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Mentre i Sette Grandi del Pianeta si videoconferenziano non si vede pił alcuna considerazione per il cittadino comune

Post n°5072 pubblicato il 13 Agosto 2011 da cile54

Indignarsi, un isterismo. Protestare, un crimine: ma chi decide se la parola “fallimento” vale solo per nuove generazioni? 

 

È sempre antipatico parlare d’autunno quando si è ancora nel pieno dell’estate. Un’estate strana, questa, fresca, che ha limitato afa e arsura a pochi giorni. Eppure caldissima su più fronti. In questi giorni i due argomenti che tengono banco su giornali e in televisione – la finanza e la rivolta in Gran Bretagna – scaldano lettori e telespettatori. Ma riempiono anche di interrogativi sul futuro prossimo. E non solo. Vediamo.

 

Partiamo dal primo. Le fluttuazioni dei mercati, gli assalti degli speculatori, i pericolosi ondeggiamenti delle casse pubbliche di tutto il mondo avranno riflessi diretti sulla vita dei normali cittadini, quelli che non speculano in borsa e ascoltano parole anglofone come se fossero formule esoteriche di un qualche rito che non li riguarda. Eppure l’ingenuità del “non mi riguarda” è alle spalle. Lo è perché qualsiasi manovra si ripercuoterà proprio su di loro. Verrà decisa l’immissione di liquidità a livello europeo e magari anche americano?

 

Bene, sul momento. Male però perché, nel giro di poco tempo, l’effetto sarà l’innalzamento dell’inflazione. Non lo diciamo noi, ma qualsiasi testo – anche quelli “for dummies”, per neofiti – di macroeconomia. È una legge che si è sempre verificata e che farà lievitare i costi. Occorre contenere la spesa pubblica? Bene anche qui, ma non per i cittadini. Che vedranno aumentare il loro carico fiscale e rischiano di vedersi allontanare il giorno in cui andranno in pensione. Quelli che si andranno, cioè, i lavoratori più anziani, mentre i più giovani – intendendo per i più giovani, coloro che sono under 45, se non under 50 – rimangono attaccati a precariato e disoccupazione che provocano tremiti per il presente e per il futuro (sia domani, l’autunno e la vecchiaia).

 

Il rischio “default” – e vai a capire perché non si può usare il più autoctono e chiaro termine “fallimento” – sulle spalle dunque di chi viene caricato? E non si fa facile demagogia proponendo questa domanda. Perché, proprio con questa domanda, si passa al secondo tema di queste righe, la violenza di strada esplosa in Gran Bretagna. Era già accaduto in Grecia, dopo l’assassinio di uno studente durante una manifestazione. Ed era accaduto anche nelle banlieue parigine. Le scene sono simili: gente travisata per strada, polizia in assetto antisommossa, telegiornali che seguono dall’alto il succedersi di cassonetti bruciati, auto distrutte, negozi assaltati. Oggi come allora si dice – lo ha affermato il primo ministro britannico David Cameron, rientrato precipitosamente in patria dalle sue vacanze toscane – che è criminalità comune e che come tale va schiacciata.

 

Bene anche in questo terzo caso. Di certo, dar fuoco ad auto (comprate magari a rate da qualche appartenente alla middle class) o ad appartamenti (anche questi frutto probabilmente di mutui trentennali contrattati dalla già citata classe media), non migliorerà la situazione. Ma nel momento in cui si affronta l’emergenza, non è mai possibile analizzarla? Non è possibile filtrarla con l’ottica della realtà e della prospettiva? Ottica che ci parla – ancora – di precarietà, di disoccupazione, di non saper più come sbarcare il lunario.

 

Mentre i Sette Grandi del Pianeta si videoconferenziano nottetempo cercando di imporsi l’un l’altro manovre economiche che salvino il tavolo, non si vede più alcuna considerazione per il cittadino comune. Quello che non sa più che da parte sbattere la faccia per tirare a campare. Quello che si sta già ponendo il problema di comprare i libri di testo autunnali per i figli e magari ha già trattato in banca un finanziamento di cui preferiremmo ignorare il tag e taeg, i tassi che troppo spesso si avvicinano ai quelli definiti di usura. Quello che ormai parla più con le unioni sindacali di base perché anche la Cgil – figuriamoci gli altri – non ha più la forza o la volontà per contrattazioni che portino a risultati apprezzabili per i lavoratori. Quello che quest’altr’anno si diploma o si laurea e poi? Stage? Apprendistati? Pratica sul campo a rimborso spese, se va bene?

 

Da mesi, ormai, dalla Spagna, ci sono gli indignados. Protestano pacificamente, si siedono nelle piazze, campeggiano nei parchi pubblici, fermano la gente nelle strade per spiegare le ragioni di un futuro che non c’è. Fin in Israele è arrivato il contagio degli indignati. Fin lì, perché la crisi, il lavoro che scompare, la casa data a classi specifiche e non ad altre, meno abbienti, hanno lambito anche quel Paese, in genere molto parco quando si tratta di esternare dissenso sociale.

 Eppure si continua a giocare con i termini esoterici di cui sopra, si invoca il pugno di ferro con chi non riesce a contenere più la sua rabbia. E si contano i primi morti (quello che ha innescato i fatti di Gran Bretagna e quello sparato nel corso dei disordini).

 

Come dar torto, assistendo a tutto questo, a chi si chiede se c’è davvero una via di salvezza? Una via che coniughi le ragioni del mercato con quelle del sociale, del rispetto dell’umanità. E a questo punto viene un dubbio. La famosa profezia dei Maya, in base alla quale il 12 dicembre 2012 finirà il mondo, non si riferirà forse a un mondo – inteso non come pianeta ma come sistema – che ormai sta divorando se stesso, non più in grado di parassitare altro che non sia quella che sembra sempre di più la sua salma?

 

Antonella Beccaria

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Roma, 12 maggio 1977

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