luciano Casolari

Quando stavo per laurearmi, ero affascinato dalla neurologia. Avevo un professore molto bravo che, come Sherlock Holmes, in base ai sintomi riusciva a capire la sede della lesione cerebrale. All’epoca la risonanza magnetica e la tac erano appena agli inizi e le diagnosi si basavano sulla clinica. Mi allontanai dalla neurologia perché purtroppo la terapia, in quel momento storico, era ben poca cosa. Assistevamo, quindi, a sofisticate diagnosi per poi attuare sempre le stesse terapie.

Il dibattito sul clima attuale mi pare simile alla situazione a cui assistevo all’epoca per la neurologia: tutti ad accapigliarsi sulla diagnosi con idee divergenti e, d’altro canto, scarsissime proposte sulla terapia. Ma a chi importa se il riscaldamento globale cui assistiamo è parte di un normale ciclo nei cambiamenti climatici terrestri o frutto dell’intervento dell’uomo? Il fatto è che dovremo adattarci, volenti o nolenti.

Sperare in un’inversione dei cicli è, anche per gli scienziati che negano l’importanza dell’azione dell’uomo, utopico in quanto questi cambiamenti durano secoli. Certo, se il cosiddetto effetto serra è la prima causa del surriscaldamento, ne deriva una grande responsabilità per l’umanità. Anche se l’aumento dell’anidride carbonica fosse marginale nel determinare i cambiamenti climatici, non per questo dovremmo continuare impunemente a inquinare.

Invece di discutere fra “Gretini” e “antiGretini” forse sarebbe importante fissare la nostra attenzione su dei progetti praticabili. Finora le proposte corrispondono al meccanismo utopico di colui che esclama “occorre cambiare” senza sapere come e, soprattutto, aspettandosi che prima siano gli altri a farlo.

Ho provato a rifletterci a livello personale. Nella quotidianità è difficile pensare di abbandonare l’auto per i mezzi pubblici, non programmare più viaggi, fare la doccia con acqua fredda o stare col cappotto in casa durante l’inverno per tenere la temperatura del riscaldamento a 15 gradi. Quello che ho messo in atto per la sostenibilità e il risparmio energetico come, ad esempio, incollare il cappotto di isolante alla casa, installare il fotovoltaico e attuare la differenziazione dei rifiuti, non è chiaramente sufficiente.

Uscendo dal personale, anche per le nazioni pensare di cambiare radicalmente il tenore di vita e il modello di sviluppo è molto difficile, in quanto impatta su tanti posti di lavoro e su abitudini ormai consolidate. Forse perché ho una grande fiducia nella scienza, proporrei un grande sforzo economico internazionale per finanziare, con almeno un centinaio di miliardi, la ricerca nei campi della realizzazione di nuove energie più pulite rispetto alle attuali e rinnovabili.

Inoltre si potrebbero finanziare ricerche per eliminare e trasformare l’anidride carbonica con processi simili alla fotosintesi, ma più veloci ed efficienti. Per un grande progetto internazionale di questa portata occorre il contributo degli Stati, ma anche dei cittadini che potrebbero investire in progetti di ricerca, per poi ricavare utili nel caso abbiano risultati positivi. Abbandonerei le discussioni sulla diagnosi del problema per concentrare gli sforzi su una possibile terapia che, a mio avviso, risiede in buona parte nell’innovazione e nella ricerca scientifica.

 

 
 
 

Olanda non è più paradiso fiscale: tremano colossi del made in Italy

Post n°4507 pubblicato il 26 Settembre 2019 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 24 Settembre 2019, di Alessandra Caparello

 

L’Olanda si scrolla di dosso la qualifica di paradiso fiscale e alcuni colossi italiani, Fca e Mediaset in testa, sono sull’attenti. L’Olanda è l’ultimo fiore all’occhiello dei paradisi fiscali di nuova generazione ma le prospettive di bilancio, entrate e uscite, per il prossimo biennio non sono affatto promettenti. Da qui i responsabili dell’Economia hanno deciso di introdurre due misure intese a garantire che le multinazionali paghino le imposte.

La prima misura, come riporta Il Sole 24 ore, riguarda le grandi aziende olandesi in cerca di giurisdizioni a bassa tassazione. In tal caso si prevede la reintroduzione del pagamento delle imposte sugli interessi e sulle royalties, un’aliquota tra il 21 e il 22 per cento che andrebbe a intaccare tali flussi stimati su base annua in 22 miliardi di euro l’anno.
La misura annunciata dal governo segue un malcontento popolare contro i colossi societari transnazionali olandesi, Royal Dutch Shell Plc e Koninklijke Philips NV Philips in testa, che hanno ammesso di non pagare nessuna imposte sui profitti nei Paesi Bassi.

La seconda misura ha come obiettivo invece ridurre l’impatto della norma sulla deducibilità di particolari perdite societarie, che ha aiutato le multinazionali con sede in Olanda a pagare zero imposte sui profitti nei Paesi Bassi. In tal caso, come riporta il quotidiano di Confindustria, si detrarrebbero le perdite estere, derivanti dalla liquidazione delle società controllate, in patria.

Le imprese italiane tremano. Fca è ospite dell’Olanda dal 2014 e nel paese dei tulipani intendeva collocare la sede legale della creatura che sarebbe dovuta nasce dalla fusione con Renault. In Olanda si è posizionata MediaForEurope, la nuova holding che unirà Mediaset italiana e spagnola.
Tra gli altri italiani trapiantanti in Olanda troviamo Cementir, del gruppo Caltagirone, ha deliberato il trasferimento in Olanda della sede legale a fine maggio. Tra gli altri Eni, Enel, Exor, Ferrero, Prysmian, Saipem, Telecom Italia, Illy e Luxottica Group costituiscono altri casi di grandi aziende, italiane, con sede legale principale, o di una consociata, che opera in Olanda. Ma non è solo il made in Italy a essere a rischio. Hanno trovato ristoro fiscale in Olanda anche decine di società controllate che fanno capo alla Nike, e poi Ebay, Uber, Tesla, Google, Unilever e Ikea.

 

 
 
 

Ipsos: italiani preoccupati per il futuro, aumenta propensione al risparmio

Post n°4506 pubblicato il 24 Settembre 2019 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 19 Settembre 2019, di Mariangela Tessa

 

Le famiglie italiane sono sempre più preoccupate per il futuro. Motivo per il quale cresce la propensione al risparmio. Sono alcuni dati che emergono da una ricerca realizzata da Stefania Conti, Business development director – Financial services di Ipsos, presentata oggi e anticipata dal quotidiano La Stampa.

Dalla ricerca emerge infatti che a fronte del 41% delle famiglie che dice di essere soddisfatto per l’economia familiare è in aumento la percentuale di quelle che risparmiano: dal 55% nel 2017, la percentuale è salita di due punti (57%).

L‘accumulo non finalizzato a gennaio – riporta l’analisi-  ha raggiunto quota 81%. Per quanto riguarda invece i timori, quello più diffuso è legato al tema della salute (75%), seguito dal timore di perdere il lavoro (51%). In questo quadro i ricercatori Ipsos hanno inoltre rilevato che il 37% delle persone ritiene che i timori possano essere gestiti con una polizza assicurativa.

 

 
 
 

Alert Ifo: Germania in recessione quest’anno, PIL crescerà allo 0,5%

Post n°4505 pubblicato il 19 Settembre 2019 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 12 Settembre 2019, di Alessandra Caparello

 

L’istituto Ifo prevede una recessione quest’anno per la Germania. Gli economisti si aspettano ora un’espansione del prodotto interno lordo dello 0,5% e non più dello 0,6% nel 2019.

“L’economia tedesca rischia di finire in recessione. Come una chiazza di petrolio, la debolezza dell’industria si sta gradualmente diffondendo in altri settori dell’economia, come la logistica, uno dei fornitori di servizi”, afferma Timo Wollmershaeuser, head of Fforecasts dell’Ifo.

 

 
 
 

1992, una lezione per l’oggi. Quando svalutare la lira fu il punto di partenza per la ripresa

Post n°4504 pubblicato il 16 Settembre 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro - 13 Settembre 2019   PierGiorgio Gawronski

Nel novembre del 1991 presentai al Capo dell’Ufficio studi dove lavoravo la previsione, nel 1992, di: (a) una svalutazione della lira del 25%, “forse in Novembre”; (b) il previo aumento dei tassi d’interesse (in difesa del cambio). Consigliai di alleggerire il portafoglio titoli, per ricomprarli più bassi nella tempesta, atteggiandoci pure a difensori della Patria.

Il 2 giugno 1992 il NO dei danesi all’euro scatenò la speculazione. L’Italia aveva appena votato, ed era senza governo. La banca d’Italia alzò i tassi troppo debolmente. E Ciampi fece un errore fatale; dichiarò: “Che dolore alzare i tassi!”, rivelando che non avrebbe fatto molto di più. A quel punto le sorti della lira erano già segnate. La speculazione prese d’assalto l’ultimo baluardo, le riserve valutarie della banca d’Italia.

Dietro alle mosse di Ciampi c’era l’economista Pierluigi Ciocca, con il quale ebbi una secca discussione a fine giugno all’Osservatorio Monetario di Vaciago a Milano. Per qualche strano motivo Ciocca passa per “keynesiano”. Ma a Milano usò un modello neoclassico dove “il cambio di equilibrio” dipendeva dai differenziali d’inflazione, punto; e secondo quel modello, lo squilibrio (eventualmente) da correggere era solo del 7%… In realtà Ciocca, nonostante la recessione in atto, temeva l’inflazione. Su questo punto ci fu un’infuocata discussione ai primissimi di settembre in Sapienza, organizzata da Ferruccio Marzano. Cinquanta economisti – dopo l’“eventuale” (!) svalutazione – vedevano un aumento dell’inflazione; solo tre ne prevedevano il calo (fra questi l’allora Presidente dell’Istat Rey, il sottoscritto, e un terzo che non ricordo). Keynes era stato non superato, ma dimenticato.

Ciampi era convinto di riuscire ad evitare la svalutazione: lo Sme impegnava la Germania a una difesa illimitata dei cambi fissi; e non le facevano difetto i marchi (li stampava). Ma l’11 settembre la Germania abbandonò l’Italia al suo destino. Ciampi “era verde” (Amato). Svalutò la lira del 7% e resistette altri 3 giorni prima di accettare l’inevitabile. L’emorragia di riserve valutarie raggiunse il parossismo, poi improvvisamente finì il 16 settembre alle ore 17 quando chiusero i mercati e l’Italia uscì dallo Sme.

La difesa del cambio, pur se inefficiente, non fu inutile: consentì l’accordo del 31 luglio, essenziale per una svalutazione non inflazionistica. Ma la contropartita promessa ai sindacati era che non avremmo svalutato. Perciò farlo subito non si poteva. Se l’inganno (a fin di bene) fosse stato troppo plateale, irridente, la politica dei redditi rischiava di non tenere. L’accordo fu invece un architrave della “svalutazione virtuosa”, che si realizzò come da manuale.

Contrariamente a quanto accadde nel 2011-15, la svalutazione del 1992 fu il punto di partenza di una straordinaria ripresa del Paese. Negli anni successivi l’Italia uscì da una situazione difficilissima, col deficit al 12% del Pil, debito pubblico a 105%, debito estero al 30%, bilancia commerciale in rosso, ecc. L’inflazione scese dal 5,5% (sett. 1992) al 4,6% (1993), al 4% (1994). Quanto alle riserve, la perdita di valore per lo Stato italiano fu pari a “solo” il 23% delle riserve vendute: pari cioè a quanto esse si svalutarono, alla fine dei giochi. Si poteva far meglio; ma anche peggio (nel 2011-15 si è fatto molto ma molto peggio secondo tutti gli indicatori economici e sociali che conosco). La banca d’Italia fece diversi errori, ma fra questi non quello di difendere il cambio il tempo necessario per preparare una svalutazione da manuale. L’errore n.1 fu come difese il cambio (tutto con le riserve, zero con gli annunci, pochissimo e tardi con i tassi): Ciampi da ragazzo non giocava a poker. L’errore n.2 fu non uscire dallo Sme all’inizio di settembre.

Secondo Lorenzo Bini Smaghi: “Quelli che rimpiangono la lira o le moneta nazionali dovrebbero ricordarsi di quegli anni e come la sovranità monetaria e fiscale era assai limitata… mentre i mercati reagivano con enormi overshooting e instabilità finanziaria”. Senza essere un sovranista, osservo che è paradossale criticare l’assetto del 92 perché “la sovranità monetaria e fiscale era assai limitata”: lo era sempre meno di ora! Quanto all’instabilità, ora che non è più assorbita dai mercati finanziari, si scarica tutta sui mercati reali e l’occupazione: meglio per i rentiers, un po’ seccante per i lavoratori. Infine, i limiti dell’epoca alla sovranità monetaria e fiscale creati dalla Germania, come pure i tassi d’interesse a volte elevati, dipendevano unicamente dai cambi fissi: un accordo liberamente sottoscritto e in qualsiasi momento revocabile (o riformulabile, su nuove parità). Perciò il “potere di ricatto” di entità estere era infinitamente inferiore a quello subìto p.es. da Tsipras nel 2015. Quando “la speculazione indotta dalla crisi valutaria fece salire [ottobre 1992] i tassi sul debito pubblico oltre la doppia cifra…” (Recanatesi), il problema rientrò in poche settimane; perché allora avevamo un lender of last resort (Bankitalia) che si faceva rispettare dai mercati, non l’assetto liberista e di laissez faire attuale.

Quanto alla Germania, lo storico Harold James ha scoperto che il rifiuto di onorare gli impegni sui cambi era stato già deciso ai massimi livelli alla nascita dello Sme (1978); ma i tedeschi tennero segreta la decisione per vincolare gli altri paesi. La doppiezza tedesca del 1978-92 è gravissima, perché l’euro è figlio dello Sme: “una moneta unica costruita senza la solidarietà richiesta già da un “buon” regime di cambi fissi genera un dualismo economico fra zone forti e zone deboli” (La Malfa). Nel 1980-98, quando la competitività si squilibrava: o il paese in surplus stampava moneta e alzava il suo livello dei prezzi; o si aggiustava il cambio; e la vita continuava. Mentre oggi il rifiuto – non solo tedesco – di espandere la domanda, alzare i prezzi, e riequilibrare la competitività, ha effetti drammatici, potenzialmente illimitati, sugli altri paesi.

 
 
 

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