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Messaggi di Novembre 2018

Sanità, aumentare il potere delle Regioni potrebbe rivelarsi una fregatura per i cittadini

Post n°4342 pubblicato il 13 Novembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Politica | 13 novembre 2018 

 

 

La questione del “regionalismo differenziato” di cui ho parlato nei precedenti post rischia di tradursi in un’autentica arlecchinata istituzionale e di rivelarsi come una falsa soluzione ai problemi innegabili di governo della sanità. Tradotto: una sonora fregatura per i cittadini e nello stesso tempo, una questione politica divisiva tra Lega e Movimento 5 stelle.

Il ministro degli Affari regionali Erika Stefani ha depositato presso la presidenza del Consiglio dei ministri la proposta di legge per la quale il Veneto si dovrebbe portare a casa ben 23 materie attualmente concorrenti con lo Stato tra le quali la sanità. Quindi il Veneto dovrebbe uscire dal servizio sanitario nazionale. Proposta, da quello che sappiamo, per il momento posta in stand by da numerose obiezioni avanzate da più ministeri (Salute, Infrastrutture, Mise e Lavoro, Ambiente e Giustizia).

Perché arlecchinata? La procedura per avere più materie da sottoporre all’autonomia regionale, prevista dalla legge, è uguale per tutti ma le Regioni sono libere di scegliere le materie devolvibili, tutte o in parte, e di scegliere aspetti cioè singoli problemi delle materie devolvibili. L’arlecchinata dipende dall’enorme variabilità delle richieste regionali e dall’impossibilità di dare loro risposte univoche e uniformi. Alle gravi diseguaglianze storiche che abbiamo già si aggiungeranno altre diseguaglianze facendo saltare di fatto il principio di universalità che il diritto alla salute richiederebbe.

Perché dico “una falsa soluzione”? Per tante ragioni:

– perché l’operazione deve avvenire a costo zero cioè alla crescita dell’autonomia regionale non corrisponderà un aumento dei finanziamenti. Il criterio che vale è quello della spesa storica. Se il Veneto fino ad ora per la sanità ha speso l’8%, d’ora in poi gli sarà permesso trattenere la cifra che potrà spendere come vuole, salvo il caso di un commissariamento se non rispetterà i famosi livelli essenziali di prestazioni (Lep) cioè non rispetterà i diritti di legge.

– perché i problemi di governo che hanno le Regioni non sono risolvibili come credono le Regioni solo con una crescita dei poteri. Questi problemi hanno a che fare con profondi mutamenti sociali e economici che richiedono soluzioni riformatrici, un modo di pensare diverso dal passato. Per questo la forma di governo va ripensata rivedendo i rapporti promiscui tra governo e gestione: la soluzione dell’azienda ormai dopo 26 anni di esperienza fa acqua da tutte le parti.

– perché la teoria del decentramento amministrativo non è più in grado di reggere il confronto con le famose sfide della complessità che dobbiamo affrontare.

– perché non ha senso dare più autonomia alle Regioni e riempirle, da Roma con lo spending power, di limiti e vincoli.

– perché, infine, la sostenibilità garantita con politiche di de-finanziamento ci sta mettendo in ginocchio e ormai ci impone di andare oltre il piccolo cabotaggio dell’amministrativismo e delle politiche locali, ecc ecc.

Due convincimenti: il regionalismo differenziato è una soluzione sbagliata a una questione, quella del governo della sanità. Per affrontarlo bisogna spostare la riflessione non sul terreno delle autonomie ma su quello della forma di governo più opportuna e più adeguata. Da questo scaturisce che non si può definire una nuova forma di governo della sanità senza prima scegliere la strategia alla quale si deve attenere. Un conto è definire il governo per gestire e amministrare la spesa e un conto è definire il governo per liberare risorse con degli interventi riformatori. Cosa vogliamo fare in futuro? Amministrare e basta? O riformare e amministrare il cambiamento?

Personalmente ritengo che esiste una mediazione possibile tra la teoria del regionalismo differenziato e la necessità di non rovinare un sistema sanitario – che deve restare – nazionale, solidale, universale. Le soluzioni ci sono. Tale mediazione va ricercata ora prima che non si rompano le relazioni nel governo e prima di dare il via a proposte di legge, che inevitabilmente darebbero luogo a conflitti non solo nella politica ma nel paese.

Alla Lega ricordo che è diventata un partito nazionale e che quello che si fa in Veneto si ripercuoterà nel resto d’Italia. Se il Veneto o altre regioni uscissero dal servizio sanitario nazionale peggiorerebbero le condizioni delle Regioni più deboli.

Al Movimento 5 stelle invece ricordo che l’autonomia è un valore ma essa non può essere fraintesa con l’arbitrarietà e non può essere il pretesto per mettere in piedi pericolose concentrazioni di potere o peggio ancora per amministrare le professioni quindi a scapito di altre autonomie. Un’autonomia che non genera autonomia è una finta autonomia. Oggi per ragioni di complessità le forme di governo di stampo centralistico – a qualsiasi livello siano collocate – devono aprirsi alla partecipazione delle professioni e dei cittadini. Quindi vanno ripensate nelle autonomie.

Cerchiamo insieme questa mediazione ed evitiamo di fare stupidaggini.

PS. Siccome non è agevole trattare in modo esauriente la questione del regionalismo differenziato in un post, rimando per gli approfondimenti agli articoli pubblicati on line su Quotidianosanità.it 

 

Politica | 13 novembre 2018

 

 

 

 
 
 

Manovra, la Ue difende se stessa. Tirarla per le lunghe potrebbe aggravare i costi per l’Italia

Post n°4341 pubblicato il 12 Novembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro | 12 novembre 2018  

 

Domani il governo risponderà alla Commissione Ue, che nelle scorse settimane ha sottolineato non solo l’incompatibilità del Def italiano con le regole europee, ma anche che “per la prima volta un paese membro sceglie deliberatamente di divergere, anziché convergere, verso i suoi obiettivi di medio termine”. Obiettivi – scrive Marcello Messori su Repubblica – “unanimemente approvati (a torto o ragione)… al fine di rassicurare gli altri Stati membri sulla stabilità dell’Unione. La ragione del contendere non riguarda, quindi, pochi decimali (pur rilevanti) di deficit pubblico, ma i principi di fondo che stanno alla base del coordinamento europeo delle politiche fiscali nazionali”. Se l’Italia non modificherà la manovra, anche alla luce del mutato scenario macroeconomico internazionale, ciò “renderebbe inevitabile l’apertura della procedura per deficit eccessivo che… richiederebbe correzioni annue [fino a] 55-60 miliardi [per molti anni]… aprendo un grave conflitto e… minando [definitivamente] la sostenibilità del nostro debito pubblico. È quindi essenziale che non si arrivi all’attivazione della procedura. E la sola via aperta… è ridimensionare… il cosiddetto reddito di cittadinanza e la revisione della Legge Fornero… e garantire i limitati investimenti pubblici già preventivati”.

Quando da neo-laureato andai all’IUHEI di Ginevra mi obbligarono a prendere anche un corso non economico, e scelsi “The Great Powers and the Third World” tenuto da Harish Kapur, nell’ambito del quale preparai una tesi (che divenne poi un articolo per una rivista), dal titolo “US-Chile relations: a Simple Model“, nel quale studiavo – grazie soprattutto alla documentazione riservata del Dipartimento di Stato resa pubblica dal Senato Usa a seguito delle inchieste su Nixon – che cosa aveva indotto gli Usa a fare il possibile per destabilizzare il governo populista cileno di Allende (che pure in larga parte si era destabilizzato da solo, ma questo è un altro discorso). Risultò che le preoccupazioni americane erano nell’ordine quella strategica (fermare la penetrazione dell’Urss, e Cuba), economica (molte imprese americane stavano perdendo privilegi), ideologica (gli Usa “soffrivano” la polemica terzomondista contro l’imperialismo yankee ecc., e umanitaria (ma solo le amministrazioni democratiche Usa: si preoccupavano realmente, ma solo come subordinata, dello sviluppo dei paesi poveri, ma per il resto): le preoccupazioni di democratici e repubblicani erano sorprendentemente simili e stabili. Il modello poi ipotizzava la possibilità di generalizzare questi “moventi” a tutte (e due) le grandi potenze (“paesi core”) nei confronti di tutti i paesi “periferici”. Una conclusione era: “according to this model, the first best rational behaviour for a Latin American government would be to violate only one of the three first independent variables at a time, thus managing… the conflict with the U.S.”

L’implicazione di questi risultati per la nostra situazione (Ue/Bce = superpotenza core, Italia = paese periferico) è che se vai contro, simultaneamente, agli interessi strategici ed economici del core devi aspettarti una reazione negativa ‘rigida’ (difatti anche senza che la Unione europaea faccia nulla, i mercati finanziari se l’aspettano: la reazione esagerata degli spread non è spiegabile con un deficit al 2,5%); se poi aggiungi anche una polemica ideologica (che cerca di mobilitare il consenso dal basso contro l’area core) la reazione della superpotenza sarà ancora più forte. Aprire più fronti simultaneamente è sciocco.

Nel caso del governo italiano, attaccare le regole Ue simultaneamente sul piano pratico (con un Def “deviante”) e teorico (la proposta Savona di riforma dell’euro) è già difficile; aggiungere una polemica ideologico-politica (le dichiarazioni concitate e roboanti contro gli spread e i trattati Ue) minimizza le possibilità di successo dell’esperimento giallo-verde. Come quando la Germania attacca simultaneamente l’Inghilterra e la Russia.

Il che mi riporta a Messori: giustamente dedica il suo articolo alle questioni di princìpio (dell’Ue). Sono quelle ora che contano; e su di esse ormai non si può più fare marcia indietro ‘a parole’, senza ritirare anche – temporaneamente – una parte consistente della manovra. Le scelte della Ue non sono immuni dall’influenza della variabile ‘umanitaria’, cioè non è vero che ci vogliono male; è vero il contrario: ma solo come subordinata. La Ue difende se stessa, non tornerà indietro. Il bluff del paese periferico che pretende di muovere apertamente guerra alla superpotenza è ormai scoperto, continuare a tirarla per le lunghe avrà come unico effetto quello di aggravare i costi per il Paese.

 

Zonaeuro | 12 novembre 2018

 

 

 
 
 

Cina e Usa, il derby della leadership globale può portare alla guerra fredda

Post n°4340 pubblicato il 09 Novembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 9 novembre 2018, di Alessandro Piu

La Cina giocherà un ruolo sempre più centrale nelle dinamiche economiche e politiche globali. Lo sa Donald Trump, che cerca di opporsi alla crescita della leadership  cinese rischiando di scatenare una nuova guerra fredda, lo sa l’opinione pubblica globale come emerge da un sondaggio presentato da Natixis Investment Managers nel corso del summit 2018

 

“Si prenda tempo mantenendo un basso profilo, pur senza mancare di fare qualcosa” (Deng Xiaoping).

“Si continui a prendere tempo mantenendo un basso profilo, pur senza mancare di agire in modo proattivo per fare qualcosa” (Hu Jintao).

“L’economia cinese propone un nuovo modello per altri paesi e nazioni che vogliono accelerare il loro sviluppo preservando la loro indipendenza. Sarà un’era che vedrà la Cina spostarsi al centro della scena” (Xi Jinping).

Quello della Cina negli ultimi decenni non è solo un crescendo economico ma anche politico. Le tre citazioni dei tre leader che si sono succeduti alla guida della Repubblica popolare marcano la sempre maggiore convinzione che il Paese ha assunto, sulle sue capacità e sul ruolo che gli compete nello scacchiere internazionale.

L’America First ha trovato un difficile concorrente e anche se le distanze tra i due Paesi sono ancora grandi, si sono fortemente ridotte. Il timore che qualcuno stia pensando a una China First è ben evidente nei bastoni che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sta cercando di mettere tra le ruote dell’economia cinese, sotto forma di dazi commerciali.

Rischio guerra fredda

“Negli anni ’90 il Pil cinese era il 6% di quello Usa, oggi siamo al 60%. È un cambiamento molto forte. Inoltre il modello cinese ha evitato la crisi finanziaria e i governanti, a Pechino, hanno assunto maggiore convinzione nelle potenzialità del Paese”

ha evidenziato Minxin Pei, professore al Claremont McKenna College nel corso del Natixis IM summit2018 svoltosi a Parigi.

Questo spiega, insieme al carisma di Xi Jinping, la volontà cinese, ormai non più nascosta di assumere un ruolo centrale sulla scena globale.

“Oggi – prosegue Minxin Pei – assistiamo al tentativo degli Stati Uniti di fermare la Cina e tutto questo porterà, probabilmente, all’inizio di una nuova guerra fredda che avrà effetti sui mercati mondiali, sulla globalizzazione, sul commercio. La guerra commerciale non è in realtà solo una guerra commerciale. A Washington si pensa che permettere alla Cina di continuare a crescere come ha fatto finora sarebbe un grave errore strategico”.

Non tutti pensano che la Cina stia puntando così in alto. Come Andrew Y. Yan, managing partner di Saif Partners, una società di venture & growth capital che accompagna le aziende asiatiche alla quotazione, il quale afferma:

“Non credo che a Pechino ci sia una strategia razionale per scalzare gli Stati Uniti dalla leadership globale. Sanno bene che ci sono settori e aree geografiche dove non possono competere con gli Usa. I cinesi vogliono solo una posizione nel mondo che corrisponda alla loro quota del Pil mondiale. Non credo poi possa nascere una nuova guerra fredda. La Cina non ha un blocco di alleati come lo aveva l’Unione sovietica. Inoltre nei Paesi asiatici non c’è particolare calore verso la Repubblica popolare”.

Leadership globale? Meglio gli Stati Uniti

Il basso gradimento per la leadership cinese non si riscontra solo in Asia. In molti paesi la gran parte dei cittadini preferisce l’America First alla China First ed è consapevole del ruolo che la Cina ha saputo guadagnarsi negli ultimi dieci anni. A dirlo è un sondaggio presentato da Natixis IM nel corso del summit.

Se gli Stati Uniti sono ancora ritenuti la prima potenza economica globale dal 31% del campione contro il 34% della Cina, è quest’ultima che negli ultimi dieci anni, secondo il 70% degli intervistati ha assunto maggiore importanza sullo scenario internazionale. Il 31% afferma invece che sono gli Stati Uniti ad aver accresciuto il loro ruolo.

La marcia della Cina suscita però preoccupazione.

Il 63% degli intervistati ha dichiarato di preferire gli Stati Uniti come potenza leader globale contro il 19% che sceglierebbe la Cina. Percentuali pro Usa più elevate si trovano in Canada, Svezia, Olanda, Polonia, Regno Unito, Francia. Leggermente più basse le posizioni a favore degli Stati Uniti in Italia (41%), Ungheria (44%) e Grecia (44%). Dappertutto la preferenza per la Cina rimane comunque contenuta con picchi del 26% in Spagna e Grecia, il 17% in Italia, il 21% in Francia.

 

 
 
 

La Russia e la corsa a trivellare l'Artico

Post n°4339 pubblicato il 08 Novembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: No all'Italia petrolizzata

E' l'ultima frontiera dei trivellatori, l'Artico, un tempo ostico ed impossibile da sfruttare ma sempre piu' appetibile grazie ai cambiamenti climatici, creati dai trivellatori stessi.

La Russia e' in prima fila nel piantare le proprie trivelle in cima al mondo, letteralmente e figurativamente, ma la Cina non sta a guardare.

E hai voglia a predicare.

Tutti sappiamo che l'aumento delle temperature porta allo scioglimento dei ghiacciai, anzi secondo le stime dell'IPCC, l'Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite, se tutto va avanti come adesso, entro il 2040 l'Artico restera' senza ghiaccio.

Ovviamente questo e' musica per le orecchie dei trivellatori, con nuove rotte marine dove prima c'era ghiaccio e con la promessa di petrolio e gas sgorganti dal sottosuolo.

La Russia e' la piu' determinata di tutte, se non altro perche' e' la piu' vicina geograficamente all'Artico che si scioglie, perche' economicamente vive di idrocarburi e perche' prima di tutte ha deciso di sfruttare i mari dell'Artico e di accapparrarsene i diritti.

Lo scioglimento delle nevi significa non solo nuovi giacimenti, ma anche minori tempi per il trasporto di petrolio attraverso le nuove acque: si calcola che i tempi per navigare dall'Asia all'Europa si accorcera' del 35-40% rispetto al passaggio attraverso l'Asia rispetto al passaggio attraverso il canale di Suez o dell'oceano indiano.

E cosi Venta Maersk e' stata la prima nave ad attraversare l'Artico da Vladivostok a San Pietroburgo, qualche mese prima la ditta russa Novatek ha mandato un carico di gas liquefatto in Cina dalla Siberia attraverso l'Artico con 19 giorni invece dei tradizionali 35 lungo il canale di Suez.

La Russia ha pure 40 navi rompighiaccio, incluso alcune che vanno ad energia nucleare, piu' potenti e che non abbisogano di rifornimenti. Gli USA invece hanno solo due navi rompighiacchi.

Ci vogliono un miliardo di dollari a nave, e dieci anni per costruirle.

USA, Canada, Norvegia, Danimarca, Svezia, Finlandia e Islanda hanno tutti interessi in Artico, e quindi e' comprensibile che vogliano contrastare la Russia. La Cina pero' afferma che l'Artico non e'  di nessuno e che quindi e' di tutti.

Vogliono acchiappare anche loro quel che possono.

E infatti si sono definiti una superpotenza polare nel 2014. Nel 2018 hanno pure rilasciato una politica cinese dell'Artico per difendere i propri interessi e quindi hanno iniziato a costruirsi rompighiacci pure loro e annunciano di volere costruire una via della seta polare.

L'Artico e' governato da una serie di trattati fra cui uno delle Nazioni Unite del 1982 chiamato United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS).  Questo UNCLOS delinea le estensioni dei mari territoriali, zone economiche, diritti di passaggio, diritti e doveri di sviluppo, protezione ambientale. Non si parla di sicurezza militare.

Ci sono gia' litigi: il Lomonosov ridge e' lungo 1800 chilometri ed e' al cuore di dispute fra la Russia, Canada e Danimarca. Il motivo?

Petrolio.

Si pensa infatti che il Lomonosov ridge sia particolarmente ricco di idrocarburi e la Russia vuole che siano tutti loro. Per esempio, gia' nel 2007, una spedizione russa, Arktika 2007 giunse alla conclusione che questo Lomonosov e' una estensione della massa continentale russa e piantarono qui bandiere russe.

Canada e Danimarca dicono di no; anzi la Danimarca dice che e' una estensione della Groenlandia.

Putin non ha mai fatto mistero di queste sue ambizioni polari che esistono da piu' di dieci anni.

Nel 2012 i russi hanno proposto di chiamare l'oceano artico l'oceano "russo" come dire e' cosa nostra. Il paese sta anche creando una presenza militare in artico, con un Arctic Joint Strategic Command, e addrittura sta rimodernando aereoporti costruiti durante il tempo della guerra fredda.  E' stata istituita una Northern Sea Route Administration, una agenzia russa che ha lo scopo di governare il passaggio di navi e il traffico in Artico.

Putin cerca pure di aumentare i suoi alleati strategici in zona, per esempio creando accordi con India (perche' India? non si sa, ma forse perche' India e Cina non sono tanto amiche...)

Ovviamente non e' solo il controllo dell'Artico ma anche proprio dello sfruttamento petrolifero. La ditta Rosneft ha gia' iniziato a trivellare in Artico nel 2017 in una concessione detta Khatangsky nel  Laptev Sea.

Si parla di 590 milioni di barili di petrolio di alta qualita' - leggero e a basso tenore sulfureo; un enorme ricchezza.

Oltre a Rosneft c'e' Gazprom che invece gestisce la piattaforma Prirazlomnoye nel Pechora Sea e le cui trivelle sono state inaugurate nel 2013. Anche qui si parla di 513 milioni di barili di petrolio.

Rosneft vuole trivellare nel Barents Sea, nel Kara Sea e in tutta l'area russa dell'Artico: hanno almeno 28 concessioni per un totale di 250 miliardi di barili. Sono numeri impossibilmente grandi.

Sanzioni o non sanzioni, i russi vanno avanti: non possono usufruire di beni e servizi tecnologici da paesi terzi, per via di queste sanzioni, ma dicono che troveranno i fondi fuori dalle sanzioni perche' l'Artico e' importante per la loro economia. Vogliono che il 20-30 percento di tutto il loro petrolio e gas venga dall'Artico entro il 2050.

La morale della favola e' che in questa corsa geopolitica a chi arriva prima in Artico, ci sono tanti calcoli: petrolio, navi, risorse, sogni di vanagloria.

E al resto del pianeta chi ci pensa?

Davvero Russia e Cina avranno a cuore la biodiversita' del pianeta, davvero sapranno "controllarsi"? Come gia' ci mostra la russia, non credo. La cosa piu' ironica e' che tutto questo nuovo sfruttamento dell'Artico e' reso possibile dai cambiamenti climatici, che le azioni dei russi rendera' piu' estremo, con questo maggior petrolio estratto, venduto, consumato.

 Ci vorrebbe solo un grande accordo: "l'Artico non si trivella".

 
 
 

Populismo o momento Polanyi? Ecco come il mercato distrugge la società

Fonte: Il Fatto Quotidiano  Economia & Lobby | 6 novembre 2018 

 

Vi è un fenomeno che negli ultimi anni si è fatto sempre più evidente e pervasivo nella scena politica del cosiddetto occidente: una sorta di rivolta contro le élite (reali o percepite che siano) che viene definito, col consueto semplicismo imbelle che caratterizza i mezzi di comunicazione di massa, col termine di populismo o, più cacofonicamente, con quello di antipolitica (come se la politica fosse mera questione di ortodossia nei confronti del potere costituito). Naturalmente, codesti sono semplici significanti vuoti atti a definire, senza spiegare, un movimento che si sta espandendo a macchia d’olio in tutto l’emisfero occidentale e che, nella sua manifestazione fattuale, è iniziato nel Regno Unito con la cosiddetta Brexit, si è esteso dall’altra parte dell’oceano con l’elezione di Donald Trump – sineddoche di un “contropotere” rispetto a quello che potremmo definire “globalismo finanziario” – e ha toccato il nostro Paese, in occasione del referendum costituzionale del 2016 e delle elezioni politiche di quest’anno.

Siccome le categorie di “populismo” e di “antipolitica” non possono ambire alla funzione di interpretare alcunché – ma al massimo a quella di stigmatizzare un fenomeno – per cercare di comprendere quello che sta accadendo ci avvarremo della chiave di lettura fornitaci dagli epigoni degli storici della “lunga durata”, in particolare del lavoro di Giovanni Arrighi (Il lungo XX secolo, 2014). Secondo questa interpretazione, il fenomeno storico denominato capitalismo può essere diviso in cicli periodici di accumulazione, che si sono succeduti dal suo avvento.

Ogni ciclo di è costituito da tre fasi:
1. Un periodo iniziale di espansione finanziaria – che si potrebbe definire di “accumulazione originaria” – nel quale un nuovo ciclo si sviluppa in maniera “parassitaria” sul capitale accumulato dal ciclo precedente.
2. Un periodo di sviluppo e consolidamento, nel quale si verifica l’espansione materiale: il periodo del capitalismo produttivo/manifatturiero.
3. Una fase terminale di espansione finanziaria, ovvero di “conversione” del processo di accumulazione, dall’economia produttiva alla cosiddetta speculazione finanziaria. Questo fenomeno è l’espressione di una crisi nella quale quello che è definito “l’agente dominante dei processi sistemici di accumulazione del capitale” riscontra difficoltà crescenti a creare un adeguato profitto tramite la produzione di merci materiali. Pertanto, il “capitale mobile” viene indirizzato verso la finanza.

Questa sequenza di fenomeni ha conseguenze piuttosto rilevanti sull’assetto dell’economia-mondo. Il periodo di espansione finanziaria comporta notevoli costi sociali, poiché al contrario della modalità di produzione materiale non può sostenere economicamente una vasta classe media, siccome solo una parte esigua della popolazione può spartire i profitti della speculazione e dell’intermediazione finanziaria. Le criticità di questo fenomeno sono ben osservabili in tutto il mondo occidentale attraverso fenomeni quali l’allargarsi della forbice tra salari e profitti, le bolle finanziarie, l’aumento del debito a carico dei cittadini, la recessione, la deindustrializzazione, eccetera.

Inoltre la finanziarizzazione dà luogo a quello che David Harvey ha definito “accumulazione per espropriazione”, nella quale i capitali accumulati diffusamente durante gli anni dell’economia “produttiva” vengono concentrati verso le élite che controllano gli strumenti finanziari: questo comporta una diffusa espropriazione di capitale fisico (beni) accumulati dalla società nel suo assieme. Qualsiasi tipo di bolla speculativa implica una espropriazione di capitali e una concentrazione di strumenti monetari nelle mani di chi la controlla: “Questo è ciò che accadde nel sudest asiatico nel 1997-1998, in Russia nel 1998, in Argentina nel 2001-2002. E quello che è successo nel mondo intero nel 2008-2009″. (Harvey, 2010). Un esempio di questo fenomeno sono le cosiddette privatizzazioni, che non sono altro che la svendita di beni degli Stati “in crisi”, la cui accumulazione è avvenuta grazie all’opera dell’intera cittadinanza.

Un altro aspetto connesso alla finanziarizzazione è la liberalizzazione dei movimenti dei capitali e delle merci che ha favorito le cosiddette delocalizzazioni, ovvero il trasferimento degli impianti produttivi verso aree o Paesi nei quali il costo del lavoro sia più basso che nei paesi d’origine. Questo processo ha avuto la conseguenza di mettere in concorrenza i lavoratori di tutto il mondo in un’universale licitazione verso il basso del costo del lavoro. Tuttavia, un minore potere d’acquisto diffuso comporta minori consumi in beni e servizi e tende a favorire la recessione. Questo ha determinato l’insorgenza di due problemi. Il primo: l’impoverimento del ceto medio, ha eroso la base per la riproduzione capitalistica stessa. Il secondo è che questo impoverimento unito ai tagli dei servizi pubblici avvenuto in tutti i Paesi dell’occidente ha comportato, alla lunga, instabilità sociale e perdita di credibilità delle istituzioni.

Da qui le origini della crisi del modello sociale che a partire dagli anni 80 si è verificato in tutto il mondo occidentale. Una crisi di tal fatta non poteva che dare origine al cosiddetto “momento Polanyi“, la cui descrizione sintetica è formulata ne La grande trasformazione: “La nostra tesi è che l’idea di un mercato autoregolato implicasse una grossa utopia. Un’istituzione del genere non poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza della società […]. Era inevitabile che la società prendesse delle misure per difendersi, ma qualunque misura avesse preso essa ostacolava l’autoregolazione del mercato“. Certo, non possiamo non convenire che sia molto più facile (ancorché vacuo) chiamare tutto questo “populismo”.

 

 

 
 
 

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NON LASCIAMOCISOLI & CHE

O siamo Capaci di sconfiggere le idee contrarie con la discussione, O DOBBIAMO lasciarle esprimere. Non è possibile sconfiggere le idee con la forza,perchè questo blocca il libero Sviluppo dell'intelligenza "
Ernesto Che Guevara
  

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