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In un Paese martoriato dalla criminalità, lasciare a casa i lavoratori significa metterli nelle mani del mercato nero

Post n°7990 pubblicato il 16 Luglio 2013 da cile54

Siamo invisibili. Protestano da 17 giorni sul silos

La protesta soffocata. In Calabria, dove la precarietà è pane che si consuma sui banchi del supermercato, anche le proteste dei lavoratori diventano precarie. È il caso degli operai del gruppo Italcementi di Vibo Valentia, arrampicati su un silos a 90 metri d’altezza da 17 giorni. Le condizioni sono estreme, spazi ridottissimi, assenza di servizi e il sole che picchia a 40 gradi sopra un basamento di catrame. I quotidiani nazionali – noi giornalisti – ce li siamo dimenticati lassù, persi dietro alle crisi di governo per i processi a Silvio Berlusconi, alle beghe di partito e ai saldi estivi. Ma quei lavoratori – ottandadue – rischiano di rimanere a casa da un giorno all’altro, perché il gruppo industriale che produce cemento vuole liberarsi di quello stabilimento e perché la politica sembra incapace di reagire. «Siamo arrostiti dal caldo infernale – ci racconta Gianni Patania dello Slai Cobas – ma resistiamo. Perché non si può lasciare andare uno stabilimento di questa portata e lasciare a casa noi e l’indotto».

Il gruppo Italcementi ha deciso da tempo di chiudere il sito di Vibo Marina (la parte a mare del comune di Vibo Valentia), ma lo stabilimento dava da lavorare a 82 dipendenti e altri 300 di indotto diretto, tra imprese di pulizia, guardianaggio e simili. Famiglie monoreddito, con figli e mutuo da pagare: ormai non arrivano alla seconda settimana del mese.

Chiusura preventiva. Per capire i motivi della protesta è necessario fare un passo indietro, all’8 giugno 2012, quando improvvisamente è arrivata la comunicazione di un’imminente fermo della produzione. «Producevamo dai 15 ai 17 mila quintali di cemento al giorno e di punto in bianco ci hanno detto che l’azienda avrebbe chiuso». Il 1 luglio 2012 tutti i dipendenti sono stati messi in cassa integrazione. Da lì ci sono stati diversi incontri con le istituzioni, ma a distanza di un anno ai lavoratori sembrano solo chiacchiere. A cui si aggiunge l’incapacità politica di affrontare il problema. «Visto che tutte le proposte fatte in questi mesi non hanno portato a niente, abbiamo deciso di occupare il silos e di istituire un presidio permanente», spiega Patania. «E la cosa più grave è che quello di Vibo Marina è l’unico sito del gruppo chiuso al sud. Tutti gli altri (Salerno, Matera, Castrovillari, Colleferro, Porto Empedocle e Isola delle Femmine) sono stati riconvertiti con il sistema della macinazione. Eppure il nostro è uno stabilimento all’avanguardia».

Crisi economica o altri progetti? «L’azienda ha giustificato la chiusura con la crisi del mercato. Ha detto di non voler delocalizzare la produzione», continua Patania. Ma questo fa a pugni col progetto di riqualificazione dello stabilimento di Rezzato (Brescia), lanciato a ottobre 2012, al cospetto dell’allora ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera. L’investimento varrà 150 milioni di euro e sarà una cementeria tra le più moderne ed ecologiche di Europa, scrive sul proprio sito la Italcementi, che per quel comune ha pure realizzato una nuova pista ciclabile. Ma se il mercato è in crisi, allora com’è possibile che si faccia uno nuovo sito, si domandano gli operai di Vibo. Di fatto azienda e politici stanno creando una spaccatura sociale tra nord e sud del Paese. Con l’aggravante che la Regione Calabria amministrata dal Pdl Giuseppe Scopelliti, non è in grado di trovare una soluzione. Il presidente propone una conversione turistica dell’area. «Ma di che turismo parliamo? Non abbiamo nemmeno gli autobus per muoverci da una parte all’altra della città», dicono.

Consulenti d’eccezione. Un accordo siglato in Prefettura qualche giorno fa, prevede di affidare un incarico ad una società di consulenza che studi le eventuali prospettive economiche d’investimento. Poi si troveranno gli investitori. La preoccupazione dei lavoratori Italcementi è che si voglia allungare il brodo, senza giungere ad una soluzione prima che anche la cassa integrazione finisca. Ma soprattutto temono che l’azienda se ne laverà e mani, senza impegnarsi direttamente con investimenti per un futuro eventuale progetto. E così alla riunione spunta il nome della Nonisma Spa. Una società di consulenza, fondata nel 1981 da un gruppo di economisti, tra cui Romano Prodi. Nel 1986 la Nonisma fu coinvolta in uno scandalo giudiziario legato ad un contratto di consulenza con il ministero degli Esteri e la procura di Roma aprì un’inchiesta per peculato. Oggi, tra i vari nomi d’eccellenza dei membri del Comitato scientifico, appare anche quello di Giorgio Prodi, figlio del Professore.

Decreto del (lasciar) Fare a chi inquina e rischio criminalità organizzata. La grande paura dei lavoratori di Vibo è che lo scopo della Italcementi sia quello di rimettere in sicurezza il sito e poi andarsene, senza attuare un’adeguata bonifica – che costerebbe oltre 200 milioni di euro -. In questo modo si preclude di fatto la possibilità a chiunque voglia fare altri tipi di investimenti nell’area, a meno di accollarsi una spesa gigantesca. Una situazione verosimile, perché il prezioso regalo alle industrie “sporche” è contenuto nell’articolo 41 del tanto declarato Decreto del Fare (Legge 69 del 21/06/2013). L’allarme era arrivato dalle associazioni ambientaliste, all’indomani dell’approvazione del decreto legge. «Un fatto gravissimo – dice Patania (Rsu) – che in un momento come questo espone i lavoratori al pericolo dell’abbandono totale». E attacca: «In un paese e in una regione come la nostra, martoriata dalla criminalità organizzata, lasciare a casa i lavoratori significa metterli nelle mani del mercato nero, controllato dalle mafie. Come la combattono la criminalità? Distruggendo l’occupazione e foraggiando quel mercato?».

Massimo Lauria

15/7/2013 www.popoff.globalist.it

 
 
 
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