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Post n°5548 pubblicato il 19 Novembre 2011 da cile54

Neri nel paese della mozzarella

 

Gioia del Colle, che sorge su una collina a metà strada tra Taranto e Bari, è il paese della mozzarella. I gioiesi ne vanno fieri e, a rimarcare il concetto, lo hanno scritto su un cartello visibile a tutti i visitatori. "Benvenuti nel paese della mozzarella", c'è scritto sopra a stampatello, ad annunciare che lì intorno sono spuntati come funghi decine di caseifici. Le aziende casearie più grandi, come Capurso, le esportano ogni giorno in aereo nel Nord Italia, dove i latticini costano anche 3 euro al pezzo. Capurso però è solo la punta dell'iceberg. Al di sotto delle grandi aziende si dipanano parecchie ombre. Molti hanno investito nella mozzarella come fosse un terno a lotto: l'arricchimento facile di alcuni ha prodotto la compressione dei diritti per "i nuovi cafoni". E questa, proprio questa, è la storia del Caseificio America di Francesco Girardi & Figli, e di Ismail che un giorno è entrato a lavorarci. Per battere sul tempo i grandi caseifici, Girardi faceva lavorare tutti di notte, dalle 10 di sera fino alle 6 del mattino. Ma mentre i dipendenti italiani seguivano le fasi lente della trasformazione del latte in massa, i marocchini dovevano correre da una parte all'altra. Prendere il siero. Versare l'acqua bollente. Spostare la cagliata. Trasportare le lastre di ghiaccio che servono a condensare il prodotto. Caricare i contenitori. Impilarli nei furgoni.

A ripensarci oggi, Ismail prova una gran nausea, come se un enorme boccone di quella pasta bianca e gelatinosa gli si fosse fermato in gola e non volesse andare né su né giù. In due anni, al Caseificio America, il padrone non lo ha mai chiamato per nome. Lo ha apostrofato "negro", "sporco negro", "ciuccio", "testa di cazzo", "trimmone" e con tutte le varianti offensive che il dialetto delle Murge contempla. Che fossero parolacce Ismail ci ha messo un po' a capirlo.

Se Ismail ancora oggi dà tanta importanza alle parole, è perché la riduzione a una condizione subumana è stato il preludio allo sfruttamento. Per essere precisi, più che un luogo di sfruttamento il Caseificio America era un classico esempio di apartheid lavorativa, di regime segregazionista impiantato nella provincia pugliese. Sì, perché a Ismail e agli altri cinque marocchini era applicato un trattamento diverso rispetto agli altri dipendenti.

Mentre gli italiani (in tutto cinque) potevano andarsene via all'alba, loro erano costretti a rimanere fino alle 9 per pulire il pavimento, le cisterne, gli strumenti di lavoro. Mentre gli altri italiani venivano pagati in nero, ma con assegni, e con una retribuzione accettabile, loro - i marocchini - venivano pagati 16 euro al giorno, cioè 400 euro al mese, in contanti. Tanto non potevano protestare.

Non c'erano ferie, né proteste, né diritti al Caseificio America. Ma la cosa insopportabile è che per il padrone ciò era normale. Rispondeva a un ordine naturale scolpito nella sua mente secondo il quale dopo il proprietario viene il proprio animale domestico o il proprio cavallo e solo dopo, molto dopo, i marocchini da spremere come limoni.

Con 400 euro al mese, Ismail riusciva comunque a campare. Vivevano in tre in uno stanzone di 35 metri quadri, pagando 100 euro al mese di affitto. Ogni giorno si buttava sul letto esausto alle 10 del mattino e si rialzava alle 8 di sera, giusto in tempo per mangiare un boccone e tornare al caseificio. Invisibile a sé e agli altri, fino a quando non ce l'ha fatta più e - insieme agli altri cinque - ha denunciato tutto. Tuttavia, quando sono andati al comando dei carabinieri, si sono sentiti dire dal maresciallo che tutti i datori si comportano così, che il lavoro a tempo indeterminato non c'è neanche per gli italiani e che loro che cosa pretendevano? Dovevano avere pazienza... Il maresciallo quel giorno non ha accettato la loro denuncia, ma Ismail e gli altri non hanno desistito e, tramite un amico, sono entrati in contatto con Azmi Jarjawi, dello sportello immigrati della Cgil di Bari. Non ci erano arrivati prima perché diffidavano dei sindacati. In Marocco tutti dicono che i sindacati stanno dalla parte del governo, e che rivolgersi a loro non serve a niente. Quando hanno capito che in Italia è diverso, è stato Azmi a metterli in contatto con la Camera del lavoro del paese e con la Flai. La Flai ha fatto pressione su Girardi perché li assumesse con un contratto e li regolarizzasse attraverso la sanatoria del governo Berlusconi. In un primo tempo Girardi ha fatto finta di accettare, ma poi si è rifiutato. Per due volte ha negato che si svolgessero le assemblee sindacali: la seconda volta ha addirittura chiamato i carabinieri, sostenendo che c'era stato un imprecisato «accoltellamento», cosa che si è rivelata falsa. Una settimana dopo, appena ha capito di essere stato messo all'angolo, i sei sono stati licenziati.

Il resto della vicenda, in Terra di Bari, è noto. La Flai ha impugnato la decisione davanti al giudice del lavoro e la causa si è conclusa in pochi mesi, con l'obbligo del reintegro e dell'equiparazione contrattuale dei lavoratori stranieri. E'stato il primo caso, in Puglia, in cui un gruppo di immigrati ha denunciato (non individualmente, ma collettivamente) chi li sfruttava.

Dopo la sentenza, i sei non sono più tornati al caseificio. Ma poco importa: la vittoria ha segnato il loro ingresso in paese da persone visibili. Ha permesso loro di cercarsi un lavoro migliore. Ismail ora lavora in una ditta dell'appalto della Termosud. Fa il controllo di qualità sulle saldature e ha un contratto a tempo indeterminato. Quando non lavora, passa il suo tempo alla Camera del lavoro, è diventato responsabile per gli immigrati. Li incontra per strada, perché sui luoghi di lavoro sarebbe impossibile, e spiega loro i propri diritti. Oggi il Caseificio America non c'è più. Dopo aver perso la causa, Girardi & Figli hanno costretto anche i lavoratori italiani (che durante la causa si sono schierati dalla loro parte) a licenziarsi. Poi hanno aperto un altro caseificio, ma dopo pochi mesi - mormorano in paese - si è incendiato in circostanze misteriose. Poi ne hanno aperto un altro ancora, con un nuovo nome e con nuovi dipendenti.

 

Alessandro Leogrande

17/11/2011 

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Giorgiana Masi

Roma, 12 maggio 1977

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