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Messaggi di Dicembre 2019

Trent’anni fa il primo episodio dei Simpson. E fu una rivoluzione

Post n°4534 pubblicato il 17 Dicembre 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Simone Vacatello  Televisione - 17 Dicembre 2019

 

 

“Quello che cerco di fare nel mio lavoro è ridurre la distanza tra l’intrattenimento artistico che vedevo in TV da bambino e quello che pensavo fosse vero, reale”. Sono le parole con cui Matt Groening stesso, nel documentario My wasted life, descrive l’obiettivo che si era posto nel momento in cui ha creato i Simpson.

Da allora sono passati trent’anni e quello che è avvenuto nel mentre è stata una rivoluzione dell’animazione seriale. Prima di Homer e congiunti, l’unica famiglia animata mai arrivata a dominare l’ora di cena nelle tv statunitensi era stata quella dei Flintstones, con la loro parodia innocua di una corporate America ancora primitiva, alle prese coi propri miti fondanti di famiglia e progresso.

La Springfield itterica di Groening, invece, si serviva proprio di quei miti fondanti per ridicolizzarne le ipocrisie, per introdurre un retrogusto amaro nella torta di mele tradizionale, e un sospetto di sofisticazione alimentare nel tacchino del Ringraziamento. Lo faceva innanzitutto cercando di ridurre appunto la distanza tra i paradossi surreali dell’animazione e un’eco che facesse risuonare come verosimile le tematiche affrontate dagli episodi.

Homer poteva cadere in un dirupo o prendere cannonate in pancia senza morire, proprio come avveniva a un Willy il Coyote qualsiasi, ma venendone comunque fuori con seri danni fisici, per quanto fittizi e richiesti appunto dalla narrazione. Soprattutto, alcuni personaggi potevano non fare più ritorno da un incidente (si veda la morte di Maude Flanders nell’undicesima stagione). La sospensione dell’incredulità, insomma, si faceva flessibile ma comunque ai fini di una opportuna imitazione del reale.

Questa imitazione non solo si è calata talmente tanto nella realtà popolare da sorpassare a destra la dimensione parodistica e anticipare eventi quali l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti, ma ha soprattutto preso la forma di un microcosmo denso, sfaccettato e pittoresco di personaggi secondari, che al tempo della loro ideazione si disfacevano di vecchi stereotipi per crearne di nuovi, e mettere alla berlina le dinamiche di un’America che si preparava a lasciare i vecchi trucchi da ventesimo secolo della Fox, per entrare nel ventunesimo con maggiore familiarità rispetto alle proprie bruttezze.

L’alcolizzato e inaffidabile Homer non era meno mediocre come padre di famiglia di quanto non lo fosse come supervisore della sicurezza di una centrale nucleare responsabile dei disastri ambientali sul territorio. Allo stesso modo la moglie Marge incarnava alla perfezione le aspirazioni negate di migliaia di donne americane ancora sopraffatte da vecchie dinamiche patriarcali.

Le stesse dinamiche impedivano ai numerosi talenti della figlia Lisa di ricevere il riconoscimento che le spettava, mentre agevolavano lo scapestrato Bart nel passarla liscia dopo ogni nuovo atto vandalico. Intorno a loro, una Springfield animata dal suo folklore tipico: sindaci conniventi con la mala, forze dell’ordine inadatte, ottuse e compiacenti, figure religiose prive di empatia e ossessionate dal proprio status quo e, in generale, un tessuto urbano e sociale profondamente immerso in quell’eco di abbandono e di desiderio di rivalsa che separa New York da Los Angeles e si propaga attraverso cinquanta Stati.

Tuttavia, attraverso le maglie tenui di questa narrazione, nel corso degli anni sono innumerevoli i messaggi progressisti e di accettazione del prossimo che Groening e compagnia sono riusciti a indirizzare al pubblico: il tutto partendo da un ritratto di famiglia americano che doveva essere tutt’altro che edificante e costruttivo, almeno nelle intenzioni iniziali.

Il tentativo degli autori di connettere emotivamente il pubblico ai protagonisti, infatti, non solo si poté dire riuscito dopo una manciata di stagioni, ma riuscì a espandersi creando un tessuto connettivo pop che è diventato lessico famigliare di un’intera generazione, tanto da portare la tipica esclamazione di Homer (“D’oh!”) a essere inserita nell’Oxford English Dictionary.

Il desiderio di fornire in qualche modo un lieto fine, una lezione “positiva” al pubblico ogni qual volta fosse possibile, a fronte del cinismo del linguaggio e degli scenari, ha reso lo show un ponte tra l’Occidente letterario “proibito”, quello cioè che mette in discussione i suoi crismi fondamentali (famiglia, religione, Stato) e quello comunemente accettato come formativo. Solo questo basterebbe a fare dei Simpson uno dei massimi esempi di letteratura pop animata a cavallo del cambio di secolo.

L’accusa che è stata rivolta più spesso allo show nei tempi recenti è di avere perso, soprattutto nell’ultimo decennio, gran parte del suo smalto a scapito di serie che traggono palese ispirazione dai suoi schemi narrativi fondanti (Family Guy, Futurama, American Dad, lo stesso Rick e Morty).

Di sicuro ciò che si faceva parodia nei Simpson è diventato vera e propria decostruzione nei suoi “epigoni”, e non coinvolge più soltanto gli scenari fittizi degli Stati Uniti, ma nuove frontiere globali, in cui le caricature della disfunzionalità emotiva e sociale si fanno più anarchiche, in alcuni casi addirittura nichiliste, di certo più in linea con lo zeitgeist.

Si può dire perciò che Homer, Bart e co. siano invecchiati male, o piuttosto che gli scenari da loro parodizzati si siano fatti così amari e rapidi, nelle loro evoluzioni, da non riuscire più a ritrovarsi facilmente in quell’equazione che trent’anni fa si era rivelata rivoluzionaria: essa era sì scettica e controcorrente, ma col senno di poi decisamente ottimista. Questo perché i Simpson, in quanto show, avevano più di un problema con l’America in cui erano nati, ma è innegabile che, tra una sferzata e l’altra, si sforzassero anche di mostrarne un volto più conciliante.

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a risentirci dopo le feste; per i credenti: Buon natale e buon anno nuovo; per tutti gli altri buone feste....

 

 
 
 

piazza fontana, 50 anni dopo: poche verità e molte bugie

Post n°4533 pubblicato il 12 Dicembre 2019 da ninograg1
 

Innanzitutto un suggerimento:

quando uscì fece parlare, e già questo è importante in un paese dove gli scheletri negli armadi sono maggiori dei cittadini che ci vivono, e discutere aspramente.... a riprova che chi allora ordinò e orchestrò le stragi ancora oggi NON vuole che luce sia fatta.

In secondo luogo avete notato che ieri l'unico speciale su Piazza Fontana lo ha fatto SkyTG24? Si altri han citato le date e/o poc'altro (Rai Storia) ma l'unico special serio l'ha fatto prorpio questo canale... e l'impressione che se ne ricava, oltre a quanto su detto, è che lo Stato ha depistato (...) a sinistra, prima, e verso gli anarchici, poi, per evitare che gli esecutori, e i mandanti (i secondi da ricercare in alcune divisioni del Minitern e del servizio segreto) venissero alla luce.

Come vogliamo sperare di risolevare un paese quando i suoi cittadini non si possono fidare delle istituzioni dello stesso?

Oggi saremmo diversi se la stagione stragista fosse stata fermata subito o addirittura non ci fosse stata?

E' vero che con i 'se' e i 'ma' la storia non si fa.. però, ormai, a danno fatto, e paese fottuto dai suoi stessi servitori, potremmo almeno disvelare e rendere pubblica la verità, del tutto parziale, giudiziaria!

Questo libro è da lì che è partito, ce ne sono altri sia chiaro, e da lì spiega antefatti e ambiti.

per approfondire senza leggere troppo (per qualcuno si sa che stanca la metne e svegia i neuroni.. meglio cullarsi nel sogno come gli aborigeni in attesi che 'qualcuno faccia qualcosa.. cosa purtroppo avvenuta nello stesso modo in cui hanno fregato gli stessi aborigeni') che si sa fa male c'è sempre Wikipedia:

Piazza Fontana; Strategia della tensione; il 'caso Pinelli' (e ne cito alcune, ma la lista è lunghissima); e tutte le voci correlate che trovate in basso a queste pagine... Giovanni Paolo II disse, cito a memoria naturalmente: Non abbiate paura..

 
 
 

Uk, i mercati iniziano a farsi piacere Boris Johnson e la Brexit: l’alternativa li terrorizza ancora di più

Post n°4532 pubblicato il 11 Dicembre 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Mondo - 8 Dicembre 2019 Loretta Napoleoni

Siamo arrivati alla dirittura d’arrivo delle elezioni nel Regno Unito, i sondaggi, per quello che valgono, danno i conservatori in testa ed infatti la sterlina è salita ed i mercati finanziari si sono concessi una modesta euforia. Sembra assurdo dal momento che una vittoria di Johnson porterebbe all’uscita della nazione dall’Unione Europea ed all’incubo della negoziazione e stesura di nuovo trattati con i paese membri dell’Unione e con il resto del mondo. Tutto ciò, bisogna aggiungere, deve essere fatto nel giro di 11 mesi, entro la fine del 2020. Un’impresa impossibile. Ma tutto ciò avverrà nel corso del 2020, nel lungo periodo quindi, ed i mercati sono estremamente miopi, guardano solo all’immediato.

E’ bene però domandarsi perché Johnson oggi piace ai mercati mentre mesi fa non era poi così gradito, e la risposta è facile, l’alternativa, cioè Jeremy Corbyn, è ben peggiore. Labour ha un programma socialista che propone, tra le altre cose, di nazionalizzare le ferrovie, le poste, l’industria idrica ed energetica. In parte i costi verranno coperti con un aumento del debito pubblico, bene per i guilts dunque, ma anche da una maggiore tassazione. In prima fila ci sono le multinazionali e gli evasori fiscali che verranno duramente penalizzati per non pagare quanto dovuto. Imposte ad hoc vorranno anche applicate ad una serie di industrie, quella del petrolio, ad esempio, pagherà di più ed i proventi verranno devoluti alla lotta contro i cambiamenti climatici. Imprese che sfruttano i dipendenti saranno punite con imposte maggiorate, tra queste Labour ha già individuato Amazon, Uber e Sport Direct. Infine il gruppo BT, la British Telecom, si vedrà nazionalizzare la banda larga che Labour vuole offrire gratis alla nazione.

Passando al settore finanziario nel mirino di Corbyn ci sono le banche. Labour ridurrà il loro potere ed il meccanismo attraverso il quale redistribuiscono la ricchezza, a favore dei ricchi sostengono i laburisti. In che modo? Aumenterà l’imposta sulle transazioni finanziarie, i bonus dei banchieri verranno limitati e le imprese quotate in borsa che non si adoperano abbastanza per contenere i cambiamenti climatici saranno radiate dagli indici. Infine Corbyn vorrebbe spostare parte del Tesoro nel nord dell’Inghilterra e parte della Bank of England, la banca centrale, a Birmingham, nelle Midlands.

Un programma ambizioso, innovativo, che l’occidente non vedeva da trent’anni e che molti economisti pensano potrebbe funzionare per rimettere in moto il paese. Un programma però che visto attraverso le lenti della finanza fa davvero paura. Sancirebbe la fine del neo liberismo, girerebbe pagina nella storia economica.

Tutto ciò potrebbe non succedere perché Corbyn, come Hillary Clinton negli Stati Uniti, polarizza l’elettorato, la gente lo ama o lo detesta a pelle e questo rende difficile una valutazione razionale delle sue politiche. Un altro leader molto probabilmente otterrebbe migliori risultati ma i laburisti non ce l’hanno. Non è però detto che Corbyn per governare abbia bisogno di una maggioranza assoluta in parlamento, potrebbe governare con una coalizione. Un governo di minoranza laburista, a detta di diversi esperti, potrebbe nel lungo periodo essere la migliore delle opzione perché i piccoli partiti, l’SNP (Scottish national party) ed i Liberal democrats, al suo interno frenerebbero le riforme più marxiste del governo.

Un governo di minoranza conservatore, invece, rinvigorirebbe i mercati nel breve periodo ma nel lungo, se fallisse nell’ottenere entro la fine dell’anno i trattati necessari farebbe precipitare il paese nell’incertezza della Brexit degli ultimi tre anni. Non ci rimane che aspettare giovedì sera per sapere quale nuovo scenario si aprirà per il travagliato Regno di sua maestà.


 
 
 

Trump minaccia Francia e Italia: “no a digital tax, altrimenti scatteranno dazi”

Post n°4531 pubblicato il 03 Dicembre 2019 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 3 Dicembre 2019, di Mariangela Tessa

 

Ancora una volta il presidente Usa Donald Trump torna a minacciare gli alleati europei. Questa volta, nel mirino dell’inquilino della Casa Bianca finisce la digital tax, ovvero la tassa sui ricavi che colpisce i big Usa del web: da Google a Facebook, passando per Amazon, considerata discriminatoria nei confronti delle società americane.

Il messaggio è diretto in particolare alla Francia, dove la tassa già in vigore, prevede un’aliquota del 3% sulle entrate che le società tecnologiche americane incassano in Francia. Ma la Casa Bianca mette in guardia anche altri Paesi come l’Italia, l’Austria e la Turchia.

La comunicazione del governo a stelle e strisce arriva alla vigilia del vertice Nato e rende ancora più rovente del previsto il clima londinese nel quale in realtà si dovrebbero festeggiare i 70 anni dell’Alleanza Atlantica. Un clima reso già teso dalla questione dei finanziamenti alla Nato e dalle pressioni americane perché gli alleati mollino Huawei per lo sviluppo del 5G.

Francia: rischio dazi su $ 2,4 miliardi di merci

Il rappresentante Usa al commercio, Robert Lighthizer, capo negoziatore in tutte le trattative commerciali ha quindi spiegato che gli Usa potrebbero imporre dazi del 100% su 2,4 miliardi di dollari importati dalla Francia, come formaggi, champagne, yogurt e trucchi.

Una proposta su cui Trump, appena arrivato a Londra per il vertice della Nato, deve ancora prendere una decisione e che minaccia di infiammare la due giorni del summit tra i leader dell’Alleanza Atlantica.

Giganti hi-tech sfruttano assenza digital tax, in Italia solo 64 milioni di tasse

Trump vedrà il presidente francese Emmanuel Macron nelle prossime ore, così come dovrebbe incontrare a margine del vertice di Londra il presidente del consiglio Giuseppe Conte. E ripeterà loro che la digital tax viene considerata dagli Usa “discriminatoria” nei confronti delle società americane e che c’è ancora tempo per poter negoziare e trovare una soluzione in sede Ocse.

Ma i tempi sono stretti, perché una decisione definitiva è attesa entro il 14 gennaio. Poi, senza intesa, dovrebbero scattare contro Parigi.

La digital tax italiana al via dal 1 gennaio 2020

L’imposta sui servizi digitali – digital tax entra in vigore dal 1° gennaio 2020. Lo prevede la legge di Bilancio 2020, modificando quanto era stato previsto dalla legge di Bilancio 2019. In particolare, viene ora circoscritto il perimetro applicativo della digital tax, identificando quelli che non si qualificano come servizi digitali ai fini dell’applicazione dell’imposta.

Quest’ultima si applicherà sul  3% dei ricavi generati nel Paese da aziende che offrono servizi digitali, al netto dell’Iva, alle imprese che a livello globale fatturano almeno 750 milioni, e che fanno almeno 5,5 milioni da servizi digitali. Si applicherà dal 2021 sui ricavi 2020.

 

 
 
 

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