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Storia di una ragazza nigeriana, i drammi di donna sfruttata, la nascita di una relazione, il riscatto della dignitą di persona

Post n°7003 pubblicato il 26 Ottobre 2012 da cile54

Vivian cambia vita

Quando ci siamo incontrate nel mio studio la prima volta era accompagnata da un uomo. Si vergognavano entrambi. Lui italiano di mezz’età, anonimo e un po’ dimesso. Lei bellissima. Alta almeno un metro e ottanta, lunghi capelli intrecciati. Occhi color ebano come la pelle. Sguardo in trappola. Vivian è nigeriana e ha diciotto anni, quando è entrata in Italia ne aveva sedici. Come le altre non sapeva cosa avrebbe dovuto sopportare nel nostro Paese. E’ stata venduta, come le altre, e messa in strada: carne da sesso. Ma lei non me ne parla. E lui neanche. Lui è un suo cliente che sotto la carne ha un’anima e sotto le carni riconosce ancora le persone. I clienti delle prostitute non mi fanno simpatia. Eppure è spesso un cliente che si innamora o comunque si affeziona a queste ragazze impaurite e cerca di aiutarle.

Lei nega. Non mi guarda negli occhi. Non lo farà mai al nostro primo incontro e neanche la volta dopo. Io non merito la sua paura e la sua vergogna, sono, mio malgrado, troppo distante da lei, e sono una donna, come la sua maman che la picchia e la mette tutte le sere sulla strada: non bisogna fidarsi delle donne. Degli uomini di più. Uomini sono i clienti. Fanno schifo ma quasi mai male, non male come la maman almeno. E poi pagano. Con quei soldi , come le altre, paga il suo riscatto, per avere la sua vita indietro. Una vita monca di giovinezza e di innocenza, ma comunque vita. E poi io sono bianca, non capirei comunque.

Non mi guarda e parla a monosillabi. Non parla italiano, solo l’inglese africano. La barriera linguistica è un’ottima difesa per non rispondere alle domande. Anche quando il suo cliente-accompagnatore si allontana per discrezione. Non è di lui che si vergogna ma di me. Io potrei giudicarla, da donna a donna. Mi consegna solo le carte che le ha fatto firmare la polizia: un decreto di espulsione. Le dico di tornare e di scrivermi la sua storia: com’è arrivata in Italia, se qualcuno le ha fatto del male nel suo paese o nel mio, di cosa ha paura… per capire se è possibile richiedere un permesso di soggiorno come rifugiata o asilante o per protezione umanitaria.

Lei continua a non guardarmi.

La seconda volta viene da sola, mi porta un altro foglio, la polizia l’ha fermata un’altra volta e lei si è ricordata di me. Ancora non mi guarda negli occhi ma si fa abbracciare quando se ne va.

Quando torna la terza volta le parlo della possibilità per le vittima di tratta di essere umani di sottrarsi agli sfruttatori, fare denuncia e richiedere un permesso di soggiorno. Le illustro tutte le difficoltà e gli ostacoli posti dalla nostra legge per chi chiede un permesso di soggiorno per protezione sociale e tenta di affrancarsi dallo sfruttamento. Le spiego il famigerato articolo 18, le dico che anche se le circolari ministeriali specificano che il permesso per protezione sociale deve essere rilasciato a tutela della vittima di tratta ed indipendentemente dall’utilità delle sue dichiarazioni ai fini di eventuali indagini sui trafficanti, spesso polizia e magistratura richiedono una collaborazione attiva della vittima, con denuncia dettagliata dei fatti.

Ma la incoraggio anche raccontandole di altre ragazze che sono tornate alla vita (quella vera) grazie alle assistenti sociali che lavorano all’interno del progetto Sunrise del Comune di Genova per la protezione delle vittime di tratta e di sfruttamento sessuale. Le racconto che quelle assistenti sociali hanno “salvato” 120 donne, tutte faticosamente sottratte alla strada, alla tortura, al dolore. Tutte straniere, portate in Italia come lei con l’inganno e la violenza e costrette a vendersi sui marciapiedi, che un giorno hanno deciso di fidarsi. Magari hanno preso un caffè offerto dai furgoni itineranti degli operatori di strada, approfittando della lontananza della maman, hanno scambiato due chiacchiere e si sono annotate il numero verde. Poi un giorno, terrorizzate dalle botte, hanno telefonato o hanno direttamente bussato alla porta delle assistenti sociali e hanno chiesto aiuto. Sono state ascoltate, accudite e accolte in strutture protette. Hanno accettato delle regole, si sono iscritte a corsi di lingua e formazione lavoro, hanno parlato con poliziotti e magistrati ed infine sono tornate libere. Ferite sempre, ma libere. E con un permesso di soggiorno in tasca.

Lei, non dice niente ma ascolta.

Poi, giorni dopo, fermata ancora dalla polizia, interrogata dal giudice, Vivian decide finalmente di raccontare tutto: il viaggio, lo sgomento, la schiavitù, le botte, la strada. E fa i nomi dei suoi aguzzini. Così ottiene il permesso di soggiorno, l’ospitalità di una comunità, la frequentazione di un corso di lingua italiana e l’inserimento nel mercato del lavoro.

Ieri Vivian è tornata a salutarmi, mi mostra orgogliosa il suo permesso di soggiorno. Mi regala il suo primo sguardo pieno ed il suo primo sorriso. Mi parla delle altre, le “colleghe” ancora in strada, vorrebbe aiutarle, condividere con loro la sua salvezza.

Sa che non parleranno perché quando loro hanno fatto il giuramento (il patto con cui si rendono schiave in cambio del viaggio in Italia) hanno promesso di non tradire né denunciare mai i protettori. Il rito del giuramento è una sorta di rito voodoo: le ragazze che lo fanno credono che lo stregone nelle cui mani hanno fatto la promessa possa controllarle ovunque e punirle in caso di tradimento. Allo stregone del villaggio viene attribuita una sorta di onnipotenza malvagia.

E Vivian? Lei perché ha tradito il giuramento? Non ha paura? Lei mi legge negli occhi la domanda non detta e mi dice che lei è fortunata: quando ha giurato, lo stregone del suo villaggio era malato (neanche troppo onnipotente, quindi) e la promessa l’ha fatta nelle mani di un suo vice, di certo meno potente. Forse lei non pagherà con la vita il suo atto di ribellione. Non è che non abbia paura, perché la mafia nigeriana, al di là dei riti, è molto potente, ma ha imparato a sue spese ad averne più degli uomini che degli dei.

Alessandra Ballerini

Fonte: www.corriereimmigrazione.it

 
 
 
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