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Attacco all'informazione libera. La riflessione di Caterina Ferraro Pelle (di Mobbing, contiamoci per contare)

Post n°5744 pubblicato il 26 Dicembre 2011 da cile54

Solidarietà, testimonianze e dichiarazioni per Liberazione

 

Nel panorama della stampa fortemente inquinata dalla cronaca nera, sorda agli appelli di chi è vittima della violenza bianca (la definisco “bianca” pensando alle cosiddette morti bianche troppo spesso dovute a mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro), Liberazione deve continuare a dar voce ai mobbizzati.

 

“L’esserci dell’essere dell’uomo è un essere-per-la-morte” (Martin Heidegger)

 

C’è un tempo, nella esistenza di ognuno di noi, nel quale la consapevolezza del carattere finito di tutti i nostri progetti di vita assume un significato non più meramente spirituale, ma corporeo. Gli arti faticano ad assecondare il desiderio di correre, per esempio, così come la memoria improvvisamente si inceppa, lasciando uno spazio vuoto, incolmabile nella nostra anima o nel cervello, facendo sì che ripescare un’immagine, un suono, un momento passato divenga impossibile. Il ricordo è perso per sempre. Se questo accade nell’ordine naturale degli eventi, e cioè quando l’età è vicina all’aspettativa media di vita, si guarda a se stessi come a un giocattolo usato, spesso fisiologicamente anacronistico, con un senso di nostalgica simpatia. Il giocattolo è ancora utile, di solito suscita nell’altro un benevolo istinto protettivo, una certa tenerezza. E’ difficile pensare di separarsi da quel qualcosa che chiamiamo vita quando siamo consapevoli che ogni giorno in più è un giorno regalato. In realtà, “nessuno è talmente giovane da esser certo di vivere ancora un giorno, come nessuno è talmente vecchio da esser certo di non vivere ancora un giorno”, ma poiché l’idea della morte, nella nostra società dei consumi è stata quasi rimossa con l’affermarsi nei media di un’immagine dell’essere umano sempre nel fiore degli anni, nel pieno del vigore fisico e traboccante della sua esuberante bellezza, inevitabilmente la visione della vita risulta distorta, riducendo al “carpe diem” il senso stesso dell’esistenza. Ne deriva che il rispetto per la vita, propria e altrui, resta privilegio, perché tale mi piace intenderlo, di quei pochi che conservano dentro di sé una somma ἰδέα, nell’accezione del termine appartenente ai platonici: unica vera realtà eterna, fuori del tempo e dello spazio.

Mi chiedo, allora, se si possa ancora parlare di idealismo, di fiducia negli ideali ovvero se anche questi siano stati ormai inghiottiti dalla cultura del nonsense, per quanto contraddittorio appaia l’accostamento dei due termini: “cultura” e “nonsense”.

Galimberti, in un bel libro dal titolo “L’ospite inquietante” di nietzschiana memoria, affronta il tema del nichilismo nei giovani, trafiggendo la coscienza del lettore che ha modo di rendersi conto di quanto il nichilismo sia protagonista del nostro quotidiano collettivo. Galimberti si sofferma sulla sofferenza dei giovani “perché i giovani, anche se non lo sanno, stanno male”. Il disagio giovanile è considerato non propriamente psicologico, ma culturale; la causa, secondo il filosofo, non va quindi ricercata nel contesto di vita individuale, ma nella società, nella quale la “diffusa mancanza di prospettive e di progetti, se non addirittura di sensi e di legami affettivi” provoca gesti violenti senza movente, che, pur occupando spazi lunghissimi di cronaca nera trasformata in spettacolo, non pre-occupano più di tanto. Insomma, nessuna azione sembra valere lo sforzo di un’indagine introspettiva che potrebbe essere anche fine a se stessa. Perfino il concetto di pentimento si è trasformato fino ad uscire dall’anima, dove per secoli ha albergato alimentato dalla morale cristiana, per essere sfruttato in quanto possibilità consentita dalla legge allo scopo di ridurre la pena quando si debba rispondere del proprio operato criminoso. Il modello di società che si è andato consolidando negli ultimi decenni, almeno in Italia, si conforma all’esigenza di impunità, all’evitare di riconoscere le proprie responsabilità e di pagare il giusto tributo di fronte alla collettività nel caso di reati più o meno gravi. Sarebbe un errore, però, non considerare che la desensibilizzazione di massa sia un metodo, una strategia tesa a dare assuefazione al dolore, attuata perché molti aspetti della violenza, della sua genesi, della fenomenologia si confondano nel mare magnum della casualità, come fossero compatibili con una certa dose di aggressività biologica istintiva e atavica e non piuttosto allarmanti segnali della perdita di una precisa identità sociale. Identità che va scadendo in un contesto studiato perché emerga solo il superfluo, e, peggio che l’inutile, il dannoso.

Abusi, maltrattamenti, menomazioni fino all'assassinio, nella maggior parte dei casi si consumano all'interno delle famiglie, nel luogo in cui si concretizzano le più intense e ravvicinate relazioni interpersonali, in un nucleo nel quale dovrebbe trionfare l’amore.

Ma le relazioni interpersonali sono contaminate se non addirittura compromesse dalle nuove forme di comunicazione che entrano nel processo di annientamento dei valori fondamentali sui quali tali relazioni dovrebbero fondarsi. Lo scambio di corrispondenza breve, striminzita anche nella struttura linguistica, se da un lato abolisce di fatto le distanze, dall’altro paradossalmente le crea. Difficile chiarire un malinteso attraverso uno scambio di mail, le parole non sono accompagnate da sguardi, rossori, pallori, mimica, autentici rivelatori di sentimenti. Sono semplicemente vocali e consonanti accostate, sovrapposte per non occupare troppo spazio, sterili, mute.

In questo quadro di non-comunicazione, la violenza attecchisce mietendo vittime a volte inconsapevoli del pericolo imminente.

Negli uffici, tra le pareti dei corridoi illuminati al neon, ogni giorno muore qualcuno. Nei luoghi dove i rapporti sono regolati da contratti, statuti, circolari e leggi, il ruolo prevale sulla personalità e il fine sulla deontologia. Va da sé che nell’ambiente di lavoro sempre più di frequente si annidano insidie e avversità. Chi incappi negli ingranaggi fatali dell’autodistruzione del sistema, non ne esce vivo. Perché è chiaro che la globalizzazione provoca la diffusione di valori contemporanei, sviliti fino alla perdita del gusto individuale, fino alla conseguenza estrema dell’eliminazione, anche fisica, di qualsiasi ostacolo si frapponga alla autorealizzazione di un io superlativo clone di un dio non più entità trascendente, ma stereotipo alla portata di tutti, emulabile. Un dio che conduce non già alla redenzione, ma, si diceva, all’autodistruzione. Non ci sarebbe tanta indifferenza di fronte agli eventi fatali alimentati da rivalità, competizione, arrivismo, gerarchie se il sistema fosse geneticamente sano. E poiché le logiche del sistema trovano la loro massima espressione negli ambienti di lavoro, nei quali il potere è esercitato con metodi spesso coercitivi, è molto facile che si verifichi la degenerazione dei rapporti di fiduciosa collaborazione tra singoli, destinata a ribaltarsi nel suo esatto opposto simmetrico: il mobbing.

 

Caterina Ferraro Pelle

 

La battaglia della Pelle e del gruppo Mobbing è stata più volte denunciata su Liberazione e Controlacrisi. Anche QUI

24/12/2011

 
 
 
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Giorgiana Masi

Roma, 12 maggio 1977

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