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Le campagne fumogene contro il costo della politica nascondono un sottomercato delle imprese nel gioco dell’economia

Post n°5892 pubblicato il 26 Gennaio 2012 da cile54

I COSTI INVISIBILI DELLA POLITICA

 

Per “costi della politica” solitamente si intendono i denari che l’erario deve sborsare direttamente per sostenere la paga e gli annessi benefici della “casta” dei politici; eletti e/o nominati nel sottobosco degli apparati pubblici. Ma questi sono solo la punta di un iceberg che nasconde altri e ben più grandi costi “indiretti” che la collettività deve sobbarcarsi in aggiunta. Penso alla corruzione legale – se così posso chiamarla – che il sistema delle imprese mette in atto attraverso i suoi apparati di pressione lobbistica ed elettorale.

 

Ho attinto qua e là da diverse fonti (Peter Bares, Capitalismo 3.0, Loretta Napoleoni e Noam Chomsky in vari pezzi pubblicati su “Internazionale”, Andrea Baranes dal sito www.sbilanciamoci.info, Matteo Cavallito sulla rivista della Banca Etica “Valori”, Maurizio Ricci su Repubblica, Claudio Gatti su il Sole-24 Ore e da varie agenzie stampa) e ne viene fuori un quadro spaventoso per la credibilità della democrazia rappresentativa a partire dal “modello” americano, rigidamente bipolare e con “scelta” nominale dei candidati.

 

L’ “industria dei gruppi di pressione” (le agenzie di lobbying) negli Usa ha un fatturato di 6 miliardi di dollari l’anno e da lavoro a 35.000 addetti (17.000 accreditati solo a Washington). Alcuni esempi: la NBNA (carte di credito) ha speso per attività di lobbying 17 milioni di dollari in cinque anni. L’industria del legname 8 milioni di dollari e le miniere del carbone 3,4 milioni solo nella ultima campagna elettorale presidenziale. Le compagnie elettriche 20 milioni. I petrolieri 35 milioni. L’industria farmaceutica mantiene un organico di 2 lobbisti per ogni membro del parlamento (chissà se anche questi li chiamano “informatori scientifici”?). Le banche schierano 2,4 lobbisti per ogni membro del parlamento e spendono 600 milioni di dollari per convincere i parlamentari a prendere decisioni a loro favore. Le assicurazioni sanitarie nell’anno della quasi-riforma di Obama (il 2010) hanno speso 300 milioni di dollari.

 

Nella passata campagna elettorale per le presidenziali Barak Obama ha avuto 800 milioni di dollari, il suo antagonista Mc Cain 400 milioni. Le principali banche di Wall Street, mentre agonizzavano nella crisi finanziaria del 2008, trovavano comunque il modo di versare a Democratici e Repubblicani cifre enormi: 6 milioni di dollari la Goldman Sachs, 5 miliardi la Citigroup, 4 miliardi la JP Morgan, 3 la Merrill Lynch. E via di seguito. Come si sa, tale disinteressata generosità portò l’amministrazione statunitense ad assumere la decisione di salvare dalla bancarotta il sistema finanziario impegnando i denari dei contribuenti e stampando banconote.

 

Si dice che il budget raccolto da Obama per la prossima campagna elettorale di novembre abbia già superato il miliardo di dollari. Mitt Romney gli sta dietro e si prospetta la più costosa competizione elettorale di tutti i tempi.

 

“Le elezioni – ha scritto Chomsky – sono l’occasione in cui gruppi di investitori si coalizzano per controllare lo stato”. La democrazia nell’era della politica-spettacolo e del controllo dell’opinione pubblica tramite i mass media è in mano delle imprese. Il costo delle elezioni è salito alle stelle. Ha osservato Thomas Ferguson: “i partiti Usa al Congresso mettono il cartellino del prezzo ai posti chiave del processo legislativo”.

 

A proposito della sentenza della Corte Suprema che permette alle imprese di finanziare le campagne elettorali, il New York Times ha scritto che la decisione “permetterà alle aziende di usare la loro immensa ricchezza per condizionare i risultati delle elezioni”.

 

Anche le compagnie petrolchimiche europee hanno finanziato alcuni senatori statunitensi scettici sui pericoli del riscaldamento climatico in occasione dell’ultima campagna elettorale di metà mandato: la Bayer ha speso 108.000 dollari, la Basf 61.000, la BP 25.000, la Solvay, 40.000 la Gdf/Suez 21.000, la Lafarge 34.000. E così via. Tutto registrato e trasparente.

 

In Europa le cose non vanno affatto meglio. A Bruxelles i lobbisti accreditati sono 15.000. Ci sono deputati che si affidano ai loro servizi per scrivere leggi, preparare emendamenti, formulare interrogazioni. In coerenza con i processi di privatizzazione, potremmo dire che è avvenuta la esternalizzazione dei portaborse e, più in generale, dei partiti. Ad esempio è stato calcolato che il Labour Party in Gran Bretagna riceve un quarto delle sue risorse da 37 grandi sponsor, che non sono i sindacati, ma imprese commerciali.

 

Dell’Italia non parliamone. Si stima che i lobbisti a Roma siano 1.200 facenti capo a varie agenzie “specializzate” di Public Affair Manager, ma non c’è una normativa, né un registro. Affollano le anticamere delle commissioni parlamentari, degli assessorati, delle presidenze. Mancano serie inchieste su quello che fanno. Forse perché c’è meno trasparenza (anche se i bilanci dei partiti, con i nomi dei relativi finanziatori per importi superiori ai 50 mila euro, vengo pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale ogni anno), forse perché le stesse imprese che finanziano i partiti editano anche i giornali.

 

Insomma, la politica, per le grandi imprese, rappresenta un sottomercato nel gran gioco dell’economia. E c’è ancora qualche ingenuo che crede di poter scegliere chi votare, magari attraverso primarie e preferenze, come se i candidati capaci di emergere alla luce dei riflettori delle televisioni non fossero pesantemente sponsorizzati ed etero diretti.

 

E’ evidente che le enormi cifre che le grandi imprese, singolarmente e/o consorziate tra loro in “cartelli”, mettono a bilancio per far vincere le elezioni a questo o a quel candidato rappresentano dei veri e propri costi di produzione delle merci e dei servizi che contribuiscono a far lievitare il loro prezzo al consumo. Una specie di pizzo che dobbiamo pagare ogni volta che acquistiamo una merce. Insomma, si tratta di costi che alla fine vengono pagati dai cittadini nella veste di consumatori che si aggiungono a quelli che già pagano nella veste di cittadini-elettori per il finanziamento pubblico dei partiti e dei deputati.

 

Lo scandalo più grosso – e più pericoloso per la credibilità della democrazia – a me pare proprio questo: i denari pubblici a carico dell’erario possono essere giustificati solo se servono a garantire al decisore politico la assoluta autonomia e indipendenza dagli interessi economici in campo. Cioè, a tener fuori dalla porta dei partiti e dei parlamenti le lobby.

 

Ha scritto Arundhati Roy (Quando arrivano le cavallette, Guanda, 2009) a proposito del crepuscolo della democrazia: “Che cosa ne abbiamo fatto della democrazia? In che cosa l’abbiamo trasformata? Che succede una volta che si è consumata, svuotata, privata di senso? Cosa succede quando ciascuna delle sue istituzioni si è fatta metastasi fino a trasformarsi in una entità maligna e pericolosa? Cosa succede ora che capitalismo e democrazia si sono fusi in un unico organismo predatorio dell’immaginazione limitata e costretta, incentrata quasi esclusivamente sull’idea della massimizzazione del profitto? (…) Viene da chiedersi se sia rimasto qualche legame tra elezioni e democrazia”.

 

Paolo Cacciari

25/01/2012

Fonte: Democrazia km 0

 
 
 
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