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Post n°4342 pubblicato il 13 Novembre 2018 da ninograg1
Fonte: Il Fatto Quotidiano Politica | 13 novembre 2018 Ivan Cavicchi
La questione del “regionalismo differenziato” di cui ho parlato nei precedenti post rischia di tradursi in un’autentica arlecchinata istituzionale e di rivelarsi come una falsa soluzione ai problemi innegabili di governo della sanità. Tradotto: una sonora fregatura per i cittadini e nello stesso tempo, una questione politica divisiva tra Lega e Movimento 5 stelle. Il ministro degli Affari regionali Erika Stefani ha depositato presso la presidenza del Consiglio dei ministri la proposta di legge per la quale il Veneto si dovrebbe portare a casa ben 23 materie attualmente concorrenti con lo Stato tra le quali la sanità. Quindi il Veneto dovrebbe uscire dal servizio sanitario nazionale. Proposta, da quello che sappiamo, per il momento posta in stand by da numerose obiezioni avanzate da più ministeri (Salute, Infrastrutture, Mise e Lavoro, Ambiente e Giustizia). Perché arlecchinata? La procedura per avere più materie da sottoporre all’autonomia regionale, prevista dalla legge, è uguale per tutti ma le Regioni sono libere di scegliere le materie devolvibili, tutte o in parte, e di scegliere aspetti cioè singoli problemi delle materie devolvibili. L’arlecchinata dipende dall’enorme variabilità delle richieste regionali e dall’impossibilità di dare loro risposte univoche e uniformi. Alle gravi diseguaglianze storiche che abbiamo già si aggiungeranno altre diseguaglianze facendo saltare di fatto il principio di universalità che il diritto alla salute richiederebbe. Perché dico “una falsa soluzione”? Per tante ragioni: – perché l’operazione deve avvenire a costo zero cioè alla crescita dell’autonomia regionale non corrisponderà un aumento dei finanziamenti. Il criterio che vale è quello della spesa storica. Se il Veneto fino ad ora per la sanità ha speso l’8%, d’ora in poi gli sarà permesso trattenere la cifra che potrà spendere come vuole, salvo il caso di un commissariamento se non rispetterà i famosi livelli essenziali di prestazioni (Lep) cioè non rispetterà i diritti di legge. – perché i problemi di governo che hanno le Regioni non sono risolvibili come credono le Regioni solo con una crescita dei poteri. Questi problemi hanno a che fare con profondi mutamenti sociali e economici che richiedono soluzioni riformatrici, un modo di pensare diverso dal passato. Per questo la forma di governo va ripensata rivedendo i rapporti promiscui tra governo e gestione: la soluzione dell’azienda ormai dopo 26 anni di esperienza fa acqua da tutte le parti. – perché la teoria del decentramento amministrativo non è più in grado di reggere il confronto con le famose sfide della complessità che dobbiamo affrontare. – perché non ha senso dare più autonomia alle Regioni e riempirle, da Roma con lo spending power, di limiti e vincoli. – perché, infine, la sostenibilità garantita con politiche di de-finanziamento ci sta mettendo in ginocchio e ormai ci impone di andare oltre il piccolo cabotaggio dell’amministrativismo e delle politiche locali, ecc ecc. Due convincimenti: il regionalismo differenziato è una soluzione sbagliata a una questione, quella del governo della sanità. Per affrontarlo bisogna spostare la riflessione non sul terreno delle autonomie ma su quello della forma di governo più opportuna e più adeguata. Da questo scaturisce che non si può definire una nuova forma di governo della sanità senza prima scegliere la strategia alla quale si deve attenere. Un conto è definire il governo per gestire e amministrare la spesa e un conto è definire il governo per liberare risorse con degli interventi riformatori. Cosa vogliamo fare in futuro? Amministrare e basta? O riformare e amministrare il cambiamento? Personalmente ritengo che esiste una mediazione possibile tra la teoria del regionalismo differenziato e la necessità di non rovinare un sistema sanitario – che deve restare – nazionale, solidale, universale. Le soluzioni ci sono. Tale mediazione va ricercata ora prima che non si rompano le relazioni nel governo e prima di dare il via a proposte di legge, che inevitabilmente darebbero luogo a conflitti non solo nella politica ma nel paese. Alla Lega ricordo che è diventata un partito nazionale e che quello che si fa in Veneto si ripercuoterà nel resto d’Italia. Se il Veneto o altre regioni uscissero dal servizio sanitario nazionale peggiorerebbero le condizioni delle Regioni più deboli. Al Movimento 5 stelle invece ricordo che l’autonomia è un valore ma essa non può essere fraintesa con l’arbitrarietà e non può essere il pretesto per mettere in piedi pericolose concentrazioni di potere o peggio ancora per amministrare le professioni quindi a scapito di altre autonomie. Un’autonomia che non genera autonomia è una finta autonomia. Oggi per ragioni di complessità le forme di governo di stampo centralistico – a qualsiasi livello siano collocate – devono aprirsi alla partecipazione delle professioni e dei cittadini. Quindi vanno ripensate nelle autonomie. Cerchiamo insieme questa mediazione ed evitiamo di fare stupidaggini. PS. Siccome non è agevole trattare in modo esauriente la questione del regionalismo differenziato in un post, rimando per gli approfondimenti agli articoli pubblicati on line su Quotidianosanità.it
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Post n°4341 pubblicato il 12 Novembre 2018 da ninograg1
Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro | 12 novembre 2018 PierGiorgio Gawronski
Domani il governo risponderà alla Commissione Ue, che nelle scorse settimane ha sottolineato non solo l’incompatibilità del Def italiano con le regole europee, ma anche che “per la prima volta un paese membro sceglie deliberatamente di divergere, anziché convergere, verso i suoi obiettivi di medio termine”. Obiettivi – scrive Marcello Messori su Repubblica – “unanimemente approvati (a torto o ragione)… al fine di rassicurare gli altri Stati membri sulla stabilità dell’Unione. La ragione del contendere non riguarda, quindi, pochi decimali (pur rilevanti) di deficit pubblico, ma i principi di fondo che stanno alla base del coordinamento europeo delle politiche fiscali nazionali”. Se l’Italia non modificherà la manovra, anche alla luce del mutato scenario macroeconomico internazionale, ciò “renderebbe inevitabile l’apertura della procedura per deficit eccessivo che… richiederebbe correzioni annue [fino a] 55-60 miliardi [per molti anni]… aprendo un grave conflitto e… minando [definitivamente] la sostenibilità del nostro debito pubblico. È quindi essenziale che non si arrivi all’attivazione della procedura. E la sola via aperta… è ridimensionare… il cosiddetto reddito di cittadinanza e la revisione della Legge Fornero… e garantire i limitati investimenti pubblici già preventivati”. Quando da neo-laureato andai all’IUHEI di Ginevra mi obbligarono a prendere anche un corso non economico, e scelsi “The Great Powers and the Third World” tenuto da Harish Kapur, nell’ambito del quale preparai una tesi (che divenne poi un articolo per una rivista), dal titolo “US-Chile relations: a Simple Model“, nel quale studiavo – grazie soprattutto alla documentazione riservata del Dipartimento di Stato resa pubblica dal Senato Usa a seguito delle inchieste su Nixon – che cosa aveva indotto gli Usa a fare il possibile per destabilizzare il governo populista cileno di Allende (che pure in larga parte si era destabilizzato da solo, ma questo è un altro discorso). Risultò che le preoccupazioni americane erano nell’ordine quella strategica (fermare la penetrazione dell’Urss, e Cuba), economica (molte imprese americane stavano perdendo privilegi), ideologica (gli Usa “soffrivano” la polemica terzomondista contro l’imperialismo yankee ecc., e umanitaria (ma solo le amministrazioni democratiche Usa: si preoccupavano realmente, ma solo come subordinata, dello sviluppo dei paesi poveri, ma per il resto): le preoccupazioni di democratici e repubblicani erano sorprendentemente simili e stabili. Il modello poi ipotizzava la possibilità di generalizzare questi “moventi” a tutte (e due) le grandi potenze (“paesi core”) nei confronti di tutti i paesi “periferici”. Una conclusione era: “according to this model, the first best rational behaviour for a Latin American government would be to violate only one of the three first independent variables at a time, thus managing… the conflict with the U.S.” L’implicazione di questi risultati per la nostra situazione (Ue/Bce = superpotenza core, Italia = paese periferico) è che se vai contro, simultaneamente, agli interessi strategici ed economici del core devi aspettarti una reazione negativa ‘rigida’ (difatti anche senza che la Unione europaea faccia nulla, i mercati finanziari se l’aspettano: la reazione esagerata degli spread non è spiegabile con un deficit al 2,5%); se poi aggiungi anche una polemica ideologica (che cerca di mobilitare il consenso dal basso contro l’area core) la reazione della superpotenza sarà ancora più forte. Aprire più fronti simultaneamente è sciocco. Nel caso del governo italiano, attaccare le regole Ue simultaneamente sul piano pratico (con un Def “deviante”) e teorico (la proposta Savona di riforma dell’euro) è già difficile; aggiungere una polemica ideologico-politica (le dichiarazioni concitate e roboanti contro gli spread e i trattati Ue) minimizza le possibilità di successo dell’esperimento giallo-verde. Come quando la Germania attacca simultaneamente l’Inghilterra e la Russia. Il che mi riporta a Messori: giustamente dedica il suo articolo alle questioni di princìpio (dell’Ue). Sono quelle ora che contano; e su di esse ormai non si può più fare marcia indietro ‘a parole’, senza ritirare anche – temporaneamente – una parte consistente della manovra. Le scelte della Ue non sono immuni dall’influenza della variabile ‘umanitaria’, cioè non è vero che ci vogliono male; è vero il contrario: ma solo come subordinata. La Ue difende se stessa, non tornerà indietro. Il bluff del paese periferico che pretende di muovere apertamente guerra alla superpotenza è ormai scoperto, continuare a tirarla per le lunghe avrà come unico effetto quello di aggravare i costi per il Paese.
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Post n°4340 pubblicato il 09 Novembre 2018 da ninograg1
Tag: blog, cina, commercio, economia, esteri, geopolitica, guerra fredda, leadership, mercati, politica, protezionismo, USA Fonte: W.S.I. 9 novembre 2018, di Alessandro Piu La Cina giocherà un ruolo sempre più centrale nelle dinamiche economiche e politiche globali. Lo sa Donald Trump, che cerca di opporsi alla crescita della leadership cinese rischiando di scatenare una nuova guerra fredda, lo sa l’opinione pubblica globale come emerge da un sondaggio presentato da Natixis Investment Managers nel corso del summit 2018
Quello della Cina negli ultimi decenni non è solo un crescendo economico ma anche politico. Le tre citazioni dei tre leader che si sono succeduti alla guida della Repubblica popolare marcano la sempre maggiore convinzione che il Paese ha assunto, sulle sue capacità e sul ruolo che gli compete nello scacchiere internazionale. L’America First ha trovato un difficile concorrente e anche se le distanze tra i due Paesi sono ancora grandi, si sono fortemente ridotte. Il timore che qualcuno stia pensando a una China First è ben evidente nei bastoni che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sta cercando di mettere tra le ruote dell’economia cinese, sotto forma di dazi commerciali. Rischio guerra fredda
ha evidenziato Minxin Pei, professore al Claremont McKenna College nel corso del Natixis IM summit2018 svoltosi a Parigi. Questo spiega, insieme al carisma di Xi Jinping, la volontà cinese, ormai non più nascosta di assumere un ruolo centrale sulla scena globale.
Non tutti pensano che la Cina stia puntando così in alto. Come Andrew Y. Yan, managing partner di Saif Partners, una società di venture & growth capital che accompagna le aziende asiatiche alla quotazione, il quale afferma: Leadership globale? Meglio gli Stati Uniti Il basso gradimento per la leadership cinese non si riscontra solo in Asia. In molti paesi la gran parte dei cittadini preferisce l’America First alla China First ed è consapevole del ruolo che la Cina ha saputo guadagnarsi negli ultimi dieci anni. A dirlo è un sondaggio presentato da Natixis IM nel corso del summit. Se gli Stati Uniti sono ancora ritenuti la prima potenza economica globale dal 31% del campione contro il 34% della Cina, è quest’ultima che negli ultimi dieci anni, secondo il 70% degli intervistati ha assunto maggiore importanza sullo scenario internazionale. Il 31% afferma invece che sono gli Stati Uniti ad aver accresciuto il loro ruolo. La marcia della Cina suscita però preoccupazione. Il 63% degli intervistati ha dichiarato di preferire gli Stati Uniti come potenza leader globale contro il 19% che sceglierebbe la Cina. Percentuali pro Usa più elevate si trovano in Canada, Svezia, Olanda, Polonia, Regno Unito, Francia. Leggermente più basse le posizioni a favore degli Stati Uniti in Italia (41%), Ungheria (44%) e Grecia (44%). Dappertutto la preferenza per la Cina rimane comunque contenuta con picchi del 26% in Spagna e Grecia, il 17% in Italia, il 21% in Francia.
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Post n°4339 pubblicato il 08 Novembre 2018 da ninograg1
Fonte: No all'Italia petrolizzata E' l'ultima frontiera dei trivellatori, l'Artico, un tempo ostico ed impossibile da sfruttare ma sempre piu' appetibile grazie ai cambiamenti climatici, creati dai trivellatori stessi. |
Post n°4338 pubblicato il 07 Novembre 2018 da ninograg1
Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby | 6 novembre 2018 Pier Paolo Dal Monte
Vi è un fenomeno che negli ultimi anni si è fatto sempre più evidente e pervasivo nella scena politica del cosiddetto occidente: una sorta di rivolta contro le élite (reali o percepite che siano) che viene definito, col consueto semplicismo imbelle che caratterizza i mezzi di comunicazione di massa, col termine di populismo o, più cacofonicamente, con quello di antipolitica (come se la politica fosse mera questione di ortodossia nei confronti del potere costituito). Naturalmente, codesti sono semplici significanti vuoti atti a definire, senza spiegare, un movimento che si sta espandendo a macchia d’olio in tutto l’emisfero occidentale e che, nella sua manifestazione fattuale, è iniziato nel Regno Unito con la cosiddetta Brexit, si è esteso dall’altra parte dell’oceano con l’elezione di Donald Trump – sineddoche di un “contropotere” rispetto a quello che potremmo definire “globalismo finanziario” – e ha toccato il nostro Paese, in occasione del referendum costituzionale del 2016 e delle elezioni politiche di quest’anno. Siccome le categorie di “populismo” e di “antipolitica” non possono ambire alla funzione di interpretare alcunché – ma al massimo a quella di stigmatizzare un fenomeno – per cercare di comprendere quello che sta accadendo ci avvarremo della chiave di lettura fornitaci dagli epigoni degli storici della “lunga durata”, in particolare del lavoro di Giovanni Arrighi (Il lungo XX secolo, 2014). Secondo questa interpretazione, il fenomeno storico denominato capitalismo può essere diviso in cicli periodici di accumulazione, che si sono succeduti dal suo avvento. Ogni ciclo di è costituito da tre fasi: Questa sequenza di fenomeni ha conseguenze piuttosto rilevanti sull’assetto dell’economia-mondo. Il periodo di espansione finanziaria comporta notevoli costi sociali, poiché al contrario della modalità di produzione materiale non può sostenere economicamente una vasta classe media, siccome solo una parte esigua della popolazione può spartire i profitti della speculazione e dell’intermediazione finanziaria. Le criticità di questo fenomeno sono ben osservabili in tutto il mondo occidentale attraverso fenomeni quali l’allargarsi della forbice tra salari e profitti, le bolle finanziarie, l’aumento del debito a carico dei cittadini, la recessione, la deindustrializzazione, eccetera. Inoltre la finanziarizzazione dà luogo a quello che David Harvey ha definito “accumulazione per espropriazione”, nella quale i capitali accumulati diffusamente durante gli anni dell’economia “produttiva” vengono concentrati verso le élite che controllano gli strumenti finanziari: questo comporta una diffusa espropriazione di capitale fisico (beni) accumulati dalla società nel suo assieme. Qualsiasi tipo di bolla speculativa implica una espropriazione di capitali e una concentrazione di strumenti monetari nelle mani di chi la controlla: “Questo è ciò che accadde nel sudest asiatico nel 1997-1998, in Russia nel 1998, in Argentina nel 2001-2002. E quello che è successo nel mondo intero nel 2008-2009″. (Harvey, 2010). Un esempio di questo fenomeno sono le cosiddette privatizzazioni, che non sono altro che la svendita di beni degli Stati “in crisi”, la cui accumulazione è avvenuta grazie all’opera dell’intera cittadinanza. Un altro aspetto connesso alla finanziarizzazione è la liberalizzazione dei movimenti dei capitali e delle merci che ha favorito le cosiddette delocalizzazioni, ovvero il trasferimento degli impianti produttivi verso aree o Paesi nei quali il costo del lavoro sia più basso che nei paesi d’origine. Questo processo ha avuto la conseguenza di mettere in concorrenza i lavoratori di tutto il mondo in un’universale licitazione verso il basso del costo del lavoro. Tuttavia, un minore potere d’acquisto diffuso comporta minori consumi in beni e servizi e tende a favorire la recessione. Questo ha determinato l’insorgenza di due problemi. Il primo: l’impoverimento del ceto medio, ha eroso la base per la riproduzione capitalistica stessa. Il secondo è che questo impoverimento unito ai tagli dei servizi pubblici avvenuto in tutti i Paesi dell’occidente ha comportato, alla lunga, instabilità sociale e perdita di credibilità delle istituzioni. Da qui le origini della crisi del modello sociale che a partire dagli anni 80 si è verificato in tutto il mondo occidentale. Una crisi di tal fatta non poteva che dare origine al cosiddetto “momento Polanyi“, la cui descrizione sintetica è formulata ne La grande trasformazione: “La nostra tesi è che l’idea di un mercato autoregolato implicasse una grossa utopia. Un’istituzione del genere non poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza della società […]. Era inevitabile che la società prendesse delle misure per difendersi, ma qualunque misura avesse preso essa ostacolava l’autoregolazione del mercato“. Certo, non possiamo non convenire che sia molto più facile (ancorché vacuo) chiamare tutto questo “populismo”.
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